Ha perso l’Europa, ha perso la democrazia di GR.Spena

Giacomo Russo Spena
www.micromega.net

Non ha perso Alexis Tsipras. Ha perso l’Europa. Abbiamo perso tutti noi. Prima di entrare sul piano economico, e di analizzare nel dettaglio l’accordo chiuso stamattina all’EuroSummit, è necessario soffermarci sul come in Europa si sia consumato uno scontro prettamente politico. I falchi dell’Unione Europea, capeggiati dal ministro tedesco Schauble, hanno voluto umiliare la Grecia, “rea” di aver sfidato la Troika e il regime di austerità. Ad essa, non ci può essere alternativa. È la vendetta germanica.

Chi si oppone viene accompagnato fuori dalla porta, magari per una Grexit momentanea di 5 anni come proposto ieri durante l’Eurogruppo. Hanno voluto umiliare il Paese ellenico, la sua resistenza e il suo OXI espresso legittimamente lo scorso 5 luglio. “Oltre i sacrifici imposti coi memorandum, in questi anni, ora vogliono il nostro sangue”, dicono ad Atene. Punirne uno per educare tutti gli altri ed evitare così qualsiasi possibile contagio democratico. Hanno voluto piegare la sovranità popolare. Una brutta pagina per quest’Europa a trazione tedesca. Per l’economista Paul Krugman ieri “hanno ucciso il progetto europeista”, quello pensato da Altiero Spinelli, l’Europa dei popoli, della solidarietà, dei diritti e della pace.

L’accordo imposto a Tsipras è pessimo, di fatto impone il ritorno della Troika in Grecia e nuove politiche recessive. E soprattutto ora dovrà combattere su altro fronte, quello interno, dove la minoranza di Syriza ha già annunciato di non votare tale “umiliazione per i greci”. Il partito rischia di spaccarsi a soli 6 mesi dalla vittoria elettorale del 25 gennaio. Una vera Caporetto. Ma in tale quadro, sono indecorosi gli attacchi che il premier ellenico sta subendo dai vari Matteo Salvini, Beppe Grillo e No-Euro vari. Laura Castelli, cittadina grillina, twittava stamattina: “Per molti #tsipras è incredibile e deludente. Purtroppo si era intuito e ora sta giocando sulla pelle di tutti gli europei, non solo i greci”. Si era intuito? E pensare che il 5 luglio le cronache raccontavano di una delegazione M5S a sostegno proprio del governo greco… Da nuovo Che Guevara a “traditore del popolo” in poche ore. Il classico isterismo italico.

La verità è che Tsipras si è trovato, ieri, in una condizione nella quale uscirne illeso era difficilissimo. Qualsiasi mossa si poteva rivelare errata e controproducente. Abbandonare quel summit, significava Grexit un’opzione che la maggioranza dei greci non vuole e soprattutto Paese in bancarotta. Per andare dove? Sotto l’egemonia dei capitali russi e cinesi? La Grecia, tra l’altro, è membro Nato, Obama l’avrebbe permesso?

Matteo Renzi spiegava – erroneamente – il 4 luglio, giorno precedente al referendum in Grecia, come la consultazione fosse tra euro e dracma. La vittoria dell’OXI avrebbe significato la fuoriuscita dalla moneta unica e il ritorno della dracma. Niente di più falso, a dimostrarlo la cronaca di queste ore. Tsipras non ha preso in considerazione l’uscita dall’euro. Secondo lui la Grecia non era pronta per tale opzione. L’alternativa era chiudere un compromesso onorevole. Tertium non datur. L’Europa delle banche e della finanza non ha permesso quell’“onorevole”.

Tsipras, in questi mesi, ha condotto una coraggiosa e dignitosa battaglia a Bruxelles riuscendo a far discutere finalmente il Parlamento di Strasburgo di effetti dell’austerity, ristrutturazione del debito, conferenza di Londra del 1953 e rapporto Paesi creditori-debitori. Si è parlato, tardivamente, del destino dell’Europa, di diritti e sovranità popolare. Di democrazia. Già dimenticato? Questo Paese di 9 milioni di abitanti, isolato all’interno dell’Eurogruppo, sta lottando per aprire una breccia.
Da solo era ovvio non potesse vincere le Istituzioni. Ai movimenti sociali, ieri non pervenuti, e magari a Podemos (in Spagna si voterà a novembre), Sinn Fein etc continuare il lavoro iniziato dai greci. La Spagna, quarta economia europea, l’avrebbero trattata come la Grecia? Quanto è pesato l’isolamento ellenico in questa partita? Sono soltanto alcune delle domande ora da porsi e, nello stesso momento, aprire un vero dibattito sulla possibilità o meno di riformare quest’Europa ad egemonia tedesca.

Per evitare una Caporetto e spaccare il suo partito, Tsipras ha davanti una sola soluzione: dare le dimissioni. Il suo scalpo, come chiede cinicamente quella Troika che, forse, con l’accordo dell’Eurosummit ha già vinto. Non essere lui l’artefice di fatto di un ennesimo memorandum. Esso aprirebbe a disordini di piazza e malcontento sociale. Lo snaturamento del programma originario del leader greco. Far gestire questa fase ad un governo tecnico per poi ritornare al voto in autunno, con la facile vittoria in tasca visto che al momento non ha rivali in termini di consenso (l’ultimo sondaggio dà Syriza al 40 per cento).

Altrimenti, Tsipras rischia di perdere il “suo” popolo, quello dell’OXI, e la minoranza del partito per imbarcare forze centriste, e soprattutto corre il pericolo di spianare la strada ai nazisti di Alba Dorata, lì nell’angolo in attesa del proprio turno. In caso di fallimento del governo Syriza, non è detto che i greci non vedano in Alba Dorata l’unica carta ancora da spendere a Bruxelles. E sinceramente l’Europa non si merita quest’ennesima pagina cupa della propria storia.

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La tragedia greca e gli errori di Tsipras

Marco Zerbino
www.micromega.net

“Hanno crocifisso Tsipras. Lo hanno crocifisso”. Non lasciano spazio ad ambiguità le parole di un alto funzionario Ue presente all’Eurosummit di ieri notte citate dal Financial Times. Crocifissione, tortura, “waterboarding mentale”. Tutti termini sinistri che nell’interminabile notte del vertice europeo più lungo di sempre rimbalzano da un testata all’altra, facendo improvvisamente la loro comparsa con tanto di minaccioso grassetto nei titoli del “live update” del sito del Guardian, al quale migliaia di persone sono rimaste incollate per buona parte della nottata di ieri. La mattina dopo, l’atmosfera è esattamente quella che l’uso di un linguaggio così inusuale nell’ambito di un resoconto giornalistico relativo a un vertice diplomatico lasciava presagire, e cioè a dir poco lugubre: l’“accordo” è stato raggiunto, ma la capitolazione da parte greca è totale. Un “ci eravamo sbagliati” clamoroso, ad appena una settimana di distanza dal referendum del 5 luglio che aveva sancito la vittoria del “No” al ricatto della Troika e galvanizzato popolo, governo e partito (Syriza).

A voler guardare le cose come realmente stanno, senza pathos partigiani che al momento dell’analisi è sempre bene mettere da parte, senza wishful thinking e senza indoramenti di pillola consolatori, l’intesa fra il governo guidato da Alexis Tsipras e le cosiddette “istituzioni” è decisamente peggiore di quella che il primo ministro greco ha voluto far rigettare ai propri concittadini con la consultazione straordinaria di pochi giorni fa. La resa alla logica dell’austerità, che Syriza aveva dichiarato in campagna elettorale di voler mandare in soffitta tirando fuori il paese dalla spirale dell’indebitamento-che-chiama-recessione-che-chiama-altro-indebitamento, è assoluta.

Per convincersene basta un rapido sguardo alla dichiarazione finale prodotta dopo diciassette ore di negoziato dal vertice europeo di ieri: la Grecia dovrà “razionalizzare” l’IVA, eliminando le esenzioni di cui si è discusso in questi mesi e provocando così un rialzo dei prezzi in un paese in cui il potere d’acquisto delle famiglie è andato diminuendo costantemente negli ultimi cinque anni; dovrà procedere a una riforma (leggi taglio) delle pensioni; dovrà rimettere in discussione la contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro in maniera da rendere più vulnerabili e ricattabili i lavoratori e contenerne i salari (il che nella logica distorta del pensiero unico monetarista dovrebbe rendere l’economia greca più “competitiva” attraendo maggiori investimenti, e pazienza se una volta investiti dei capitali non ci sarà all’interno del paese chi ha i soldi per comprare le merci o i servizi che con quei capitali verranno prodotti…); dovrà liberalizzare il liberalizzabile ma soprattutto procedere con le privatizzazioni in settori chiave come quello energetico; dovrà, infine, non solo accettare il ritorno degli ispettori della Troika ad Atene, ma consentire alla creazione di un fondo (che i tedeschi volevano inizialmente basato in Lussemburgo e che Tsipras è infine riuscito a tenere all’interno dei confini nazionali) deputato a svendere al migliore offerente 50 miliardi di euro di beni di proprietà dello Stato greco.

Il tutto in cambio, forse, di un terzo piano di salvataggio per un ammontare complessivo di 86 miliardi di euro proveniente dal fondo salva-Stati Esm. Già, perché quello di ieri notte/stamattina non è un accordo già concluso: Atene dovrà infatti dimostrare la propria buona volontà, indossando i panni del bravo scolaro e dismettendo le orecchie d’asino, facendo approvare dal parlamento greco entro la giornata di mercoledì 15 luglio i primi provvedimenti previsti dal piano, quelli giudicati più impellenti dai creditori, e solo allora potrà cominciare il vero negoziato per la concessione del prestito. Che probabilmente non si concluderà prima dell’estate, tanto che è già previsto un “prestito ponte” per traghettare il paese verso il nuovo accordo…

Ma la domanda vera da porsi, a questo punto, è la seguente: serviranno questi “sacrifici” (come se il popolo greco ne avesse finora fatti pochi) a far uscire il paese dalla già menzionata spirale dell’indebitamento e della recessione? Non c’è bisogno di avere una laurea in economia per capire che la “soluzione” imposta alla Grecia dai vertici europei e accettata come una dura necessità da Tsipras non farà che prolungare la logica dell’“extend and pretend”, per usare le parole dell’ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis: le draconiane misure di austerità, la probabile ulteriore compressione dei salari, unita a una riduzione dei servizi forniti dallo Stato ai cittadini (che dovranno a quel punto andarseli a cercare sul mercato, spendendo parte dei pochi soldi che hanno) non faranno altro che alimentare la recessione, rendendo ancora più difficile per lo Stato greco il ripagamento dei debiti contratti con i creditori istituzionali e con gli investitori privati.

“Ma”, si dirà, “proprio in tema di debito, Tsipras è riuscito almeno a mettere all’ordine del giorno la questione della sua ‘ristrutturazione’”. In effetti, questo è stato uno dei cavalli di battaglia del premier negli ultimi giorni: poiché lo stesso Fmi ha riconosciuto che il debito greco, così com’è, è insostenibile e non potrebbe essere ripagato neanche nel 2030, è necessario a tutti i costi far passare, come parte di un nuovo accordo per un nuovo piano di salvataggio, l’idea che esso vada in qualche modo sfoltito o, appunto, “ristrutturato” (rimodulando i tempi previsti per il suo rimborso e gli interessi a questo associati). Ebbene, il “compromesso onorevole” strappato ieri notte dal leader greco prevede in effetti una gentile concessione in tal senso da parte dei falchi nordeuropei: esclusa ogni possibilità di “tagli nominali” del debito, “l’Eurogruppo rimane pronto a considerare, se necessario, l’opportunità di ulteriori misure da adottare in tal senso”, lasciando dunque intendere che, in realtà, quel che si poteva fare è stato già fatto dagli Stati membri “nel corso degli ultimi anni” e che la possibilità di adottare qualsiasi nuova misura analoga dipenderà dalla “piena attuazione delle misure da concordare nel quadro di un eventuale nuovo programma di aiuti, venendo presa in considerazione dopo la prima valutazione positiva relativa al completamento del programma stesso”. Tradotto dal burocratese: “Ne riparliamo poi, semmai”.

C’era un’alternativa? Il primo ministro greco, la maggior parte dei membri del suo governo e la maggioranza del suo partito sostengono di no. La sinistra interna di Syriza, riunita (anche se non interamente, visto che ne rimane fuori il piccolo gruppo denominato Tendenza Comunista di Syriza) attorno alla Piattaforma di sinistra capeggiata dal ministro dell’energia Panagiotis Lafazanis, si appresta invece a dare battaglia contro la nuova intesa. L’esito più probabile nel momento in cui scriviamo è quello di una spaccatura del partito, che perderebbe la sua ala sinistra contraria all’intesa, e di un cambio di maggioranza parlamentare, con forze politiche già di opposizione come Nuova Democrazia, Pasok e To Potami che entrano a far parte di un nuovo esecutivo di unità nazionale. La fine conclamata dell’“eccezione Syriza”, il rientro definitivo nei ranghi di Tsipras e soci e la definitiva consegna della bandiera dell’antiausterità nelle mani dei nazisti di Alba Dorata e degli stalinisti ultrasettari del Partito Comunista di Grecia. Una tale catastrofe che, alla domanda sull’esistenza di un’alternativa, bisogna rispondere in maniera secca: doveva e deve esserci.

Syriza è un partito all’interno del quale un leader carismatico come Tsipras ha un peso notevole, ma non è un’entità monolitica. Al contrario, è un organismo vivo, che discute e in cui convivono culture politiche diverse. È una responsabilità precisa della sua dirigenza attuale quella di non aver voluto in questi ultimi mesi (e anzi anni) ascoltare quanti, dall’interno e in maniera leale, mettevano in guardia dall’ingenuità di una linea politica votata alla costruzione di un’“Europa sociale”. E non per un rigurgito nazionalista, né per mancanza di “internazionalismo” (che è altra cosa rispetto al culto di un’Ue antidemocratica), ma in virtù di un’analisi puntuale dei difetti strutturali dell’Unione economica e monetaria, quale ad esempio quella condotta dall’economista e attuale parlamentare di Syriza vicino alla corrente di Lafazanis Costas Lapavitsas.

È stata una responsabilità precisa dell’attuale dirigenza di Syriza condurre per mesi un negoziato, di cui solo ora apprendiamo i retroscena scabrosi grazie ad ex ministri ed “insiders” della delegazione greca, senza preparare nel frattempo il necessario piano B: quello che avrebbe dovuto portare il partito e il paese a confrontarsi in maniera seria, operativa, con l’eventualità di un’uscita dalla moneta unica. Lo stesso ex ministro Varoufakis ha parlato in queste ore, in un’interessantissima intervista concessa al settimanale britannico The New Statesman, di una differenza di vedute che, nelle ore cruciali dell’imposizione dei controlli di capitale a seguito della decisione della Bce di “far chiudere le banche greche”, lo avrebbe opposto ad altri membri del governo più vicini al primo ministro. Oggetto del contendere sarebbe stata la necessità, di fronte alla mossa ricattatoria della Bce, di cominciare ad emettere, o di minacciare di emettere, dei “pagherò” (di fatto una sorta di moneta temporanea parallela sulla via di un sempre più probabile “Grexit”) da affiancare agli euro ancora circolanti. Misura che, nelle intenzioni di Varoufakis, avrebbe dovuto essere accompagnata da un taglio dei titoli di Stato greci risalenti al 2012 ancora nella mani della Bce e dall’imposizione di un controllo governativo diretto sulla Banca di Grecia.

Non è questione di persone, tanto più che Varoufakis non è certo un “dissenziente” rispetto alla linea dell’“euro buono” (così l’ha ribattezzata Lapavitsas), ma anzi uno dei suoi sostenitori principali. È invece questione di realismo politico e di sottovalutazione del peso dei rapporti di forza. Non tutto è perduto, anche se i segnali di queste ultime ore sembrano andare nel senso dello scenario sopramenzionato: “normalizzazione” di Syriza, che è destinata per questa via a diventare un nuovo Pasok, e nuovo governo di unità nazionale. Un nuovo sussulto, un ripensamento del primo ministro greco che ricompatti il partito e dia speranza e dignità all’intero paese (pur nella drammaticità che, almeno nei primi tempi, uno strappo simile comporterebbe) è forse ancora possibile. È stato possibile con il referendum del 5 luglio, può forse esserlo ancora oggi. Soprattutto, quello che è possibile e che molto probabilmente avverrà è una ripresa in grande stile del conflitto sociale, che in Grecia cova sempre sotto la cenere e che, ci auguriamo, porterà nel prossimo periodo a nuovi picchi di partecipazione popolare, spostando il dibattito politico dalle aule parlamentari alle piazze.