Clochard: le trentunomila storie comuni di T.Careddu

Tania Careddu
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Povertà estrema: combinazione di penuria di entrate, sviluppo umano insufficiente ed esclusione sociale. Così il Comitato dei diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite definisce la condizione di individui a basso reddito per i quali è stata debole (quando non insufficiente) la rete di sicurezza sociale. Comunemente (e anacronisticamente) chiamati barboni, sono persone multiproblematiche, con un passato difficile, fatto di alienazione dal proprio contesto e, spesso, finite a dormire nelle stazioni ferroviarie per la natura neutrale di queste, di accoglienza anonima da un lato e di non fissità dall’altro.

Ma la reinterpretazione in termini di un nuovo potenziale di questo non luogo, basata sulla correlazione tra la dimensione della mobilità e quella del disagio, operata dagli Help Center, sportelli di orientamento sociale che nelle aree ferroviarie li prendono in carico e li avviano verso percorsi di recupero, ha offerto agli ‘utilizzatori’ più marginali delle stazioni, la possibilità di una seconda opportunità.

Undici mila e settecento metri quadrati in comodato d’uso gratuito da parte di FS Italiane a disposizione per andare incontro a chi chiede di ricominciare in una ‘nuova comunità’. Dal ricovero delle persone anziane malate e con problemi psichiatrici che, come si legge nel Research paper 2014 dell’Osservatorio Nazionale Disagio Sociale (ONDS), “da vent’anni continuava a dormire, mangiare e sopravvivere sotto la pensilina in testa al binario uno di Roma Termini dove parte il Freccia Rossa”, fino all’individuazione degli spazi e degli immobili dove accogliere centinaia di rifugiati politici: è il lavoro dei quindici Help Center da nord a sud dello Stivale.

Una nuova modalità di intervento sociale, essendo luoghi pubblici ad alta frequentazione e principale porta di accesso alla realtà urbana, rappresentano un ‘barometro sociale’ che, oltre a misurarli, anticipa anche il verificarsi di fenomeni che investiranno la nazione: è il caso delle nuove povertà e dei flussi migratori. Nel 2014 hanno accolto trentuno mila e settecentodue utenti, di cui diciassette mila e centottantaquattro al primo ingresso.

Sono soprattutto maschi, di un’età compresa tra i trenta e i trentanove anni, e tra i diciotto e i ventinove, riducendosi il numero di utenti più anziani. Gli italiani sono i più numerosi ma gli stranieri sono in crescita, soprattutto gli extracomunitari. Centodiciannove le nazionalità: rumeni, marocchini, tunisini, afghani, polacchi, nigeriani, peruviani, pakistani e ucraini. Sono in transito, verso un futuro migliore. Con un bagaglio di speranza e volontà, chiedono da mangiare, lavarsi e dormire. Ma solo per poco.

E tra questi e i ‘veri’ senza dimora, italiani o stranieri che siano, si assiste a continui attriti: agli occhi di questi ultimi, i primi occupano uno spazio di cui si sentono in qualche modo proprietari.

Sebbene siano quasi tutti centri diurni a cui chiedono accoglienza e, solo più raramente, fanno richiesta di orientamento al lavoro e di segretariato sociale, per i senza dimora sono il loro punto di riferimento e la loro immagine di progettualità (che quelli in transito rifuggono e frustano).

Ricevono beni e supporto materiale, vestiti e medicinali. Seguono corsi di formazione, di informatica e di inglese. Di italiano per gli stranieri. Un nodo fondamentale, la formazione ma, prima di tutto, si deve costruire la fiducia nel rapporto con le persone che chiedono aiuto.

Da sapere: i clochard classici sono ormai una percentuale esigua e sono, invece, tantissime le persone che conservano un minimo di risorse, personali o familiari. Le loro storie seguono una trama comune: la perdita del lavoro, alla quale segue lo sfratto, la ricerca di una soluzione nel gioco, di sollievo nell’alcol, fino alla separazione e alla rottura dei legami che tengono lontani dalla strada.