La strage infinita, la forza delle immagini, il ritorno del rimosso di A.Rivera

Annmaria Rivera
il manifesto, 4 settembre 2015

Lo sappiamo bene: ricorrere a lemmi come genocidio o Shoah per nominare altre stragi di esseri umani rischia di avallare o alimentare il revisionismo. Eppure le istantanee più recenti a riprova del trattamento dei profughi e della loro interminabile ecatombe contengono segni che evocano la semiotica del genocidio: la proliferazione di muri e fili spinati; i mucchi di cadaveri di asfissiati durante trasporti da bestie da macello; la marchiatura di massa degli esuli, bambini compresi, a rendere letterale la loro stigmatizzazione; i campi per migranti irregolari, con topografia, routine e violenza quotidiane simili a quelle dei lager, come mostra il caso esemplare del Cie di Ponte Galeria…

La più straziante delle immagini, quella del corpicino, esanime sulla spiaggia, di un bimbo di tre anni – Aylan Kurdi, come poi avremmo saputo –, vestito di tutto punto come per un viaggio di piacere, è non solo l’icona della vittima assoluta, ma anche la ricapitolazione potente di una strage spesso banalizzata o ridotta a singole cifre ed episodi, sia pur seriali.

Quest’ecatombe ha responsabili politici ben definiti, che non sono certo in primis i “trafficanti”, ultimo anello della catena del proibizionismo. Essa è, infatti, il frutto di un disegno, sia pur da apprendisti stregoni. I quali, mentre sempre più facevano dell’Europa una fortezza, contribuivano a destabilizzare e devastare ampie aree del mondo con politiche di sfruttamento neocoloniale, guerre e altri interventi militari: senza calcolarne le conseguenze in termini di esodi di massa obbligati.

Quella foto – scattata, insieme ad altre, da Nilufer Demir, giornalista turca – ha fatto il giro del mondo, suscitando eco vastissima e scuotendo le coscienze, nonché le cattive coscienze, di persone comuni come di massimi leader europei. Eppure v’è ancora chi vorrebbe non essere disturbato nell’opera di rimozione dell’Unheimlich, del perturbante. Infatti, certuni – non pochi cittadini italiani – invece di esprimere empatia e pietas, hanno protestato, tramite radio e web, per “l’intento ricattatorio” di chi, compiendo una scelta coraggiosa, aveva voluto pubblicare le immagini del bimbo annegato: “Vogliono costringerci ad accettare l’invasione”, ha commentato in diretta l’ascoltatore di una radio nazionale, dando prova di un cinismo ripugnante nella sua mediocrità.

E’ come dire che Robert Capa avrebbe fatto bene a tener nascosta la fotografia della morte del miliziano durante la guerra civile spagnola. E si sarebbe dovuto cestinare la foto, scattata nel 1943 nel ghetto di Varsavia, del bambino con berretto a visiera, cappotto corto, calze al ginocchio, che solleva le mani mentre un soldato tedesco gli punta alle spalle un fucile automatico. Così, anche il vietnamita Nick Ut avrebbe fatto bene a tenersi nel cassetto l’altrettanto celebre immagine del 1972 che, comparsa sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, gli sarebbe valsa un premio Pulitzer: quella dei bambini, una di loro completamente nuda, che fuggono da un attacco al napalm compiuto dall’esercito statunitense. Né si sarebbe dovuta render pubblica l’istantanea, scattata nel 2004, che mostra la soldatessa americana Lynndie England mentre, nella prigione-lager di Abu Ghraib, trascina al guinzaglio il corpo di un prigioniero iracheno, oscenamente de-umanizzato: anch’egli nudo e col volto visibile.

Insomma, per quanto scioccanti, vi sono immagini che compendiano con efficacia il senso di eventi della cui portata storica non tutti, in quel momento, sono consapevoli. L’immagine straziante del piccolo Aylan Kurdi è una di queste. Essa sintetizza dolorosamente la tragedia degli esuli dal disastro provocato in gran parte dall’Occidente e ci ammonisce su un rischio incombente: quello della disfatta morale dell’Europa che volle federarsi all’insegna di valori quali il rispetto assoluto dei diritti umani.

Essa, invece, si è finora illustrata per due primati. E’ la meta più migranticida al mondo. E’ stata incapace di distribuire equamente, fra i ventotto Paesi federati, finanche la quota irrisoria di trentaduemila richiedenti-asilo: lo 0,0063 per cento in rapporto alla popolazione dell’UE.

Dopo lo choc provocato da quelle immagini, la Commissione europea ha deciso di elevare a centoventimila quel numero ridicolo. E la Germania – dando prova, essa, di una certa consapevolezza circa il rischio che il cattivo passato, mai sufficientemente elaborato, finisca per riemergere – si spinge fino a dichiarare che accoglierà ottocentomila rifugiati.

C’è da sperare, senza eccesso d’illusioni, che il sacrificio del piccolo Aylan – come di sua madre e del suo fratellino, come delle almeno duemilasettecento vittime della Fortezza Europa, da gennaio a oggi non sia presto annegato nel mare della realpolitik; – che valga, anzi, a segnare una svolta

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Infanzia violata

Tania Careddu
www.altrenotizie.org

“Ho perso mio padre quando avevo sette anni e da quel momento la mia vita è diventata molto dura per la mia famiglia. Ho lasciato la scuola a dieci anni per poter lavorare e aiutare mia madre e le mie sorelle. Ho lavorato per un falegname pitturando mobili per sei anni. Guadagnavo l’equivalente di neanche cinque euro al giorno. Un sacco di gente del mio villaggio era tornata dall’Italia e aveva costruito grandi case e aveva belle macchine, così con mio fratello sono andato a incontrare un mediatore e abbiamo concordato il pagamento per essere portato da Alessandria in Italia via mare.

Sono stato in mare per dodici giorni. Avevo solo qualche panino che ho fatto durare più a lungo possibile e non ho mangiato per quattro giorni interi. Sono stato in cinque barche differenti, alla fine. Durante il viaggio quelli che ci portavano continuavano a far salire sempre più persone in piccole imbarcazioni per poi stiparci tutti in una più grande che si è diretta verso l’Italia. I trafficanti sanno che possono essere catturati e che la barca può essere confiscata dalla autorità italiane, per questo non vogliono rischiare che cinque barche siano sequestrate (…)

Quando sono partito pensavo che stavo per guadagnare un sacco di soldi, che stavo arrivando in paradiso. Ma ho lasciato l’Egitto per un altro Egitto. Avevo così tante speranze e progetti quando sono venuto qui, ma ora sono solo deluso”. A parlare, agli operatori di Save the children nel dossier 2015 Piccoli schiavi invisibili, è Ahmad, uno dei tanti minori egiziani arrivati in un’Italia che ha deluso le loro aspettative.

Si sentono depressi, costretti a rimanerci pur volendo tornare a casa. E con un grande fardello: il debito contratto, dalla famiglia, per il viaggio. Che varia dai duemila ai cinquemila euro. Troppo alto per essere estinto immediatamente. Ricorrono alla sottoscrizione di un falso contratto con gli intermediari, ipotecando le proprie abitazioni. E aspettando la chiamata dei figli sbarcati nel Belpaese, perché è da quel momento che si comincia a pagare.

Con i soldi che i minori riescono a racimolare lavorando. Incastrati nelle maglie dello sfruttamento lavorativo: nei mercati generali di frutta e verdura, negli autolavaggi, nelle pizzerie. Caricare (e scaricare) un camion da dodici pancali: dieci euro. Riempire una cassetta di frutta: cinquanta centesimi. Un euro e mezzo all’ora – dalle nove all’una di notte, sette giorni su sette – per prestare servizio nei ristoranti gestiti da cittadini cinesi. Due o tre euro all’ora – per dodici ore consecutive – per un’occupazione negli autolavaggi. Cinquanta centesimi all’ora per lavorare nelle kebaberie.

Ma il calcolo dei soldi guadagnati è in ghinee egiziane e sembra equo. Così come egiziani (sembra equo?) sono gli sfruttatori, che, talvolta, sono gli stessi affidatari, alle dipendenze dei quali è alto il rischio di finire in attività illegali quali spaccio di droghe leggere, furti e rapine.

Per i minori afghani, invece, il pagamento del viaggio inizia già in mare. Chi non ha i soldi in tasca, può sdebitarsi guidando i gommoni dalla Turchia alla Grecia (tappa per arrivare in Italia). Previa giornata di prova per imparare a navigare. Viaggi lunghi, di violenza e abusi. Con la promessa che saranno sicuri: basta pagare anticipatamente i trafficanti, i quali poi spariscono con l’intero ammontare del viaggio. E così, dopo la violenza, il vuoto assoluto.

A suon di stupri, comincia il viaggio delle minori nigeriane. Chiuse in guest house, cominciano a ripagare i trafficanti del debito contratto per il viaggio. Verso un futuro migliore, a detta dello ‘sponsor’ o del ‘trolley’. Che le indottrina anche sulla storia da raccontare alle forze dell’ordine, una volta arrivate a destinazione. Non rivelare a nessuno la situazione è una promessa, sancita anche da un rito vodoo già prima della partenza e che sono obbligate a ripetere in altre circostanze, diventando uno strumento di controllo e di consolidamento del rapporto di sottomissione. Sia con gli sfruttatori sia con la mamam, che decide luoghi, tempi e modi delle attività di prostituzione.

Controllandole a vista: o personalmente o tramite una minimamam o con il passaggio in auto di uomini nigeriani, oppure tramite i social network per opera di altre minori. Fino all’estinzione del debito, che va dai trentamila ai sessantamila euro, la mamam ha il pieno controllo materiale delle ragazze. Sulle quali, oltre al saldo del debito che deve avvenire nel più breve tempo possibile, obbligandole a concedere prestazioni sessuali a bassissimo costo, specula anche sulle spese per le utenze e sull’affitto. Non solo per la stanza che occupano – divisa con molte altre coetanee – ma pure per il marciapiede in cui si prostituiscono. Da cento a duecentocinquanta euro, periodicamente. Fino a quando?