Aiutiamoli a casa nostra di G.Viale

Guido Viale
www.ilmanifesto.info

Profughi e migranti sono persone che oggi distingue solo chi vorrebbe ributtarne in mare almeno la
metà: fanno la stessa strada, salgono sulle stesse imbarcazioni che sanno già destinate ad affondare,
hanno attraversato gli stessi deserti, si sono sottratte alle stesse minacce: morte, miseria, fame,
schiavitù sanno già che con quel viaggio, che spesso dura anni, mette a rischio la loro vita e la loro
integrità.

Quelli che partono dalla Libia non sono libici: vengono da Siria, Eritrea, Somalia, Nigeria, Niger o
altri paesi subsahariani sconvolti da guerre o dittature. Quelli che partono dalla Turchia per
raggiungere un’isola greca o il resto dell’Europa attraversando Bulgaria, Macedonia e Serbia non
sono turchi: sono siriani, afgani, iraniani, iracheni, palestinesi e fuggono tutti per gli stessi motivi.
Sono anche di più di quelli che si imbarcano in Libia; ma nessuno ha proposto di invadere la
Turchia, o di bombardarne i porti, per bloccare quell’esodo, come si propone di fare in Libia per
risolvere il “problema profughi”.

Non si concepisce nient’altro che la guerra per affrontare un problema creato dalla guerra: guerre
che l’Europa o i sui Stati membri hanno contribuito a scatenare; o a cui ha assistito compiacente; o a
cui ha partecipato. Bombardare i porti della Libia, o occuparne la costa per bloccare quell’esodo
non è che il rimpianto di Gheddafi: degli affari che si facevano con lui e con il suo petrolio e del
compito di aguzzino di profughi e migranti che gli era stato affidato con trattati, finanziamenti e
“assistenze tecniche”. Dopo aver però contribuito a disarcionarlo e ad ammazzarlo contando sul
fatto che tutto sarebbe filato liscio come e meglio di prima.

Già solo questo abbaglio, insieme agli altri che lo hanno preceduto, seguito o accompagnato – in
Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Mali o nella Repubblica centroafricana – dovrebbe indurci non solo
a diffidare, ma a opporci in ogni modo ai programmi di guerra di chi se ne è reso responsabile.
Ma chi propone un intervento militare in Libia, o mette al centro del “problema profughi” la lotta
agli scafisti, non sa in realtà che cosa fare. Tra l’altro, bloccare le partenze dalla Libia non farebbe
che riversare quel flusso su altri paesi, tra cui la Tunisia, rendendo ancora più instabile la situazione.

Ma soprattutto non dice – e forse non pensa: il pensiero non è il suo forte – che cosa sta proponendo
veramente: si tratta di respingere o trattenere quel popolo dolente, di ormai milioni di persone, nei
deserti che sono una via obbligata della loro fuga, e che hanno già inghiottito più vittime di quante
ne ha annegato il Mediterraneo; magari appoggiandosi, con il cosiddetto “processo di Khartum”, a
qualche feroce dittatura subsahariana perché si incarichi lei di farle scomparire. E’ il risvolto
micidiale, ma già in atto, dell’ipocrisia dietro a cui si riparano i nemici dei profughi: “aiutiamoli a
casa loro”.

Invece bisogna aiutarli a casa nostra, in una casa comune da costruire con loro. Non c’è altra
alternativa al loro sterminio, diretto o per interposta dittatura. Bisogna innanzitutto smettere di
sottovalutare il problema, come fanno quasi tutte le forze di sinistra, e in parte anche la chiesa,
sperando così di neutralizzare l’allarmismo di cui si alimentano le destre. Certo, 50.000 profughi
(quanti ne sono rimasti di tutti quelli sbarcati l’anno scorso in Italia) su 60 milioni di abitanti, o
500mila (quanti hanno raggiunto l’anno scorso l’Unione Europea) su 500 milioni di abitanti non
sono molti. Ma come si vede, soprattutto per il modo in cui vengono maltrattati, sono sufficienti a
creare insofferenze insostenibili.

Ma i profughi di questo e degli ultimi anni sono solo l’avanguardia degli altri milioni stipati nei
campi del Medioriente o in arrivo lungo le rotte desertiche dai paesi subsahariani: che non possono
restare dove sono. Vogliono raggiungere l’Europa e in qualche modo si sentono già cittadini
europei, anche se sanno di non essere graditi e desiderano tornare a casa quando se ne
presenteranno le condizioni.

L’Unione europea in mano all’alta finanza e agli interessi commerciali del grande capitale tedesco
ha concentrato le sue politiche nel far quadrare i bilanci degli Stati membri a spese delle loro
popolazioni e nel garantire il salvataggio delle sue grandi banche. Così, anno dopo anno, ha
permesso o concorso a far sì che ai suoi confini si creassero situazioni di guerra e di caos
permanenti, di dissoluzione dei poteri statali, di conflitti per bande di cui l’ondata di profughi e di
migranti è la più diretta conseguenza.

Non saranno altre guerre, e meno che mai i respingimenti, a mettere fine a uno stato di cose che
l’Unione non riesce più a governare né dentro né fuori i suoi confini. A riprendere le fila di quei
conflitti, e del conflitto che si sta acuendo per gli sbarchi e gli arrivi, non può che essere un nuovo
protagonismo di quelle persone in fuga: le uniche che possono definire e sostenere una prospettiva
di pace nei paesi da cui sono fuggiti. Ma questo, solo se saranno messe in condizione di
organizzarsi e di contare come interlocutori principali, insieme ai loro connazionali già insediati sul
suolo europeo e a tutti i nativi europei che sono disposti ad accoglierli e ad alleviare le loro
sofferenze; e che sono ancora tanti anche se i media non vi dedicano alcuna attenzione.

Dobbiamo “accoglierli tutti”, come raccomandava più di un anno fa Luigi Manconi; dare a tutti di
che vivere: cibo, un tetto, la possibilità di autogestire la propria vita, di andare a scuola, di curarsi,
di lavorare, di guadagnare. Ma non sono troppi, in un paese e in un continente che non riesce a
garantire queste cose, e soprattutto lavoro e reddito, ai suoi cittadini? Sono troppi per le politiche di
austerity in vigore nell’Unione e imposte a tutti i paesi membri; quelle politiche che non riescono a
garantire queste cose a una quota crescente dei loro cittadini e che in questo modo scatenano la
“guerra tra poveri”.

Ma non sono troppi rispetto a quella che potrebbe ancora essere la più forte economia del mondo, se
solo investisse, non per salvare le banche e alimentare le loro speculazioni, ma per dare lavoro a
tutti e riconvertire, nei tempi necessari per evitare un disastro planetario irreversibile, il suo
apparato produttivo e le sue politiche in direzione della sostenibilità ambientale. Il lavoro, se ben
orientato, è ricchezza. D’altronde l’alternativa a una svolta del genere non è la perpetuazione di uno
status quo già ora insopportabile, ma lo sterminio ai confini dell’Unione e la vittoria, al suo interno,
delle organizzazioni razziste che crescono indicando il nemico da combattere nei profughi e in tutti
gli immigrati. E se non proprio di quelle organizzazioni, certamente delle loro politiche fatte proprie
da tutte le altre forze politiche.

Così il “problema dei profughi”, non previsto e non affrontato dalla governance dell’Unione, perché
non ha né posto né soluzione nel quadro delle sue politiche attuali, può diventare una leva per
scardinarle per sostituirle con un grande piano per creare lavoro per tutti e per realizzare la
conversione ecologica dell’economia: due obiettivi che in una prospettiva di invarianza del quadro
attuale non hanno alcuna possibilità di essere raggiunti. E’ a noi italiani, e ai greci, che tocca dare
inizio a questo movimento. Perché siamo i più esposti: le vittime designate del disinteresse europeo