Dove inizia e finisce l’autodeterminazione? di G.Serughetti

Giorgia Serughetti
www.ingenere.it

Il corpo delle donne, il diritto, la libertà: non sono mancati in questa estate che sta finendo dibattiti e interrogativi intorno a questi temi sempre risorgenti, che animano fazioni opposte nell’opinione pubblicae dividono il femminismo. Voglio considerare tre casi che hanno fatto discutere: innanzitutto la risoluzione di Amnesty International per la decriminalizzazione della prostituzione, che ha visto insorgere contro la più importante Ong per i diritti umani un ampio cartello di associazioni femministe e star hollywoodiane. Poi c’è la vicenda dei libri per l’infanzia sul “gender” vietati dal sindaco di Venezia, su cui è intervenuto anche il cantante Elton John attaccando Brugnaro e difendendo il racconto di “famiglie omosessuali che vivono felici e contente”, rianimando così qualchediscussione sulla maternità surrogata che permette alla coppia Furnish-John di essere genitori di due figli (ne scrive, per esempio, Letizia Paolozzi). Infine, il caso di Martina Levato, l’“acidificatrice” condannata a 14 anni per aver sfigurato due ex fidanzati insieme al compagno Alexander Boettcher, che a Ferragosto ha partorito un bambino per il quale il Tribunale dei Minori di Milano ha avviato la procedura per adottabilità.

Riflettere in parallelo su casi così diversi può forse aiutare a orientarsi nella materia complessa racchiusa in tante questioni che interrogano l’autodeterminazione delle donne in ambito sessuale e riproduttivo. Credo che un punto essenziale sia decidere di chi vogliamo assumere lo sguardo, ascoltare la voce, provare a leggere i bisogni. Parto perciò da un assunto che riguarda un altro ordine di scelte, ma che ha il pregio di mettere d’accordo tutte le diverse anime del femminismo, ovvero quello che anima le battaglie per l’autodeterminazione in tema di aborto, e che suona più o meno così: “la prima parola e l’ultima sul proprio corpo spetta a ogni donna”.

Prendiamo il caso di Amnesty International. Come ha dichiarato l’Ong, la proposta di policy sulla prostituzione approvata l’11 agosto si basa sue due anni di consultazioni con un ampio numero di organizzazioni e singoli, tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità, UnAids, Anti-Slavery International, la Global Alliance Against Trafficking in Women, e poi gruppi di sex worker e di “sopravvissute”, associazioni femministe, LGBT e antitratta. L’obiettivo è “garantire una maggiore protezione dei diritti umani delle sex worker – che sono spesso tra le donne più marginalizzate nella società” attraverso la decriminalizzazione universale della loro attività e di quelle attività connesse che, quando criminalizzate, finiscono per ripercuotersi sulla loro condizione di precarietà ed esclusione. La decriminalizzazione, sostiene l’organizzazione per i diritti umani (d’accordo con numerosi esperti ed esperte), può garantire anche migliori condizioni per l’emersione delle situazioni di tratta e sfruttamento, al contrario della criminalizzazione che spinge verso l’invisibilità.

La campagna ostile guidata dalla Coalition Against Trafficking in Women – e sottoscritta da star come Meryl Streep, Kate Winslet, Anne Hathaway, Lena Dunham – ha invece accusato Amnesty International di voler proteggere i diritti di clienti e sfruttatori. Eppure se assumiamo il punto di vista di chi si prostituisce, e non quello di clienti o sfruttatori, l’accusa di voler favorire questi ultimi svanisce sullo sfondo. Il problema è qui nella definizione dell’oggetto, un dilemma antico: la prostituzione è un lavoro da riconoscere o una violenza da eliminare? Non nego che considerarla un lavoro come un altro faccia nascere alcuni dilemmi importanti. Ma se è una violenza, come sostiene l’abolizionismo di stampo svedese, cosa ne facciamo di tutte e tutti coloro che affermano di esercitarla per scelta, magari sotto il condizionamento della necessità economica e della mancanza di opportunità alternative, come però – è il caso di ricordarlo – accade per molte altre attività? Esiste un altro caso in cui le protagoniste di una lotta per i diritti siano sconfessate in quanto portatrici di domande di riconoscimento, e non da chi le vorrebbe sottomesse e mute alla legge del più forte, ma da chi le ritiene bisognose di salvezza, anche contro la propria volontà?

Vengo quindi al secondo tema, quello della maternità surrogata, o gestazione per altri, meno discusso in questa estate ma già oggetto di grande dibattito nei mesi passati (si veda il caso suscitato dalle dichiarazioni di Dolce e Gabbana), e inoltre senza dubbio affine al precedente, perché riguarda l’uso del proprio corpo a fini non sessuali ma procreativi, in cambio di denaro. Se la prostituzione si presta a interpretazioni molto differenti del ruolo femminile – da quella incentrata sull’espropriazione del piacere e sulla subordinazione al diritto maschile, a quella che vede nella negoziazione economica del sesso una forma di resistenza a questo stesso diritto – la gestazione per altri pare gravata (almeno in Italia) da uno stigma molto pesante: la donna nuovamente ridotta a strumento di desideri altrui e a macchina riproduttiva. Il tema è complesso, ma se non ci si capisce su questa questione della procreazione persino un ddl fiacco come quello sulle unioni civili fermo in Parlamento rischia di trovare opposizioni insormontabili anche da parte di un’opinione pubblica sensibile al tema dei diritti (dove si sente dire: la stepchild adoption non nasconderà un incoraggiamento verso il ricorso alla maternità surrogata?).

Ciò che mi pare si perda di vista nella condanna senza appello di questa pratica e di chi vi fa ricorso è – come nel caso delle campagne contro la prostituzione – la soggettività delle donne coinvolte. Le quali lungi dal sentirsi universalmente soggette a una violenza culturale, e fisica, o espropriate del frutto del proprio ventre, non raramente riportano un’esperienza consapevole e serena. Si veda il racconto del rapporto con la madre portatrice che fa il giornalista Claudio Rossi Marcelli nel suo libro Hallo Daddy! (Mondadori) oppure le storie raccolte da Serena Marchi in Madri, comunque (Fandango).

Ma anche in quest’ambito i problemi etici, politici, nonché giuridici, sono tutt’altro che assenti. La maternità può essere un lavoro? Un lavoro come un altro? Il tema pare riguardare quasi esclusivamente la gestazione, perché la cura del bambino affidata a figure stipendiate solleva assai meno obiezioni. Dove porre dunque il limite del commerciabile? Come garantire la piena disponibilità del proprio corpo da parte di una donna, e insieme prevenire forme di sofferenza o abuso? Perché bandendo il denaro si presume di poter eliminare una fonte di oggettivazione, quando per qualunque altra prestazione, anche corporale (escluse la gestazione e il sesso, incluse invece le prestazioni domestiche e di cura), il pagamento in denaro appare come un veicolo di riconoscimento? Il punto è complicato, e richiede per essere sciolto niente meno che una riflessione sul rapporto tra corpo, persona, lavoro e denaro. E sulla relazione tra sessualità, riproduzione, norma e legge.

Eccoci quindi al terzo caso, in cui a una donna, condannata a 14 anni di carcere, viene tolto il figlio appena nato. Parrebbe un rovesciamento del caso precedente: se la genitorialità è un diritto che –in presenza di altri soggetti consenzienti – può realizzarsi anche nella maternità surrogata, come negare quel diritto a una donna che ha già messo al mondo il proprio figlio e ha intenzione di riconoscerlo, anche se le perizie psichiatriche indicano la sua incapacità di prendersene cura? In realtà il nodo è qui differente. Se accettiamo di definire la genitorialità come un fatto non solo biologico ma anche sociale, quindi non solo attraverso il desiderio della nascita ma anche della cura, ci accorgiamo che il semplice fatto della procreazione perde la predominanza discorsiva che porta a beatificare il ruolo materno, mentre al tempo stesso le famiglie adottive, ricostruite, monogenitoriali, omogenitoriali, assumono piena dignità quali luoghi possibili di investimento affettivo ed educativo. Difficile avere dubbi sul fatto che il figlio di Martina Levato e Alexander Boettcher troverebbe in una famiglia adottiva un luogo assai più adeguato a una crescita sana.

Tuttavia, anche qui ci sono questioni nient’affatto semplici da affrontare, che mettono in tensione corpo, desidero, diritto. A chi spetta la prima parola?A chi l’ultima? Il principio da cui sono partita, quello della “prima e ultima parola”, non può più avere validità assoluta quando i corpi da uno si fanno due. Ma può il sapere psicologico, medico o giuridico sostituirsi interamente al volere della donna? Non esiste lo spazio per una mediazione tra il sapere/potere dello Stato e il desiderio di una madre, uno spazio da aprire ben prima del parto, prima che il superiore interesse del bambino diventi oggetto della burocrazia e un paese intero si senta chiamato ad accusare o difendere la “cattiva madre”?