ICI e Chiesa, lo scandalo della “legge uguale per tutti” di T.Invernizzi

Tobia Invernizzi
www.micromega.net

La normalità talvolta desta interesse, scalpore e persino indignazione. Si parla ancora una volta di tasse, uno dei temi più dibattuti e controversi della storia della Repubblica italiana, in un avvenimento che alcuni hanno già definito storico: la quinta sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, il 20 maggio scorso, ha riconosciuto legittima la richiesta di pagamento dell’ICI dal 2004 al 2009 da parte di due istituti scolastici religiosi al comune di Livorno, condannandoli al pagamento degli arretrati di circa 420.000 euro.

Per la prima volta in Italia due sentenze della Cassazione intervengono a chiarire definitivamente la questione a lungo dibattuta, nonostante la Corte fosse già intervenuta più volte con svariate sentenze (n. 5485 del 2008, n. 27165 del 2011, n. 4502 del 2012), dichiarando nella n.16612 del 2008 che «per integrare il fine di lucro è sufficiente l’idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio; né ad escludere tale finalità è sufficiente la qualità di congregazione religiosa dell’ente».

Le imposte vengono quindi applicate agli immobili, e non al progetto educativo. Nessuno vieta alle istituzioni religiose o ad altri enti di aprire e gestire scuole paritarie di ogni ordine e grado, ma la Cassazione ricorda che il fatto stesso di pagare una retta assoggetta gli istituti a una attività di carattere commerciale, «senza che a ciò osti la gestione in perdita», ribadendo anche che l’esenzione è «limitata all’ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione e di culto». La Chiesa Cattolica non svolge in questo caso attività in forma gratuita, ma offre un servizio a pagamento, nulla di più evidente.

Sembrerebbe tutto risolto dunque, e invece le novità sono nate proprio in questi giorni. Il Ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, colei che dovrebbe avere più a cuore le sorti della scuola pubblica italiana, appena preso atto del verdetto interviene affermando che «forse c’è una riflessione da fare», ricordando che in regioni come il Veneto, senza paritarie, Stato e Regione «si troverebbero in enormi difficoltà economiche e strutturali».

C’è chi ancora si sta domandando cosa voglia dire il suo invito a una riflessione, tentando di decifrare i criptici messaggi di un ministro dal quale ci si auspicherebbe un accoglimento di buon grado di una decisione così importante per la tutela di principi quali l’eguaglianza e la giustizia sociale.

Ancora più curioso il suo secondo pensiero che delegittima gravemente il ruolo delle istituzioni pubbliche del Veneto, trasmettendo tra le righe il messaggio che, tutto sommato, bisognerebbe ringraziare gli istituti religiosi per aver sopperito a una lacuna scolastica del territorio. Siamo tutti più sollevati dopo tutte queste rassicuranti dichiarazioni, volte ad esprimere con estrema chiarezza l’importanza della scuola pubblica “subappaltata” alle istituzioni religiose per questioni economiche. Emerge una certa incoerenza in quanto espresso fin ora, a cominciare dalla discrasia tra il ruolo istituzionale ricoperto da Stefania Giannini e le sue affermazioni.

Ovviamente non poteva mancare la reazione del segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana Nunzio Galantino, secondo il quale «bisogna fare informazione corretta e ricordare che non sono solo cattoliche le scuole paritarie. […] È pericolosa (la sentenza n.d.r.) perché mette in condizione le scuole di non poter assolvere al loro compito di formazione». Occorre fare chiarezza su alcune inesattezze appena riportate: è vero che non tutte le scuole paritarie sono religiose, ma dati alla mano, è altrettanto vero che il 63% degli istituti dell’infanzia lo sono, come riporta l’Ansa in un suo grafico.
La percentuale delle cattoliche cala poi nei gradi di istruzione più alti per attestarsi al 40% nelle scuole superiori.

Lo stesso segretario della Cei ha affermato che “tutti coloro che gestiscono scuole pubbliche paritarie, ripeto pubbliche, secondo la legge Berlinguer, si rendano conto di che cosa sta accadendo in questo periodo”. Non solo Galatino denota una scarsa e approssimativa conoscenza dei principi legislativi di base della legge 62/2000 cosiddetta “legge Berlinguer”, fortemente voluta dal governo D’Alema bis e dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, ma anche una grossolana imprecisione equiparando le scuole paritarie, definite dall’articolo 1 come “scuole paritarie private”. Tali scuole infatti accolgono solamente chi accetta il loro progetto educativo, non configurandosi come un servizio pubblico il quale non può di certo permettersi il privilegio di selezionare indirettamente i futuri studenti.

A far sentire la sua voce è stato anche il sottosegretario del Miur Gabriele Toccafondi (Ncd), affermando: «Molte aumenteranno le rette o chiuderanno. […] L’Imu le scuole pubbliche statali non la pagano ed è giusto che lo stesso valga anche per le scuole pubbliche non statali».

Il caso vuole che né lui né il segretario della Cei siano intervenuti l’11 aprile 2012 quando l’Uaar denunciò pubblicamente la disparità di trattamento tra le scuole paritarie laiche e quelle cattoliche, le prime obbligate al pagamento dell’IMU, le seconde del tutto esonerate.

Già tre anni fa il presidente dell’associazione nazionale Istituti non statali di educazione ed istruzione, Luigi Sepiacci, fece notare che «se il governo vuol fare un favore alle scuole cattoliche lo dica chiaro e tondo», aggiungendo anche che «la Corte di Cassazione ha stabilito che l’attività scolastica, ancorché senza scopo di lucro, se svolta dietro corrispettivo, è un’attività commerciale». Ebbene sì: la Corte si era già espressa, ma politici e rappresentati delle istituzioni religiose hanno spesso la memoria corta.

La levata di scudi ha coinvolto i principali esponenti di gran parte dei partiti, a cominciare dall’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini (FI), che ha addirittura affermato che «si tratta di un esagerato egualitarismo», fino ad arrivare al consiglio della Regione Lombardia, che in una nota informativa sul sito, dichiara di «intervenire eventualmente con misure ad hoc per le scuole religiose paritarie del sistema lombardo e scongiurarne la chiusura».

C’è poi un altro tema: quello del fantomatico risparmio di sei miliardi di euro per lo Stato grazie all’esistenza delle scuole paritarie. La cifra è il risultato della moltiplicazione del milione di studenti che frequenta oggi le scuole paritarie al costo medio di seimila euro l’anno che costa ogni alunno agli istituti pubblici. Ma secondo la Fondazione Agnelli non è così: in un dettagliato resoconto, emergono i dati concreti relativi a questa “bufala ecclesiastica”.

Una delle poche voci fuori dal coro che emergono da questo clamore mediatico e politico è quella dell’ex direttore della Scuola Normale di Pisa, Salvatore Settis, che, intervistato dal Corriere della Sera, esulta esclamando: «È la vittoria della Costituzione sull’interpretazione dei politici». Già nel 2013 fu uno dei firmatari di un appello contro i finanziamenti alla scuola privata ispirato alla Costituzione, ribadendo fermamente la sua posizione alla luce della nuova sentenza della Cassazione. L’ex direttore afferma inoltre che il «verdetto fa scalpore perché è in controtendenza con quello che fanno i governi, compresi quelli di centrosinistra. La Costituzione all’articolo 33 parla di scuola pubblica e aggiunge che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione ma “senza oneri per lo Stato”. Invece, negli ultimi anni non è stato così».

Il monito che emerge nelle dichiarazioni di Settis è che, viste le recenti modifiche della Carta Costituzionale, ci sia il rischio che il governo si intrometta nel delicato articolo 33 al fine di “americanizzare” la scuola pubblica. Negli Stati Uniti d’America infatti è ben noto l’altissimo livello formativo di gran parte delle scuole private, ma è altrettanto famoso e tristemente noto il livello di degrado della scuola pubblica, con il risultato di essersi creata nei decenni una forte disparità tra coloro che si possono permettere un’istruzione di alto livello e chi invece non possiede disponibilità tali da garantire ai propri figli un insegnamento adeguato. Se tutto ciò dovesse lentamente accadere in Italia sarebbe un grave danno alla scuola pubblica italiana, sottolinea Settis, nonché una grave violazione dei principi costituzionali.

Ad aggravare il quadro generale e a delegittimare il ruolo della più importante Corte nell’ordinamento italiano, quella di Cassazione per l’appunto, interviene anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti (Pd), economista e professore universitario di economia politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma La Sapienza, che per conto del Governo afferma: “Le paritarie non pagheranno”.

Emerge dunque che il governo abbia l’intenzione di introdurre una norma “salva paritarie” per eludere l’ultima emblematica sentenza della Cassazione che ha tanto indignato la CEI in questi giorni. Un provvedimento che nasce con l’annuncio dell’avvio di un “tavolo di confronto” per arrivare “a un definitivo chiarimento normativo”. Come se ci fosse bisogno, vista la chiarezza espositiva della Suprema Corte nella sentenze 14225 e 14226. Saranno forse state le pressioni della Conferenza Episcopale italiana a far correre ai ripari il governo del Partito Democratico? Certo è che parole come “sentenza pericolosa”, “ideologica”, che intacca gravemente “la garanzia di libertà di educazione richiesta anche dall’Europa”, e “è a rischio la sopravvivenza delle scuole paritarie”, possano aver intimorito una classe politica troppo spesso preoccupata delle ripercussioni sull’elettorato che sulla reale tutela dei principi di laicità ed equità sociale.

In cambio di privilegi e immunità, tanti e particolarmente insopportabili in tempo di crisi, il Concordato impone un solo limite alla Chiesa Cattolica: che rispetti l’indipendenza e la sovranità della Repubblica italiana, invece delle ingerenze continue e sfacciate. La classe politica italiana non sembra (ancora) in grado di abolire questo ingiusto trattato, sistematicamente violato da una delle due parti. Sarà almeno capace di far applicare le molteplici sentenze della propria Suprema Corte di Cassazione che impone l’ovvio principio che “la legge è uguale per tutti” e le tasse si pagano?

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Paritarie o statali. Il costo degli studenti

Valentina Santarpia
Corriere della Sera, 26 luglio 2015

Privilegiate, d’élite, coccolate dai privati e dallo Stato: delle scuole paritarie si dice anche questo,
magari evocando le ricche rette da pagare a fine mese. Ma cosa c’è di vero? Quanto pesano sul
bilancio collettivo le circa 13 mila scuole paritarie italiane?

«Svolgono un servizio di pubblica utilità: bisogna uscire dai pregiudizi ideologici», dice il
sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, che nella riforma della scuola appena approvata
è riuscito ad ottenere l’introduzione di uno sgravio fiscale per le famiglie che mandano i propri figli
alle paritarie: fino a 400 euro all’anno, per rette fino ai 2.500 euro, che significa un risparmio in
busta paga di 75 euro all’anno. «Una battaglia di civiltà», si difende Toccafondi. «Un’ingiustizia per i più ricchi»,
sostiene invece il fronte laico, e assai combattivo, della scuola.

Veniamo ai numeri. Le scuole paritarie sono frequentate, per ogni ordine e grado, da circa un
milione di studenti, ovvero circa il 10% della popolazione scolastica, considerando che le scuole
sono attualmente frequentate da circa 9 milioni di studenti. Nella maggior parte dei casi si tratta di
scuole dell’infanzia: sono 4-4.500 le scuole comunali e gli asili compresi nell’elenco.
Non si tratta solo di istituti religiosi, anche se il nome spesso inganna: in centinaia di casi la scuola,
fondata da un ordine religioso, viene nel tempo rilevata da cooperative e fondazioni laiche, spesso formate
da genitori o professori che non hanno voluto disperdere il patrimonio culturale della scuola, e che si
sono impegnati personalmente per la continuità della struttura e della didattica.

Sono tra i 70 mila e i 100 mila i dipendenti diretti, tra professori e altro tipo di personale: sono tutti
assunti con contratti regolari, senza agevolazioni. Quindi le paritarie pagano contributi, l’Inps al
33% e l’Irap al 4,25% sul costo del lavoro. L’unica differenza con le statali è che non ci sono
vincoli concorsuali per l’assorbimento degli insegnanti. Tra parentesi, tra i 25 mila e i 35 mila
professori delle paritarie sono insegnanti inseriti nelle graduatorie, che con il maxipiano di
assunzioni previsto per il prossimo settembre svuoteranno le aule delle paritarie per affollare quelle
delle statali. Per quanto riguarda le altre tasse, le paritarie pagano regolarmente Tares, Tasi,
addizionali regionali, Iva, che varia dal 4 al 20%, su tutti gli acquisti, mentre l’Irpef viene pagata a scaglioni.
E naturalmente sono sottoposte ai controlli degli Uffici scolastici regionali.

Il contributo che le paritarie ricevono dallo Stato ammonta a 471 milioni all’anno: una cifra che era
di 538 milioni ai tempi del ministro Beppe Fioroni, ma che negli anni è stato sempre più ridotto.
Significa che attualmente, per ogni studente delle paritarie, lo Stato spende dai 600 euro (per i
bambini delle scuole dell’infanzia) ai 50 (per gli studenti delle superiori). Alcune Regioni, come la
Lombardia e il Veneto, hanno previsto anche contributi extra negli scorsi anni, stipulando delle
convenzioni con le paritarie. Spiega l’assessore all’Istruzione della Lombardia, Valentina Aprea:
«La Regione ha sempre sostenuto il sistema delle scuole paritarie attraverso il buono-scuola e,
nonostante ciò, non sono pochi gli istituti che hanno chiuso l’attività a causa dell’aggravio di spese
di funzionamento e di tasse».

Ma è proprio vero, come sostiene il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, che le scuole
paritarie fanno risparmiare allo Stato sei miliardi e mezzo? Il conto è questo: il costo di uno
studente medio per lo Stato è di 6.800 euro all’anno, secondo dati 2013-2014 del ministero
dell’Economia e dell’Ocse. Contribuire all’istruzione di uno studente di una paritaria invece costa
allo Stato circa 500 euro all’anno. Cifra che i privati integrano pagando una retta di tasca propria,
che ammonta a circa 2-3.000 euro all’anno, gravata da Irpef. Dunque anche considerando la spesa
sostenuta dai privati, non si arriva al costo di uno studente pubblico. Se quel 30% circa di paritarie
che sono oggi le scuole materne, dovessero chiudere, i Comuni che oggi se ne avvalgono tramite
convenzione dovrebbero sborsare subito 150 milioni.

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Ma la Costituzione è chiara. Non devono pesare sullo Stato

intervista a Salvatore Settis, a cura di Melania Di Giacomo
Corriere della Sera, 26.07.2015

È la vittoria della Costituzione sull’«interpretazione» che ne hanno dato i governi. Salvatore Settis,
archeologo ed ex direttore della Scuola Normale di Pisa, ora presidente del consiglio scientifico del
museo parigino del Louvre, è tra coloro che aspettavano da quindici anni che un giudice affermasse
la natura commerciale delle scuole paritarie che abbiano l’obiettivo di perseguire con i propri ricavi
il pareggio di bilancio. E anche se la riforma Berlinguer del 2000 diede pari dignità alle scuole
gestite da privati, è alla Carta fondamentale che si richiama per affermare la priorità dell’istruzione
statale.

Professor Settis, lei è stato tra i firmatari nel 2013 di un appello contro i finanziamenti alla
scuola privata ispirato alla Costituzione. Ora la Cassazione dice che le paritarie chiedono una
retta, quindi utilizzano modalità commerciali, e per questo non possono essere esenti dall’Ici.
Se l’aspettava?

«La sentenza fa scalpore perché è in controtendenza con quello che fanno i governi, compresi quelli
di centrosinistra. La Costituzione all’articolo 33 parla di scuola pubblica e aggiunge che enti e
privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione ma “senza oneri per lo Stato”.
Invece, negli ultimi anni non è stato così. A partire dalla legge Berlinguer, con un governo di
centrosinistra, e poi negli anni c’è stato uno smottamento verso la scuola privata».

Lei dice “prima la scuola statale”. Ma la legge riconosce anche le scuole paritarie come
pubbliche.

«Ma “senza oneri” per lo Stato non può avere un’interpretazione diversa. Purtroppo i contributi di
cui le scuole paritarie già godono e i privilegi di natura fiscale si accompagnano a una contestuale
riduzione dei finanziamenti per la scuola pubblica. E sarebbero molto più tollerabili se la scuola
pubblica venisse salvaguardata, invece non è così. Non dubito che la scuola privata vada difesa, ma
la scuola pubblica dovrebbe avere il primato».

La Cei dice che gli istituti paritari ricevono contributi per 520 milioni di euro, ma lo Stato
risparmia sei miliardi e mezzo. Chi chiede il sostegno alla scuola paritaria lo motiva anche col
fatto che con un milione e trecentomila studenti in più le scuole statali avrebbero un costo
molto più alto.

«La Costituzione dice che l’istruzione è obbligatoria e gratuita. Visto che stanno facendo delle
modifiche alla Costituzione, cambino anche questo articolo… Potrei capire di più la posizione di chi
difende la scuola privata se desse la giusta priorità alla scuola pubblica che invece viene mortificata
da continui tagli. Data la scarsità dei finanziamenti, se si rinuncia a pescare dalla tasse, si taglia da
altre parti e non vorrei che ci stessero trascinando verso un sistema di tipo americano».

Dove però i costi di un’istruzione di qualità sono molto alti.

«Ci sono Paesi come gli Stati Uniti dove le scuole private sono più importanti e la pubblica è un
disastro. Quindi, alla scuola privata vanno i ricchi, e non vorrei che l’Italia andasse in questa
direzione. Specie in un momento in cui stanno crescendo le disuguaglianze e le nuove povertà di cui
parla anche papa Francesco. In una situazione di questo tipo rafforzare la scuola pubblica dovrebbe
essere la prima cosa. Poi se la scuola di carattere commerciale può essere aiutata, è lecito».

Quindi cosa risponde a chi dice che senza finanziamenti le scuola paritarie chiuderebbero?

«Che non stanno facendo i conti con la Costituzione, la difesa dei privilegi in quanto acquisiti è
piuttosto debole».