Sabra e Chatila negli occhi di chi c’era di I.Colanicchia

Ingrid Colanicchia
Adista Segni Nuovi n° 32 del 26/09/2015

A metà agosto tre delegazioni italiane sono partite alla volta di Libano, Giordania e Cisgiordania per ribadire il diritto al ritorno dei profughi palestinesi – cacciati nel 1948 e nel 1967 – e dei loro discendenti, nella convinzione che la questione, troppo spesso dimenticata, sia invece centrale per il futuro del popolo di Palestina. Le missioni inizialmente dovevano interessare tutti i luoghi della diaspora palestinese, quindi anche la Striscia di Gaza e la Siria. La ferocia del conflitto che da anni insanguina la Siria ha però sin da subito reso impraticabile questa ipotesi e, a pochi giorni dalla partenza, anche la delegazione diretta a Gaza ha dovuto rinunciare a raggiungere la sua meta a causa della chiusura del valico di Rafah. Di seguito la seconda e ultima parte del resoconto della nostra redattrice che ha partecipato, dal 15 al 22 agosto, alla missione in Libano guidata da Maurizio Musolino del comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” (la prima è stata pubblicata sul numero 30/15 di Adista Segni Nuovi).

«Hanno ucciso mio padre con un colpo di pistola alla testa. Alla mia vicina di casa incinta di 9 mesi hanno squarciato la pancia. Dei dieci uomini cui ho raccontato quello che stava succedendo e che hanno deciso di andare a parlare con gli israeliani che presidiavano le uscite dei campi, neppure uno ha fatto ritorno».
Jamila mi guarda fisso negli occhi mentre mi dice di far sì che quelle parole non rimangano tra le quattro mura della sua casa. Siamo nel campo profughi di Chatila, alla periferia sud di Beirut. Seduta accanto a lei c’è sua madre, un fagotto di rughe scavate.
La storia che Jamila vuole che racconti è quella del massacro dei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, di cui ricorre il 33° anniversario: non perché pensa che ci sia qualcuno che non la conosca, ma perché nessuno fino ad oggi ha pagato per quelle 40 ore di sangue.

Verso la strage

È il 16 settembre del 1982. La guerra civile tra cristiani maroniti e musulmani dilania il Libano da sette lunghe estati. Da giugno l’esercito israeliano ha occupato il sud del Paese. A fornire al primo ministro, Menachem Begin, e al ministro della Difesa, Ariel Sharon, il pretesto per varcare i confini e mettere alle strette l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) – che in Libano ha traslocato dopo aver lasciato la Giordania e che è direttamente coinvolta nel conflitto – è l’attentato in cui rimane ferito Shlomo Argov, ambasciatore israeliano a Londra. Ne è responsabile un commando del gruppo di Abu Nidal, ex membro di Fatah espulso da Arafat già nel lontano 1974: l’Olp è dunque totalmente estranea ai fatti, ma il governo israeliano non si lascia sfuggire l’occasione per dire che il Libano va bonificato dalla presenza palestinese. Ad agosto la dirigenza dell’Olp – la cui presenza era sempre stata mal digerita, costituendo di fatto uno Stato nello Stato – accetta di lasciare il Paese a condizione che l’esercito israeliano non entri a Beirut ovest (dove si trovano i campi palestinesi e le sedi e gli uffici dell’organizzazione) e che un forza multinazionale garantisca la sicurezza dei campi profughi, a quel punto privi della protezione dei fedayn e dunque alla mercé dei falangisti cristiani e degli israeliani.
Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, l’Olp, insieme ai suoi combattenti, abbandona il Libano. Ma a dispetto degli accordi presi e delle assicurazioni fornite dall’inviato statunitense Philip Habib, il contingente composto da Usa, Italia e Francia lascia il Paese il 13 settembre, con 15 giorni di anticipo. Neanche 24 ore dopo, il leader delle Falangi Libanesi, Bashir Gemayel, eletto da un paio di settimane – per la gioia di Israele – presidente della Repubblica, viene ucciso da un’esplosione nella sede del suo partito.
L’attentato dà ancora una volta a Sharon l’alibi per rompere gli accordi ed entrare a Beirut ovest. Il 16 settembre l’occupazione della città è completata e i campi sono circondati dall’esercito israeliano. Tutto è pronto per far partire il piano concordato con i falangisti capitanati da Elie Hobeika.
Mancano poche ore al massacro di Sabra e Chatila. Quando la mattina del 18 settembre si porrà fine alla strage, strade e vicoli dei due campi saranno bagnati dal sangue di oltre 2mila persone (la cifra precisa non è mai stata accertata).

Nessuna giustizia

Jamila Khalife, in quel settembre del 1982, ha solo 14 anni. È fidanzata con un ragazzo che poi diventerà suo marito. «Quel 16 settembre ero nascosta in un rifugio insieme a tutta la mia famiglia», ci racconta. «Mia madre, mio padre, le mie sorelle e mio fratello. Quando abbiamo capito cosa stava succedendo siamo usciti. Tutti tranne mio padre. Siamo andati alla moschea per dare l’allarme: dieci uomini che erano lì hanno deciso di andare a parlare con gli israeliani. Non sono più tornati. A mio padre hanno sparato. Quando ho ritrovato mia madre al Gaza Hospital stava piangendo, ma non mi ha detto che papà era morto. Abbiamo dormito lì una notte ma il giorno dopo, non sentendoci sicuri, ci siamo spostati in una scuola».
Complici i razzi illuminanti sparati dall’esercito israeliano, il massacro prosegue incessantemente giorno e notte. Nessuno nel resto della città sa cosa sta succedendo. I soldati che circondano i campi respingono indietro, a morte certa, chiunque provi a uscire.
Uomini, donne, bambini, anziani (palestinesi ma anche libanesi che vivono nei campi e che tentano, inutilmente, di salvarsi mostrando la loro carta d’identità) sono falciati dalla ferocia dei falangisti. Giaceranno a terra, seviziati e mutilati, fino alla fine del massacro. Il caldo di quei giorni di settembre farà sì che molti sopravvissuti riusciranno a riconoscere i loro congiunti solo grazie agli indumenti e agli effetti personali.
Per tanti altri non ci sarà neppure questa consolazione: di molti non si troverà infatti mai il corpo. Così, per esempio, non si saprà più nulla del figlio diciannovenne di Abu Jamal che incontriamo per tre volte e che per tre volte ci mostra la foto di quel figlio perso per sempre.
Solo il 17 settembre cominciano a circolare le prime notizie della strage. Israeliani e falangisti sanno che resta loro poco tempo per tentare di occultare il bagno di sangue. Le milizie cristiane si mettono subito all’opera scavando fosse comuni per nascondere i cadaveri.
Il loro piano però fallisce e il 18 settembre il mondo viene a sapere cosa è successo.
Inutili i tentativi di parte israeliana di scaricare ogni responsabilità: la loro complicità con i falangisti è chiara.
Nonostante lo sdegno internazionale nessuno ha pagato per quel crimine di guerra. Non Elie Hobeika, a capo delle milizie falangiste, che dopo la fine della guerra civile sarà eletto più volte al Parlamento libanese. Non Ariel Sharon che nel 2001 diventerà addirittura primo ministro.
Mentre, con il resto della delegazione, posiamo una corona al memoriale del massacro (creato grazie al comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” e in particolare grazie all’impegno del giornalista italiano Stefano Chiarini) penso che questa storia meriti ogni parola spesa per raccontarla. Ancora e ancora, come mi dice Jamila.

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Il tempo sospeso

Federica Tourn
www.riforma.it

Shatila è piena di uccellini. Canarini, piccoli pappagalli verdi fanno sentire il loro canto per le vie strette del campo, fra i rifiuti, l’acqua stagnante e i bambini che giocano. Chiusi in gabbie piccolissime, stanno sospesi dentro le stanze senza finestre dei profughi siriani, arrivati fin qui da Yarmouk, periferia di Damasco, o da altre regioni devastate dalla guerra. I palestinesi hanno fatto loro spazio, se così si può dire, lasciando che i palazzi crescessero in altezza, fino al punto da oscurare il sole e togliere la luce a chi vive ai piani inferiori. Sono 25mila gli abitanti del campo profughi oggi, 7 mila i siriani, che si vanno ad aggiungere ai diecimila sfollati dai campi libanesi ormai chiusi di Tall El-Zaatar e Nabatyyeh, e agli iracheni fuggiti dalla guerra del ’91. Un chilometro quadrato di densità umana senza acqua corrente, spesso senza elettricità, senza servizi.

Shatila, da quando è stata costruita alla periferia di Beirut, dopo la fondazione dello Stato di Israele nel ’48 e il conseguente esodo di palestinesi – 700mila arabi palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case, in una diaspora drammatica che interessò i Paesi vicini, fra cui appunto il Libano – è stata distrutta sette volte fra guerre civili, scontri fra fazioni politiche e religiose e vere e proprie spedizioni punitive. L’episodio più grave è l’eccidio compiuto dalle Falangi cristiane libanesi e dall’esercito israeliano 33 anni fa, dal 16 al 18 settembre 1982. Due giorni in cui vennero sterminati senza pietà uomini, donne e bambini nel campo profughi di Shatila e nel quartiere adiacente di Sabra, compiuto nonostante l’assicurazione avuta dal primo ministro israeliano Begin e dal futuro presidente libanese Gemayel che, in cambio della partenza dei guerriglieri dell’Olp, i soldati non avrebbero toccato i civili palestinesi. Neanche la forza internazionale di interposizione, garantita dagli Stati Uniti servì, invece, a fermare il massacro: furono 4mila i morti e Shatila venne quasi completamente rasa al suolo.

Anche la casa di Jamile Shehade è stata abbattuta, e non era la prima volta. Lei è sopravvissuta ma non è se n’è andata: oggi è responsabile del Centro educativo Beit Atfal Assumoud di Shatila, che organizza diverse attività per i bambini del campo, dall’asilo per i piccoli a teatro, musica e biblioteca per i più grandi, offrendo anche la possibilità di un controllo medico e dentistico gratuiti. Sono più di mille a passare sulle strette scale del palazzo del centro e la porta è sempre aperta: «Palestinesi, libanesi, siriani, musulmani o cristiani, a noi non importa – dice Jamile – noi abbiamo rispetto per tutti». La luce va e viene, come dappertutto a Beirut, ma qui il buio dura di più. «Dopo il massacro non c’era più un uomo in tutta Shatila – ricorda – erano tutti morti o in prigione. Il campo lo hanno ricostruito le donne, gli anziani e i bambini, con l’aiuto dell’Unrwa e della Croce Rossa». «Non c’è acqua potabile e nemmeno un’area verde in tutta Shatila dal 1982. Quando ero bambina io eravamo 4mila nel campo: non avevamo niente ma c’era almeno lo spazio per giocare. Ci conoscevamo tutti e sopravvivevamo grazie al supporto reciproco», aggiunge. Jamile è nata qui, i suoi nonni sono arrivati dopo il ’48 e all’inizio hanno vissuto sotto una tenda. Non ha mai vissuto altrove, ma questo non è il suo Paese. La terra è la Palestina. «Ormai i primi profughi sono quasi tutti morti, noi siamo la seconda generazione e abbiamo la responsabilità di trasmettere la memoria ai più giovani».

L’incertezza del futuro, però, è fortissima. Quest’anno, ai problemi cronici del campo – dal sovraffollamento, alle malattie endemiche, dalla droga alla violenza e alla mancanza di lavoro – si aggiunge la preoccupazione per la possibile chiusura delle scuole. L’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che cerca di garantire condizioni dignitose di vita ai cinque milioni di rifugiati palestinesi in Medio Oriente, sta attraversando una grave crisi finanziaria, che rischia di mettere in discussione il suo impegno per l’istruzione dei ragazzi palestinesi della diaspora. «Sono 700 le scuole a rischio chiusura – dice Kassem Aina, direttore generale dell’Istituto Beit Atfal Assumoud – questo significherebbe 21mila persone senza lavoro e soprattutto otto milioni di ragazzi senza diritto allo studio, consegnati alla strada e quindi alle mafie e all’Isis». Un problema drammatico, soprattutto in Libano dove i palestinesi non hanno accesso ai diritti di base, essendo apolidi: non possono (e non vogliono) diventare libanesi ma non sono considerati nemmeno cittadini di un altro stato, quindi non possono essere equiparati a rifugiati di altri paesi. Anche se studiano, non hanno diritto a un lavoro che richieda competenze, perché possono svolgere soltanto mansioni umili, non possono comprare una casa, ma soltanto affittarla.

Non hanno modo, salvo eccezioni, di uscire dal Libano. Sono, in pratica, prigionieri senza diritti in una terra che non li vuole. «La crisi dell’Unrwa e il taglio dei fondi sono un problema politico, non soltanto finanziario», commenta Kassem Aina. Per ora, grazie a donazioni internazionali, l’anno scolastico è cominciato ugualmente. «Ma non sappiamo quanto durerà», dice Aina. Sul ruolo delle fedi nelle dinamiche sociali, Aina non ha dubbi: «noi siamo apolitici e laici – taglia corto – le religioni diventano un business e non ci interessano, sono una faccenda da ricchi».

L’emergenza istruzione ha coinvolto anche i bambini, che hanno fatto una manifestazione nel campo per protestare contro la possibile chiusura delle scuole: «Molti dei nostri ragazzi e ragazze sono bravissimi ma spesso smettono di studiare perché la famiglia ha bisogno che portino soldi a casa», dice Jamile. «Ogni volta che accade ho paura», confessa.

Bisogna essere forti per vivere qui, aggiunge poi, quasi sottovoce, senza smettere il sorriso. Lo stesso che incontri nelle bambine e nelle madri siriane che ti invitano ad entrare in casa – una stanza, una finestra oscurata, poche cose in un angolo – per offrirti i biscotti appena fatti mentre ne racconti ripercorrono la strada fatta per arrivare qui, per togliersi dalle bombe di Assad e provare a ricominciare, in un appartamento da condividere in due famiglie, 300 dollari per 15 metri quadri. E’ un incrocio di nostalgie, Shatila, un occhio sempre attento a dove si va, ai rapporti di potere, alle alleanze. Bisogna essere forti per vivere qui, in un limbo perenne, e resistere alla nostalgia di un Paese mai visto, di cui sai a memoria le canzoni da quando hai cominciato a parlare e in cui speri continuamente di tornare.

«Se chiudo gli occhi posso vedere il mio villaggio, vicino ad Haifa – confessa Jamile – per me è il paradiso. Ho sentito talmente tante volte le storie dei mei nonni che ormai mi sembra di esserci stata».