Volkswagen, la caduta degli dei di M.DEramo

Marco d’Eramo
www.micromega.net

Lo so che è abietto e infantile, ma non è possibile non provare un piacere maligno di fronte al caso Volkswagen, le cui auto a motore diesel emettevano fino a 40 volte più emissioni di quello che appariva dai test, grazie a un software che avvertiva il motore quando un accertamento era condotto su di esso, per poi liberare le emissioni quando il test era finito.

Sono anni che la Germania ce la mena con il rispetto delle regole, con il giocare corretto. Su un punto è sempre stata inflessibile, quasi teutonica: gli impegni presi vanno onorati, come i debiti vanno ripagati: in nome di questo principio, ha spillato i greci al muro come farfalle di un entomologo (e ha incassato svariate decine, se non centinaia di miliardi dai profitti sui differenziali dello spread con i vari paesi del sud Europa). E poi si scopre che la più grande industria tedesca fa ecologia creativa, proprio come i politici greci e italiani fanno “finanza creativa”: l’una nasconde le emissioni tossiche sotto il tappeto, come fanno gli altri con i debiti delle amministrazioni locali.

E vai con il capitalismo renano e con l’ordo-liberismo e il rimettere in ordine casa propria. Senza parlare dello sfoggio persino imbarazzante di “tecnologia tedesca” qui e “tecnologia tedesca” là. Mancava solo che si vantassero della tecnologia tedesca per i calzini: certo è che se ne sono gloriati per un prodotto come lo shampoo: e non è un’esagerazione, vedi lo spot dello shampoo Alpecin in Gran Bretagna e in Italia, che ha lasciato interdetto anche il Financial Times.

Ora scopriamo che il secchione della scuola truccava i compiti in classe, dopo aver sempre rifiutato di aiutare i compagni di banco meno dotati. Scopriamo che una delle industrie più potenti del mondo, e più avanzate, replicava con tecnologia sofisticata l’antico mestiere napoletano del pittore di pesci, l’artigiano che prima di esporre sul banco rionale la sua mercanzia ittica, dipingeva le branchie di rosso vivido e gli occhi di smalto brillante per far sembrare più freschi cefali e merluzzi.

Esiste un termine tedesco che descrive in modo appropriato il piacere che tutti noi europei non possiamo non provare, ed è Schadenfreude. La gioia per il dispiacere altrui. Ma c’è anche un sentimento più sano. Ed è la vittoria del principio di realtà su ogni mito, su quello dell’invincibilità, quello della perfezione, quello dell’inappuntabile affidabilità. Sembrava troppo bello per essere vero, e infatti non lo era.

Ma c’è un altro bagno di umiltà che è reso necessario da questa sporca storia, e riguarda la sensibilità ambientale dei vari continenti. Un bagno che riguarda tutti noi europei e non solo i tedeschi. Da decenni noi popoli del vecchio continente siamo stati portati a credere di essere i più sensibili all’ambiente, i più attenti ai pericoli ecologici, i più decisi nella lotta all’inquinamento, contro gli scialacquatori di energia (statunitensi), i drogati di carbone (cinesi) e i disboscatori di giungla (brasiliani).

Prova di questo impegno naturale sarebbe la religiosa compunzione con cui ogni mattina differenziamo la nostra spazzatura, in un rito che ha preso il posto della lettura dei giornali in quella che Hegel considerava la devozione mattutina del borghese europeo. E invece la vera ragione per cui Volkswagen ha truccato i motori e ha rischiato il disastro che oggi si verifica puntualmente è che voleva esportare oltre Atlantico il modello “diesel” che prevale da noi. I tre quarti dei motori diesel mondiali circolano infatti in Europa provocando quella che l’Epa (l’Agenzia per la protezione ambientale Usa) ha chiamato “la catastrofe sanitaria europea”. Non solo ma le emissioni dei motori diesel contribuiscono pesantemente allo smog, al cambiamento climatico, all’assottigliarsi dell’ozono. Se cominciassero a disinquinare a casa nostra?

Dopo la parola tedesca Schadenfreude, in questa vicenda non poteva mancare un termine greco, ed è Nèmesi. Basta fare un po’ di conti: mentre scrivo, le azioni Volkswagen sono quotate 110 euro, mentre 52 settimane fa valevano 255 euro. Solo negli ultimi due giorni hanno perso il 30% del proprio valore (circa 15 miliardi di euro). Negli Usa VW dovrà ritirare 500.000 auto a un costo di 39.000 dollari l’una (quasi 20 miliardi di dollari in tutto) e molto probabilmente dovrà pagare una multa equivalente, portando le perdite immediate a circa 60miliardi di euro. Senza contare le perdite in prospettiva dovute al quasi certo crollo delle vendite mondiali e a agli altri ritiri che saranno richiesti da numerosi paesi: secondo le agenzie stampa, circolano nel mondo 11 milioni di veicoli Volkswagen (e della sua sottomarca Audi) identici a quelli messi sotto accusa negli Stati uniti.

Contando tutti questi fattori insieme, nel medio termine, la perdita potrà sforare i 300 miliardi di euro, che provocherebbero una bancarotta immediata se non fossero ripianati. E chi sarà chiamato a ripianare questa voragine? Sarà certamente il contribuente tedesco che per l’Auto del popolo (questo significa Volkswagen) dovrà sborsare di tasca sua l’equivalente di quel che non ha voluto concedere per ripianare il debito greco: è qui che constatiamo la nemesi storica.

Un’ulteriore circostanza rafforza il contrappasso. Ed è che i fondi che inevitabilmente dovranno essere scippati ai contribuenti tedeschi – ed europei – (“O la tassa o la vita”) potrebbero non servire a molto (proprio come nel caso greco), ove si rivelasse che simili trucchetti erano praticati anche da Daimler-Benz, da Bmw (e probabilmente da Peugeot, Renault, Fiat e gli altri grandi produttori europei).

Dalla Schadenfreude, passando per la nèmesi, non si può che finire nella Götterdämmerung (il “crepuscolo degli dei”).

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Scandalo Volkswagen e capitalismo: l’autoinganno tedesco

Jakob Augstein
Spiegel online, 24 settembre 2015 (traduzione di Cinzia Sciuto)

Das Auto: questo è lo slogan della Volkswagen. Breve, solo due parole, molto orgoglioso. Oggi si aggiungono altre due parole: der Betrug, la truffa.

La Vw ha venduto milioni di veicoli che emettono più gas di scarico di quelli dichiarati e consentiti. E, per evitare di essere smascherati, ha equipaggiato queste auto con dei software il cui scopo era proprio quello di occultare la truffa.

La Vw non è un’azienda qualunque. Per la sua storia, le sue dimensioni e per la particolare struttura del suo azionariato, è l’azienda tedesca per eccellenza. Se può fallire la Vw, può fallire anche la Germania. Per questo motivo questo scandalo colpisce al cuore la stessa immagine di sé dei tedeschi.

Che razza di azienda è quella che usa il proprio punto di forza – la tecnologia – per infrangere le leggi? Che razza di persone sono quelle che al mattino vanno al lavoro per violare le norme? Non siamo di fronte al comportamento sbagliato di un singolo. Si tratta di un reato commesso da un’intera azienda che ha smarrito il senso delle misure. E quando il reato è parte del lavoro, allora possiamo parlare di crimine professionale. E quando il crimine è ben organizzato si può parlare di criminalità organizzata.

Ma perché la Vw ha infranto le leggi? Per avidità. Circa 600mila dipendenti, 200 miliardi di fatturato, 119 fabbriche: un’auto su otto nel mondo è costruita dalla Vw. E deve continuare a essere così. L’agente di borsa americano Ivan Boesky, negli anni Ottanta, di fronte a una platea di studenti di economia, disse: “L’avidità è perfettamente accettabile. È bene che lo sappiate. Io penso che l’avidità sia sana. Voi potete essere avidi e sentirvi comunque bene”.

Poco dopo Boesky è stato arrestato dall’autorità di vigilanza sulla Borsa per insider trading e condannato a 3 anni e mezzo di reclusione e al pagamento di una multa di 100 milioni di dollari. Oliver Stone, con il personaggio di Gordon Gekko, gli ha dedicato un inglorioso monumento nel suo film Wall Street. Bene, non c’è nessuna differenza fra Boesky e la Volkswagen.

Dopo il 15 settembre 2008, quando il fallimento di una banca d’investimenti di New York, la Lehman Brothers, devastò la finanza internazionale, si diffuse in Germania un malcelato orgoglio, una certa superbia tedesca. Là le frodi e i sotterfugi della finanza anglosassone, qui il mondo chiaro e ordinato dell’industria tedesca. E risuonava in sottofondo la famigerata differenza fra il capitalismo “rapace” e quello “creativo”, proposta una volta da Joseph Goebbels nel suo opuscolo Il piccolo abc del nazionalsocialista.

Ma si tratta di un autoinganno. L’idea che esista un capitalismo buono e uno cattivo è un’illusione. Ed è ingenuo supporre una qualsivoglia superiorità morale dell’industria sulla finanza. L’amoralità è connaturata all’idea stessa di azienda. Gli uomini hanno (forse) una moralità, le aziende no. E qui sta un fondamentale equivoco del capitalismo moderno.

Più sono grandi, meglio è

In un lungo articolo sull’etica aziendale l’Economist una volta ha scritto: “Le aziende che mentono e truffano non possono aspettarsi di rimanere a lungo sul mercato, anche quando le loro azioni non sono contro le leggi”. Noi sappiamo che è vero l’esatto opposto. Ma così i guardiani dell’ideologia economica neoliberale si gettano da soli sabbia negli occhi.

Joel Bakan, giurista e regista canadese, nel suo importante libro The Corporation ha fatto notare che nel 19mo secolo il diritto americano ha iniziato a trattare le aziende come individui agenti. In quello tedesco la distinzione fra persone fisiche e persone giuridiche è stata compiuta un po’ più tardi. Eppure c’è una grande differenza: le persone fisiche hanno una coscienza, quelle giuridiche no.

Le persone litigano con la propria coscienza. Questa li tormenta, quelle la vogliono mettere a tacere. Senza coscienza non c’è salute mentale. Un uomo senza coscienza rientra nella psicopatologia. Non a caso Bakan ha descritto le grandi aziende come degli psicopatici.

Quali sono i tratti caratterizzanti della personalità psicopatica? Ingannatore dalla parola facile dotato di fascino superficiale, esagerata autostima, menzogna patologica, comportamento ingannevole-manipolativo, mancanza di senso di colpa, freddezza, mancanza della disponibilità ad assumersi la responsabilità del proprio comportamento.

Non è la perfetta descrizione delle grandi aziende? Più sono grandi, meglio è. E la Volkswagen è molto grande.