Erdogan il sultano mancato diM.ElAyoubi

Mostafa El Ayoubi
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La Turchia è un Paese in concorrenza sia politico-militare sia religiosa con le altre potenze del Medio Oriente, in particolare Arabia Saudita e Iran. Con la prima, si trova in conflitto sulle questioni che riguardano un altro importante paese dell’area, l’Egitto: la Turchia sostiene i fratelli musulmani, defenestrati dal colpo di Stato del generale al-Sisi, mentre l’Arabia Saudita appoggia – anche economicamente – il governo dei militari. In Siria, invece, gli interessi della Turchia e dell’Arabia Saudita convergono. L’Iran resta comunque l’avversario più difficile.

La Turchia, per la sua storia e per la sua posizione geografica, è un attore politico di rilievo nello scacchiere geopolitico del mondo islamico, in quello arabo in particolare. Essa si contende oggi, con l’Arabia Saudita e l’Iran, il primato nella regione del Medio Oriente sia dal punto di vista politico-militare che da quello religioso.

Rispetto all’Arabia Saudita, a livello demografico, socio-culturale e politico la Turchia è molto più evoluta. I sauditi invece dispongono di una enorme ricchezza di petrolio, che i turchi non hanno. I due Paesi si contendono soprattutto l’egemonia religiosa. Entrambi sono in maggioranza sunniti. Ma i sauditi confessano la dottrina wahabita/salafita, mentre i turchi fanno riferimento ad un islam politico e sono ideologicamente più vicini al movimento dei Fratelli musulmani (Fm). Il principale terreno di scontro tra questi due Paesi oggi è l’Egitto. Il colpo di Stato del luglio 2013 che ha spazzato via i Fm dal potere è stato definito dalla Turchia come un attacco grave alla democrazia, e infatti non riconosce il generale al-Sisi come presidente. L’Arabia Saudita invece non solo lo ha riconosciuto come legittimo capo di Stato, ma lo sostiene economicamente con fior di miliardi di dollari.

Lo scontro sunnita-sunnita pende oggi a favore dei sauditi, che con i loro petrodollari sono riusciti a difendere la propria dottrina religiosa in giro per il mondo islamico. Dottrina alla quale fanno riferimento i jihadisti di al-Qaeda e i suoi derivati: Isis, al Nusra ecc. L’Iran resta tuttavia l’avversario più difficile per la Turchia. I due Paesi demograficamente più o meno si equivalgono. Il peso storico-culturale dei persiani non è di minore importanza di quello turco nell’evoluzione storica dell’islam. L’Iran ha però un vantaggio sulla Turchia: dispone di ingenti riserve di gas e petrolio.

Sullo sfondo di questa «competizione» geopolitica vi è la delicata questione religiosa: i turchi sono in maggioranza sunniti, mentre gli iraniani in gran parte sono di fede sciita. Questi ultimi hanno forti legami religiosi in diverse parti del mondo islamico. Sono imparentati dottrinalmente anche con una parte della popolazione turca, ovvero gli aleviti. Nella sua corsa per imporre la propria egemonia sul mondo arabo mediorientale, il governo turco – guidato dal partito islamista Akp di Erdogan – non ha esitato a giocare la carta confessionale: sunnita versus sciita. Erdogan, con il sostegno della Nato, ha aperto le frontiere con la Siria – fedele alleato dell’Iran – a decine di migliaia di jihadisti sunniti di al-Qaeda e al suo figlio ribelle, l’Isis, per abbattere il regime siriano guidato da un alawita «sciita». L’obiettivo ultimo di Ankara è quello di limitare l’influenza di Teheran nella regione. La guerra imposta a Damasco è in gran parte affidata ai jihadisti sunniti, a nord sostenuti dai turchi e a sud dai sauditi (via governo giordano). Gli interessi della Turchia e dell’Arabia Saudita in Siria convergono (per il momento!). Entrambe usano la leva confessionale. Le vittime di questa strategia sono gli alawiti, i cristiani, gli yazidi, i drusi e anche i sunniti che non aderiscono alla loro ideologia takfirista.

Ma ora che i jihadisti sunniti stanno portando a termine il loro compito di guerra per procura per destrutturare il Medio Oriente, la Turchia riuscirà ad imporsi come principale potenza regionale? Contro l’Arabia Saudita, la Turchia ha gioco facile. Il dispotico regime saudita è fragile e si tiene in piedi solo grazie alla protezione degli Usa. La Turchia, con tutte le contraddizioni interne, è una democrazia «in via di sviluppo» e il popolo turco, vaccinato ormai contro ogni forma di totalitarismo, gode di una relativa libertà e ha sviluppato una coscienza politica e civica che gli consente di vigilare contro ogni deriva autoritaria.

Il 7 giugno scorso si sono svolte le elezioni legislative in Turchia. E l’Akp, al potere da 13 anni, ha ottenuto il 40,8% dei voti, nel 2011 aveva raggiunto il 49,8%; ha perso quindi la maggioranza assoluta al Parlamento. Questo dato non consente al suo carismatico leader Erdogan di cambiare la Costituzione e trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale. Il «sultano» si dovrà accontentare di un ruolo simbolico nel suo sontuoso palazzo presidenziale da lui inaugurato nell’ottobre 2014 e che è costato oltre 360 milioni di dollari alla collettività.

Il ridimensionamento politico di Erdogan è stato colto con soddisfazione dal governo di Damasco, il quale spera in un nuovo governo turco che rispetti la sovranità della Siria e cessi di sostenere i gruppi jihadisti. Il partito repubblicano del Chp – che ha ottenuto in queste elezioni il 24,5% dei voti – è il principale avversario dell’Akp. Esso si è sempre opposto all’ingerenza di Erdogan in Siria.

Il governo iraniano, dal canto suo, si è congratulato con l’elettorato turco per la sua «maturità democratica espressa in questa ultima consultazione elettorale».

L’entrata nel parlamento turco dell’Hdp, guidato dai curdi – che è riuscito ad ottenere il 13% dei voti superando lo sbarramento del 10% – avrà il suo peso nel futuro della politica estera del Paese, specie in Siria, dove i curdi di Kobane sono stati vittime di una violenta aggressione dell’Isis sotto lo sguardo complice dell’autorità turca.

Inoltre Erdogan rischia di perdere il sostegno degli Usa. La Turchia sta negoziando con la Russia un progetto di gasdotto, il «Turkis stream». La mossa di Erdogan non è stata apprezzata dagli americani, i quali stanno da tempo cercando di limitare l’avanzata russa come potenza mondiale che conta, anche nel Medio Oriente.

Come si comporterà Washington nei confronti di Erdogan? È difficile prevederlo. La Turchia è un Paese strategico per gli Usa/Nato. Chi la governa non può fare, tuttavia, di testa propria; pena la sua sostituzione. E ciò vale oggi anche per Erdogan!

Cresce invece sempre di più la notorietà del governo iraniano a livello regionale anche presso la popolazione sunnita, perché vede in esso un baluardo contro i terroristi sunniti di al-Qaeda e dell’Isis e contro l’egemonia coloniale delle potenze occidentali.

I termini dell’accordo sul nucleare, in fase di conclusione, sembrano favorire Teheran (nonostante le pressioni di Tel Aviv per far fallire le trattative). E l’eventuale sospensione delle sanzioni economiche potrebbe rendere l’Iran ancora più influente economicamente e geopoliticamente nel mondo arabo, mentre la Turchia si dovrà accontentare di un ruolo secondario e sempre più subordinato agli interessi degli Usa.