Nozze gay, l’Europa sancisce il diritto di amare. Ora i politici agiscano di D.Accolla

Dario Accolla
www.ilfattoquotidiano.it

La Corte Europea di Strasburgo condanna l’Italia per il mancato riconoscimento delle famiglie formate da persone dello stesso sesso. L’ultimo tassello di un mosaico di eventi che dipinge un quadro ben definito: quello di un mondo, di vecchia e nuova democrazia, in cui si compiono passi importanti per i diritti delle persone Lgbt. All’opposto di tale realtà rimane il nostro grigiore istituzionale. Con un’accusa ben specifica, che pesa come un macigno per un paese che di definisce “civile”: violazione dei diritti umani.

Già la sentenza della nostra Corte Costituzionale del 2010 costituiva un precedente importante. Non impone certo l’approvazione del matrimonio egualitario, ma parla di riconoscimento di diritti conformi a quelli matrimoniali: «I concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere cristallizzati con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali». In altre parole: la società cambia. Prima l’unione tra etero era considerata indissolubile, oggi abbiamo il divorzio. Secondo lo stesso principio, due uomini o due donne hanno il diritto di accedere alle stesse prerogative di una coppia tradizionale. Si può affermare che queste due sentenze si completano.

Ma nella nostra storia giudiziaria abbiamo anche altri pronunciamenti, che si muovono nella direzione del riconoscimento del diritto di amare: diversi tribunali, è storia recente, hanno di fatto supportato le trascrizioni dei matrimoni di gay e lesbiche contratti all’estero volute da molti sindaci. E a prescindere da tutto questo, basterebbero gli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione, che (semplificando) ci ricordano che tutti e tutte hanno diritto a farsi una famiglia, senza discriminazione alcuna. La storia va in direzione dell’uguaglianza e della “liberazione affettiva” di omosessuali e trans. Con buona pace delle piazze omofobe. Questa è la realtà, poi loro facciano un po’ come gli pare. Nessuno obbliga un Bagnasco o un Adinolfi, per fare un solo esempio, a sposarsi tra loro. Stiano quindi sereni.

E poi c’è, appunto, il mondo là fuori: Irlanda e Usa hanno recentemente approvato matrimonio egualitario. In Europa l’intero arco atlantico ha legiferato in tal senso. Chi non ha le nozze per tutti/e, ha fatto le unioni civili con diritti omogenei a quelli coniugali. La situazione politica, insomma, è favorevolissima per un Parlamento che sta discutendo del ddl Cirinnà che se venisse approvato com’è – ovvero: la più bassa mediazione possibile – andrebbe in direzione delle sentenze italiana ed europea. Un primo tassello, per quanto insufficiente, per avviarci al percorso della piena uguaglianza.

I nostri partiti a questo punto sono chiamati a fare scelte coraggiose, secondo una logica evidente: legiferare a favore delle unioni tra uomini e tra donne. Perché stiamo parlando, appunto, di diritti elementari quali darsi sostegno reciproco, poter programmare una vita insieme con la tutela e il riconoscimento pubblico dello Stato, pensare al proprio domani con la garanzia di poter accedere a un mutuo, di avere prole con diritti inalienabili (vogliamo difendere o no questi/e bambini/e?), di poter programmare la propria vecchiaia, in assenza del/la partner, con la garanzia della pensione di reversibilità. Cominciare ad essere uguali agli eterosessuali non solo al momento del 730 e della Tasi, per essere chiari fino in fondo.

Stupisce perciò il silenzio del nostro premier rispetto a quanto stabilito da Strasburgo: una persona così loquace sui social – il cui mantra de “è l’Europa che ce lo chiede” rappresenta un cavallo di battaglia della sua argomentazione – poteva di certo esprimersi in merito. Al momento non lo ha fatto. Speriamo che i gay e le lesbiche interni al Pd glielo facciano notare, dando un significato alla loro presenza dentro il partito. Il loro ruolo dovrebbe essere questo, a ben vedere. Cosa che fino ad adesso non è stata fatta in modo efficace, tra digiuni mediatici ed attacchi alla gay community italiana, colpevole di non lasciarsi incantare dall’affabulazione renziana.

Insomma, la strada è stata tracciata ed è comoda e praticabile: le associazioni Lgbt, pur tra mille difetti, hanno reso possibile questo stato di cose. Sta alla politica di palazzo, adesso, dimostrare di essere degna dei grandi processi storici che fanno di una nazione un grande paese, anche sul campo dei diritti civili che sono, ricordiamolo ancora, diritti umani.

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Il diritto al rispetto per la vita familiare impone l’obbligo di riconoscere giuridicamente la relazione tra due persone delle stesso sesso

Carmelo Danisi*
www.articolo29.it

Se prima di oggi qualche dubbio poteva sorgere sul preciso contenuto della protezione offerta dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani alla coppia dello stesso sesso, la Corte europea dei diritti umani ha chiarito ogni dubbio con la pronuncia del 21 luglio 2015 sul caso Oliari e altri c. Italia (18766/11 and 36030/11). Sostanzialmente, l’Italia ha fallito nell’osservare gli obblighi positivi che derivano dall’articolo 8 Cedu e che consistono nella necessità di prevedere almeno una forma di riconoscimento giuridico della relazione stabile tra persone dello stesso sesso. Diversamente, la Convenzione non impone agli Stati membri del Consiglio d’Europa di introdurre il matrimonio per tali coppie essendo, in questo momento storico, sufficiente una forma di riconoscimento alternativa ad esso.

Il caso esaminato dalla Corte europea era stato avviato da una serie di coppie, stabilmente conviventi, che avevano tentato invano di contrarre matrimonio attraverso l’attuale procedura prevista dalla legge per le coppie eterosessuali. Dinanzi al rifiuto degli ufficiali dello stato civile dei Comuni interessati, il sig. Oliari e il suo compagno avviavano una serie di ricorsi che si concludevano con il rigetto delle loro argomentazioni basate sull’inesistenza di un divieto, nell’ordinamento italiano, di contrarre matrimonio, cosi come confermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 138/2010. Le motivazioni sono ben note. Su questa base, le altre coppie di ricorrenti non procedevano con tutti i mezzi di ricorso disponibili considerata la loro ineffettività per una conclusione positiva dei loro casi.

Considerata l’impossibilità di vedere riconosciuta la loro unione, i ricorrenti lamentavano dinanzi alla Corte Edu la violazione degli articoli 8 e 12, letti singolarmente o in combinato al divieto di discriminazione di cui all’art. 14 Cedu, in ragione del loro orientamento sessuale.

In modo significativo, la Corte europea distingue il caso dal precedente Schalk and Kopf relative a un ordinamento – l’Austria – che forniva già ai ricorrenti una forma di riconoscimento alternativa. La Corte, dunque, si era pronunciata sulla necessità che l’Austria si dovesse attivare prima e, dato la mancanza di consensus tra gli Stati europei, aveva escluso la violazione della Cedu. Tuttavia, con riferimento al caso italiano, i giudici si trovano di fronte alla totale mancanza di una forma alternativa di riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale

Concentrandosi sull’articolo 8, la Corte Edu ricorda principi oramai consolidati nella sua giurisprudenza, in particolare quello secondo cui “same-sex couples are just as capable as different-sex couples of entering into stable, committed relationships, and that they are in a relevantly similar situation to a different-sex couple as regards their need for legal recognition and protection of their relationship” (Schalk e Kopf c. Austria, para. 99, e Vallianatos e altri c. Grecia, para. 78 e 81), così come i richiami provenienti dal Consiglio d’Europa attraverso la Raccomandazione CM/Rec(2010)5 e ai trend di riconoscimento a livello europeo e internazionale. Di fronte a tale bisogno di riconoscimento giuridico, l’Italia non prevede attualmente alcuna risposta adeguata come emerge dall’analisi effettuata dalla Corte Edu in merito ai presunti “strumenti” a disposizione delle coppie dello stesso sesso. Non possono, infatti, essere adeguati i registri istituiti a livello comunale che hanno valore puramente simbolico e, soprattutto, “does not confer on the applicants any official civil status, and it by no means confers any rights on same-sex couples” (para. 168). Il ricorso a strumenti di diritto privato non può tantomeno risultare sufficiente perchè “fail to provide for some basic needs which are fundamental to the regulation of a relationship between a couple in a stable and committed relationship, such as, inter alia, the mutual rights and obligations they have towards each other, including moral and material support, maintenance obligations and inheritance rights” (para. 169). Il loro obiettivo, infatti, non è il riconoscimento e la protezione della coppia e, peraltro, richiedono che la coppia sia convivente anche se, come era già evidente dalla giurisprudenza precedente, due persone dello stesso sesso legate sentimentalmente possono non abitare insieme per ragioni anche professionali.

In modo ancor più significativo, la possibilità riconosciuta dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione nelle varie occasioni in cui si sono pronunciate sul tema di ottenere una tutela attraverso il ricorso al giudice per ottenere un trattamento – per cosi dire – “episodico” eguale in alcuni casi alla coppia coniugata è stata ritenuta insufficiente per soddisfare gli standard, pur minimi, di tutela richiesti e protetti dall’art. 8 Cedu (para. 170-172). La necessità di ricorrere a un giudice, in un sistema con problemi strutturali – afferma la Corte Edu – e in cui una decisione contraria ai bisogni essenziali della vita di coppia gay non può essere esclusa, impedisce che il diritto a vivere liberamente una condizione di coppia possa essere effettivamente esercitato, ponendo gli interessati in una situazione di incertezza giuridica non (più) tollerabile nel sistema convenzionale europeo.

Se esiste quindi un “conflict between the social reality of the applicants, who for the most part live their relationship openly in Italy, and the law, which gives them no official recognition on the territory” il Parlamento è chiamato a rispondere a un “social need” nonchè alla necessità della coppia dello stesso sesso di ottenere una legittimazione alla luce dell’intrinsic value che, in assenza di matrimonio, avrebbe qualsiasi forma di unione civile per tali coppie (para. 173-174).
Di fronte a tali interessi “individuali”, la Corte Edu ha potuto facilmente contrastare le argomentazioni del Governo italiano basate, essenzialmente, sulla discrezionalità di cui godono gli Stati europei nell’introdurre una forma alternativa al matrimonio nel momento in cui la società nazionale è pronta ad accogliere tale cambiamento. I giudici non danno pertanto importanza al margine di apprezzamento finora riconosciuto in materia perchè, significativamente, non è in gioco un diritto specifico o addizionale che può essere o meno attribuito alla coppia dello stesso sesso ma il più generale diritto al riconoscimento giuridico che gli Stati parte, in virtù dello stesso margine di apprezzamento, possono rendere effettivo in vario modo, ossia rimanendo liberi di conferire lo status ritenuto più opportuno in base alle sensibilità nazionali.

Supportando il proprio ragionamento con le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione circa il bisogno di riconoscere e proteggere la coppia omosessuale, la Corte Edu evidenzia l’inerzia del legislatore italiano di fronte a ciò che è sostenuto dai “sentiments of a majority of the Italian population, as shown through official surveys” (para. 181). Così facendo, il Parlamento sta minando la credibilità del potere giudiziario: “this repetitive failure of legislators to take account of Constitutional Court pronouncements or the recommendations therein relating to consistency with the Constitution over a significant period of time, potentially undermines the responsibilities of the judiciary and in the present case left the concerned individuals in a situation of legal uncertainty which has to be taken into account” (para. 184).

Dinanzi a questo quadro di cambiamento anche in rilevanti settori del nostro Paese, la Corte Edu si è ritenuta, dunque, legittimata a pronunciarsi a favore di un obbligo positivo derivante dall’articolo 8 Cedu di introdurre un (qualsiasi) strumento volto al riconoscimento della coppia dello stesso sesso, in assenza del matrimonio.

La parola, quindi, va al Parlamento che viene nuovamente sollecitato, questa volta dalla Corte europea, a dare contenuto a un diritto – quello al rispetto per la vita familiare – finora rimasto inattuato rispetto alle coppie dello stesso sesso. Al contempo, però, segna l’inizio di una nuova battaglia perchè l’intrinsic value non si esaurisce con l’unione civile ma è di per sè connaturato all’accesso al matrimonio da parte anche delle coppie dello stesso, nonostante per la Corte non vi siano oggi le condizioni per sancirlo a Strasburgo.

*Università di Bologna, Scuola di Scienze Politiche – Forlì Campus; Endeavour Fellow 2015 at Australian National University – College of Law