La legge 185 “contro i mercanti di morte” compie 25 anni. Ma le armi continuano a uccidere di L.Kocci

Luca Kocci
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La legge 185, che regola le esportazioni di armamenti italiani nel mondo, compie 25 anni. Venne approvata il 9 luglio 1990, dopo una lunga mobilitazione – la campagna “Contro i mercanti di morte” – dell’associazionismo pacifista e del mondo cattolico, soprattutto quello missionario con i comboniani di Nigrizia in prima linea, che riuscì a far approvare una legge molto avanzata.

Prima della 185, infatti, l’export di armi in Italia era regolato esclusivamente dalla normativa relativa al commercio con l’estero ed era coperto dal segreto militare. Quindi nessuno poteva sapere nulla, tutto era top secret. Negli anni ‘80 ci fu il boom delle esportazioni di armi italiane, dirette soprattutto nei Paesi del Sud del mondo, che le impiegavano per conflitti territoriali poco noti ma molto cruenti. E questo mise in moto la mobilitazione della società civile che, nel 1990, portò a casa il risultato di una legge specifica sul commercio di armi dai contenuti assai avanzati, che ha costituito un modello anche per altri Paesi.

Prevede che l’azienda esportatrice sia autorizzata, per ogni singola operazione, dal Ministero degli Esteri e che gli armamenti non vengano “triangolati”, ovvero venduti poi ad un altro Paese. E vieta l’esportazione di armamenti verso Paesi in stato di conflitto armato, Paesi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della Costituzione italiana («L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»), Paesi sotto embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte dell’Onu o dell’Ue, Paesi responsabili di accertate gravi violazioni alle Convenzioni sui diritti umani e Paesi che spendano troppo in armi rispetto alle reali esigenze di difesa. La 185 obbliga inoltre il governo italiano a fornire ogni anno (entro il 31 marzo) al Parlamento una relazione dettagliata sulle operazioni di esportazione, importazione e transito di armi nell’anno precedente, compresa la lista degli istituti di credito e dei movimenti bancari relativi (che consentì di dare vita alla campagna di pressione verso le cosiddette “banche armate”).

«Armi italiane uccidono in tutto il mondo. Cominciava così l’appello che ha dato vita alla campagna “Contro i mercanti di morte” nata per contrastare i commerci di armi che vedevano il nostro Paese in prima fila, spesso nei traffici illeciti e clandestini», ricorda Eugenio Melandri, al tempo direttore del mensile dei saveriani Missione Oggi, fra i protagonisti della campagna. «Armamenti e mine, tante mine, che andavano anche a Paesi in guerra con una sorta di “ecumenismo” degli affari che permetteva di esportare armi a tutte le parti in conflitto. È stata una campagna che ha coinvolto gran parte della società civile italiana con centinaia di incontri in tutta la penisola, con assemblee con gli stessi operai impiegati nelle industrie di armi. Ne è nata la legge 185 che rappresentava a quel tempo una delle leggi più restrittive a livello mondiale. Anche se gli stessi promotori, voglio ricordare in modo particolare don Tonino Bello e Aldo De Matteo che oggi non ci sono più, lo stesso giorno dell’approvazione della legge avrebbero voluto presentarne un’altra di un solo articolo che affermasse che l’Italia, partendo dal dettato costituzionale, ripudiando la guerra, si impegnava a non fabbricare e a non esportare nessun sistema d’arma. Purtroppo in questi anni l’Italia ha continuato ad esportare armamenti, spesso anche aggirando le norme della legge. Oggi siamo in un contesto internazionale molto diverso, in presenza di una guerra mondiale “a pezzi”, come direbbe papa Francesco. Di qui l’impegno a non fermarsi e a continuare la lotta per il disarmo e la pace. Il fatto che 25 anni fa la mobilitazione sociale abbia ottenuto quel grande risultato può e deve diventare uno stimolo a non scoraggiarsi mai anche di fronte alle sfide che questo nuovo secolo ci presenta».

I numeri di 25 anni di legge 185 li fornisce la Rete italiana per il disarmo, che lo scorso 9 luglio ha organizzato un presidio davanti Montecitorio e poi una conferenza stampa: in un quarto di secolo le aziende armiere italiane sono state autorizzare dai governi che si sono succeduti ad esportare armamenti per un totale di 54 miliardi di euro. Sono state consegnate, a 123 Paesi, armi per un valore effettivo di 36 miliardi, più della metà (50,3%) dirette a Stati che non aderiscono alla Nato e alla Ue. A guidare la classifica dei Paesi destinatari dei sistemi d’arma made in Italy ci sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, seguiti da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti; quindi Germania, Turchia, Francia, Spagna, Malaysia, Algeria, India, Pakistan e Singapore. Ma nel corso del tempo c’è stata una evoluzione netta dei Paesi che hanno comprato, come spiega Giorgio Beretta, analista di Opal Brescia (Osservatorio permanente armi leggere): «Se nel quinquennio 2005-2009 è stata l’Unione europea l’area di maggior vendita delle armi italiane, in quello successivo il primato è invece andato al Medio Oriente e al Nord Africa. Infatti ai primi posti ci sono Paesi come Algeria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, con il solo inserimento degli onnipresenti Stati Uniti al terzo posto. È chiaro dunque in che direzione stiano andando gli affari dell’esportazione militare italiana».

Negli ultimi tempi poi la legge ha subìto diverse modifiche che ne hanno aumentato la permeabilità e diminuito la trasparenza (v. Adista Notizie nn. 13, 53, 75/02; 27/03). «Stiamo parlando di armi, non di noccioline, siamo quindi in un terreno sul quale non possiamo certo agire con leggerezza», spiega Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo. «Secondo la legge e secondo il buonsenso, indipendente da avere o meno posizioni disarmiste, l’export militare italiano dovrebbe essere in linea con la politica estera del nostro Paese, ma negli ultimi anni la direzione è invece stata principalmente quella degli affari». Infatti le organizzazioni aderenti alla Rete disarmo da anni sottolineano la progressiva perdita di controllo e trasparenza della Relazione, che si è persa importanti pezzi e che non riporta più tutti i dettagli necessari al controllo sull’operato del governo e degli istituti di credito: «Ridateci le relazioni del governo Andreotti – ironizza, ma non troppo, Giorgio Beretta –, con quelle eravamo in grado, noi e i parlamentari, di sapere con esattezza le caratteristiche di una vendita di armi, ed anche l’appoggio dato dalle banche. Ora per molti versi brancoliamo nel buio».

Anche per questo la Rete disarmo nei giorni scorsi ha scritto, come già in passato, al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni per chiedere una maggiore attenzione ed un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni, sia dal punto di vista del controllo sia dal punto di vista delle decisioni sulla destinazione delle armi italiane. Risponderanno? Forse no, perché in altre faccende troppo affaccendati. Ma se sarà così, conclude Vignarca, «non possiamo lamentarci che il Mediterraneo ed il Medio Oriente siano una polveriera di conflitti quando siamo anche noi responsabili di molte delle forniture di armi, vera benzina che poi va alimentare il fuoco delle guerre». «Dove c’è guerra noi siamo presenti – aggiunge don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi –, e da questo dovremmo capire perché le persone fuggono: fuggono dalle nostre guerre e dalle nostre armi. Del resto è notizia di queste settimane che l’Arabia Saudita sta bombardando lo Yemen con bombe made in Italy».