Immigrazione: la società sotto processo di D.Carbini

Daniele Carbini
cagliari.globalist.it

C’è qualcosa che non va se, nonostante il fermo immagine di un bimbo morto in spiaggia che gira il mondo svegliando coscienze intorpidite fino a provare la vergogna più profonda, ci si trova dinanzi ad un muro di rifiuto del migrante. Al di là delle ragioni geopolitiche, si pone necessariamente una questione antropologica che merita riflessione. Bisogna chiedersi che cosa siamo diventati e bisogna chiedersi se il dove siamo arrivati ad essere è un punto di non ritorno o se rimane una qualche possibilità di recupero sociale e civile. Bisogna interrogarsi con forza se ci si rende conto che ogni strato sociale è coinvolto in una forma di resistenza all’accoglienza del migrante, se si è pronti a elaborare raffinate distorsioni prospettiche della realtà pur di giustificare il rifiuto e non classificarlo come tale.

Ciò che lascia particolarmente sgomenti è la facilità con cui si classifica il problema migranti come un problema che non ci riguarda e che non siamo tenuti a risolvere e che ritrovandocelo in casa ci viene imposto contro la nostra volontà e soprattutto contro la nostra responsabilità. Sostanzialmente il migrante è un problema, è prima di tutto un problema, solo in seconda istanza è un essere umano con cui mi devo confrontare. In particolare è un problema che mi ritrovo a dover affrontare senza alcuna colpa e che non voglio gestire perché non sono in grado di gestirlo. Perciò questo problema è un fastidio che mi invade e che mi disturba, che non so come risolvere.

Il primo fatto che genera il rifiuto è la loro condizione sociale ed economica. Si tratta di migliaia di persone che non hanno possibilità di spesa e che non hanno una occupazione, perciò non sono qui per prendere, spendere o investire, bensì per chiedere. Chiedono aiuto. Il secondo fatto è che sono qui per restare, non sono di passaggio. Sono questi due elementi che generano la visione verso i migranti, che li priva del loro status di umanità e li declassifica in una massa informe che infesta il nostro territorio, al pari di una invasione di zanzare che distruggono tutto e mettono a repentaglio la nostra struttura sociale ed economica. I numeri strazianti dei morti sul mare, dei barconi che si ribaltano non creano di fatto nessuna commozione, è un dato che viene fagocitato e metabolizzato in fretta come nuda cronaca, come un ineluttabile fluire del mondo naturale, al pari dei fallimenti delle aziende, dei morti per le strade, dei suicidi, degli omicidi per le città. La nostra società si è talmente indurita la scorza, si è talmente incattivita alla resistenza, che registra i dati con un cinismo crudo e condito da altero distacco emozionale.

Non si può parlare di razzismo in senso stretto, altrimenti non si capirebbe quanto siamo lieti di ospitare arabi ricchi sfondati e preghiamo che spendano in modo folle lasciandoci cassetti pieni di denaro frusciante. Quelli ci piacciono tantissimo, gli sceicchi, e non ci crea nessun problema la loro religione islamica, il loro parco mogli, i loro valori sociali e la loro costituzione. Siamo ben disposti ad esaurire i loro desideri, purché siano qui per mostrare il loro lusso sfrenato in casa nostra e disposti a lasciare segni tangibili del loro passaggio. Costoro ci farebbe pure piacere che rimanessero più lungo, che trovassero il gusto e la volontà di realizzare un angolo stanziale su cui investire, che avessero voglia di fare altre Costa Smeralda in giro per la Sardegna, altre Alisarda e magari una flotta navale.

Se fosse razzismo, autentico, tutto questo non si verificherebbe. Non ci sarebbe ricchezza che tenga, sarebbero rifiutati in blocco, sarebbero indesiderati, sarebbero bruciati, depredati. È la condizione sociale del migrante il vero elemento di classificazione e in conseguenza di questa classificazione ne viene il sentimento di rifiuto. Il migrante a pensarci bene è associato né più né meno che al barbone, uno scarto della società, che non offre alcuna possibilità né utilità. Questo flusso di persone che improvvisamente ti ritrovi dentro casa, un flusso che respira, che cammina, che mangia, perde immediatamente ogni caratteristica di dignità. Non può essere una persona per bene, non può essere una persona formata negli studi e nelle professioni, non può essere evoluta, non può essere niente di positivo, se non un delinquente o alla meglio un randagio e si sa bene che i cani randagi quando sono in branco sono pericolosi, non sono gestibili, razziano e distruggono.

Come gli diamo da mangiare? Dove dormono? Come vivono? Dove vivono? Noi non siamo in grado di risolvere tutta la gamma dei problemi che inevitabilmente innescano. Se possiamo farlo allora è per un numero limitato di persone, dobbiamo fare selezione. E poi, comunque, in ogni caso, non qui, non a casa mia, dove non c’è ripresa economica neanche a piangere, dove la gente che può va via per lavorare, per cercare una possibilità, da qualche parte ma non qui, mica si può. Qui già abbiamo tante famiglie in difficoltà, che non hanno una casa, non riescono a pagare le bollette. Prima i nostri vicini di casa, prima loro, dopo se rimane qualcosa ci preoccupiamo dei migranti”. Lo schema si ripete in continuazione e viene considerato di buon senso, realistico, concreto. Non fa niente se le persone che già vivono qui e che non hanno una casa e un lavoro, che non riescono a pagare le bollette, sono usate con convenienza per giustificare il rifiuto del migrante, giacché questo concittadino non è mai aiutato né preso in considerazione, anzi è evitato, spesso disprezzato, isolato, lasciato alla deriva, lasciato in un limbo tra il randagio sotto controllo e il barbone che potrebbe essere. Il vicino bisognoso è solo un argomento utile, che viene caricato di pathos umanitario per dimostrare a quell’essere umano forestiero e ospite possibile che non è mancanza di volontà, che lo si vorrebbe aiutare ma questo è lo scenario, con tanto di dispiacere donato come un sontuoso tappeto di fiori dolenti. Che poi questo concittadino utile ritorni pure nella feccia da cui proviene, senza nemmeno un minimo di gratitudine.

Ma il flusso migratorio continua, non finisce nonostante lo scenario dolente e cinematografico, in cui è stato recitato un verismo da premio oscar. Questi milioni di stranieri informi e sempre poveri, con solo se stessi come bagaglio, arrivano senza sosta e occupano il nostro terreno. È qui, in questo momento che viene fuori la xenofobia crescente, che è comunque diversa dal razzismo, in quanto non è più un problema di razza o di biologia, ma di “straniero”, di ciò che non mi appartiene, che è diverso e che scuote, per il suo solo esserci, tutti i miei valori, quelli che non mi sono mai sognato di mettere in discussione, i miei parametri di riferimento, è un mondo altro che minaccia il mio. Straniero è estraniamento, ovvero quello stato che procura angoscia, una paura non identificata, che non ha forma, che non sai come affrontare, che è diverso dalla paura, che se io temo i cani allora so come identificarli, so come sono fatti, posso prendere le contromisure. Questa angoscia che toglie sicurezza, che mi fa sentire minacciato dentro casa, che mi fa mancare il pavimento sotto i piedi, che ha di fatto detto che le mie regole sociali non sono più assolute e assodate, che dio non è dio, che i rapporti sociali non hanno più quelle convenzioni in cui so come muovermi, che le feste non possono più essere collettive perché magari il tema è il maiale arrosto e questi il maiale non lo toccano che è sacro.

Questo migrante che mi ritrovo in casa, che non ha soldi, che non ha da mangiare, che non ha casa, che mi ritrovo in mezzo ai piedi, in casa mia, che non mi è utile, che non posso più cacciare, perché ormai è qui, è imposto, mi ha invaso, non sono riuscito a contenere l’onda d’urto, non per colpa mia, mi riscrive tutta la tavola dei valori e minaccia la mia stessa sussistenza. È la mia identità e la mia storia quella che viene minacciata. Si capisce che sono umani, che sono persone, che non tutti sono delinquenti, che alcuni sono laureati, che tanti sono donne e bambini, non possono non scuotere pure la mia pellaccia indurita e incattivita, ma devono integrarsi secondo le mie regole, le devono accettare e ritenere che siano giuste, perché a casa mia le regole le detto io. Si arriva agli estremi inconcepibili che parlano alla pancia inacidita dalla paura angosciosa della massa, messa duramente alla prova già dalla condizione personale, di uno stato crisi nel lavoro, negli affetti, di una posizione rancorosa verso la società che gioca questo ennesimo ed intollerabile schiaffo. Si arriva a condividere il populismo becero di matrice salviniana, che ad ogni necessario sforzo umano di integrazione vede una prevaricazione del pensiero unico, un’inaccettabile cancellazione del proprio sé e delle proprie conquiste storiche, di quel senso del possesso che viene demolito e percepito come una perdita, una ferita a morte.

In verità non è che una traduzione su grande scala di un campanilismo viscerale, tramandato di generazione in generazione, di una specificità che vede nel vicino di casa colui che ti vuole fregare e depredare, che ti vuole togliere ciò che ti appartiene e che ti spetta, è un complesso di inferiorità che si traduce in parole di riconoscimento della propria importanza, a conferma del non sapere fare mai i conti con se stessi. Solo nel momento in cui si capirà che il vicino di casa, dilatando il senso delle distanze e dei territori, è una opportunità ed una estensione dei propri confini, che il suo benessere è il mio benessere, che un privilegio per me che incide negativamente al suo benessere è un danno anche per me, che la conoscenza del suo mondo e della sua cultura è un ventaglio insostituibile di prospettive mai immaginate prima, che l’accettazione del suo esserci nel reciproco rispetto delle differenze è un arricchimento dell’identità storica stessa, che il suo contributo è un elemento fondamentale nel realizzarmi come soggetto autenticamente risolto che si pone nei confronti del mondo in un approccio non più di sudditanza, solo allora potremo pensare di essere una società migliore che ha deciso di risolvere i suoi problemi fondanti e di ricostruirsi.

Questo deve essere il percorso da intraprendere senza indugi, mettere la nostra società sotto processo, per riscriverla, grazie ai migranti, che ci hanno obbligato ad aprire gli occhi, che stanno obbligando la nostra società a riprendere se stessa.