Senza “Margine Protettivo”. A un anno dall’attacco, Gaza e le donne vivono e lottano di G.Urizio

Gianna Urizio
www.zeroviolenza.it

Tornare da Gaza e provare a condividere il disastro visto è difficile. Difficile comunicare emozioni, le enormi distruzioni viste, i volti dei bambini feriti, la quantità di famiglie senza più casa, ospitati da parenti o che vivono ancora nelle scuole dell’UNRWA perché non hanno i soldi per una casa in affitto,
in un Paese dove lo spazio per tutti è poco, e la natalità, anche se diminuita, ha ancora uno dei tassi più alti al mondo.
E poi c’è la disoccupazione, la difficoltà a ricostruire, la mancanza generale di soldi.

Eppure bisogna provare. Domani 8 luglio sarà un anno che gli israeliani hanno cominciato un attacco “senza” margine protettivo per gli abitanti di Gaza che ha provocato – i dati sono noti – più di 2mila morti, tra cui 270 donne e 570 bambini, oltre 30mila case distrutte o seriamente danneggiate, qualche centinaia di migliaia di persone rimaste senza casa. Senza contare i molti feriti (più di 11mila, tra cui circa 3000 bambini, alcuni dei quali con danni irreversibili).

Tra i molti disastri che si consumano in questo nostro martoriato pianeta, Gaza è uno dei più ingiusti e infiniti. Dal 2006, da quando se ne sono andati i coloni israeliani, praticamente ogni due anni, quest’area della Palestina viene bombardata e non c’è un luogo sicuro dove rifugiarsi. Rimane solo la possibilità di cercare ospitalità a sud se bombardano a nord o andare a est se l’aggressione viene da ovest e viceversa. Nemmeno le scuole UNRWA sono state risparmiate nel conflitto dell’estate 2014: eppure molte persone vi si erano rifugiate ritenendole sicure in quanto territorio internazionale protetto.

Insomma ogni ritorno a Gaza è un’emozione perché non sai quello che trovi ed ogni volta poggi i piedi su un terreno diverso. Per questo ci vuole tempo per prepararsi, non solo per ottenere i due visti di entrata, rispettivamente il “coordinamento” dei servizi di sicurezza israeliani, e quello di Hamas. Gaza è guardata a vista da dentro e da fuori. E viene collegata, fisicamente, da un tunnel esterno lungo un chilometro (lato Israele) ed un altro, sotterraneo, con l’Egitto.

Ci sarebbe da compiere già una riflessione in proposito. Ma questa volta è stata più dura, le distruzioni materiali oltre che umane sono enormi; intere strisce di paesi sono distrutte, le poche attività industriali sono atterrate e faticano a riprendersi per la mancanza di materiali di base, centellinato nei varchi israeliani e con il tunnel di Rafah chiuso.

L’obiettivo del viaggio era quello di “concludere” un progetto di AISHA, un’associazione di giovani donne coraggiose che accolgono le donne che subiscono violenza, anche quella degli attacchi israeliani. Sono vedove, donne con mariti “scassati” da stress e da una perenne mancanza di lavoro e da una vita senza futuro. Si tratta di un progetto “per una vita senza violenza” sostenuto dall’8×1000 della Tavola Valdese già da due anni; un progetto piccolo ma importante perché rivolto alle donne.

L’associazione è composta da donne di una nuova generazione, potremmo dire post-politica, se si hanno in mente i partiti palestinesi, in realtà espressione di un modo nuovo di fare “politica”, di base, donne tenaci e capaci di dire: da qui non ci si muove e allora “resistiamo”, inventiamoci una vita che sia vivibile, uniamo le risorse per sopravvivere. La coordinatrice dei progetti, Mariam, ha 30 anni, laureata in architettura, figlia di un emigrato che nel 2003 aveva deciso di tornare a Gaza, dopo l’attacco americano in Iraq, dove vivevano molti palestinesi: meglio Gaza che la guerra. Non è stato così: lui e la sua famiglia, con cinque figlie, ha dovuto imparare a convivere con una “guerra di aggressione” infinita e ritmata di due anni in due anni, senza sapere poi se la prossima volta tocca a te ovvero se ti tocca di nuovo.

Ecco, c’è un nuovo da cogliere nel quadro politico che esprime una grande capacità di resilienza, la capacità di non abbattersi ma di ricominciare o meglio continuare a vivere di giorno in giorno. Ricominciando. Senza mollare.

Queste donne le abbiamo visto all’opera. Incaricate dall’OCHA (l’organismo dell’ONU per gli affari umanitari) di organizzare delle unità mobili di sostegno psicologico e psichiatrico tra la popolazione maggiormente colpita, sono state una guida intelligente, desiderosa di spiegare, collegare, renderci coscienti che a Gaza, da anni colpita e indifesa, si sta creando un’atmosfera nuova dove “resistere” è la parola chiave e una vita “normale” è l’obiettivo.

Da novembre psicologhe, assistenti sociali, donne, hanno visitato circa 4500 famiglie e preso in carico molte centinaia di bambini – che non dormono più, alcuni non parlano più – e madri in una situazione di perdita di tutto, casa, reddito, capofamiglia, figlie e fratelli. Da lì sono emersi dei casi di bambini e bambini segnalati per l’adozione a distanza che in Italia sono proposte da GAZZELLA onlus.

Insomma un lavoro in mezzo al disastro. Eppure non sono scoraggiate, continuano ad offrire corsi di formazione per donne affinché intraprendano nuove attività, parlano di “creativity living”.
E’ questa la Gaza che ci fa sperare. Una Gaza che non voterebbe più Hamas e tanto meno Fatah, E non trova partiti che la possano rappresentare, ma che si fa tessuto sociale, dove tutto quanto sembra puntare alla disgregazione.

Molte altre ancora dovrebbero essere le considerazioni da fare. Più politiche ed economiche, che prendano in considerazione tutto quanto sta succedendo nell’area mediorientale; i vecchi e nuovi interessi economici. Bisognerebbe quindi anche parlare del gas che è stato trovato al largo di Gaza, un business che ha visto la triangolazione tra la multinazionale BP, famiglie ricche libanesi e l’autorità palestinese, e dove si è inserita Israele. Tra l’altro limitando a 6 le miglia la possibilità di pesca, non solo hanno ridotto al lastrico i pescatori, ma soprattutto hanno levato di torno dei curiosi dagli impianti di estrazione del gas.

In questi giorni la Freedom Flotilla che portava a Gaza generi di soccorso sanitario, è stata bloccata dalla marina israeliana e obbligata a dirigersi verso il porto militare di Ashdod. Difficile non provare rabbia e impotenza. Soprattutto non è possibile che la situazione di Gaza sia senza soluzione. Lo sappiamo, ogni guerra è terribile e porta con se una scia di distruzioni, morti e feriti, orfani e vedove. Chi le ha vissute lo sa. Ogni guerra è feroce e spesso soprattutto inutile perché crea più problemi futuri di quanti ne risolva. Dalla prima guerra mondiale all’attuale conflitto in Siria, passando per i Balcani, l’Iraq e l’Afganistan.

Che fare? Mi viene in mente la frase conclusiva dell’appello delle donne di Gaza del 25 novembre scorso: “Non tacere, alza la tua voce e chiedi protezione, libertà e dignità per le donne palestinesi”. E aggiungerei, per tutti gli abitanti di questa travagliata terra. E’ nostro dovere farlo.