Si dice ministro o ministra? Se ancora ve lo chiedete abbiamo parlato poco di linguaggio e genere di C. Robustelli

Cecilia Robustelli

www.corriere.it 27esimaora, 30 Ott. 2015

Sappiamo fino dalle scuole elementari che in italiano (ma anche in altre lingue) per i termini che indicano esseri umani il genere grammaticale non si sceglie liberamente: viene assegnato in base a un principio generale del sistema lingua

Da quando al Governo ci sono tante donne, uno dei temi che sembra appassionare di più i commentatori, oltre al loro modo di vestirsi e di pettinarsi, è il modo in cui chiamarle. Si deve dire «ministro» o «ministra»? Un problema di linguaggio, quindi. Come se la questione della parità uomo/donna potesse essere risolta nel momento in cui la si smette di utilizzare alcuni termini e si comincia a parlare al femminile. Non più «avvocato», ma «avvocata». Non più «ministro», ma «ministra». Non più «sindaco», ma «sindaca». E così via.

(…) Siamo sicuri che il problema della parità lo si risolva veramente utilizzando il termine «ministra» al posto di «ministro»? Siamo sicuri che il rispetto delle differenze si riduca a una questione di «torsione linguistica»?

(…) il rischio vero, per una donna, non è tanto quello di non essere chiamata «al femminile», quanto quello di non poter mai occupare posizioni di rilievo o di responsabilità.
                                          (Michela Marzano, Papà, Mamma e Gender, Torino, Utet, 2015, pp. 46-48)

Così scrive Michela Marzano nel suo ultimo (ottimo!) libro Papà, Mamma e Gender, e io rimango impietrita. Se una persona della cultura di Marzano, che è tra l’altro una cara amica, pone la questione in questi termini, vuol dire che di linguaggio e gender, cioè «genere» inteso come l’insieme delle caratteristiche socioculturali associate al sesso (sì, proprio lo stesso concetto che compare nel libro) si è parlato ancora poco o che di studi e ricerche sul tema è arrivata solo una eco molto debole. Non vorrei che per questo tema fosse accaduto proprio quello che giustamente Marzano lamenta per la cosiddetta «teoria del gender» e che combatte con il suo libro: errori e confusione. Io ho solo poche righe a disposizione ma vorrei provare a chiarire almeno i punti fondamentali della questione «linguaggio di genere» o «linguaggio al femminile» o comunque lo si voglia chiamare. Il mio libro arriverà.

Allora, tanto per fare chiarezza, sono convinta che dire «ministra» o «sindaca» non risolva la questione della parità uomo/donna (di diritti, I suppose!) e che il rispetto delle differenze non si riduca a una questione di «torsione linguistica», secondo l’espressione (curiosa) usata nel libro. E anche che l’uso delle forme femminili e non maschili per indicare ruoli, funzioni, professioni, ecc. relative alle donne non dipenda dal voler essere politically correct né sia un pretesto per distogliere l’attenzione dall’essenziale più di quanto lo sia lo studio dei mitocondri rispetto a quello della cellula.

Usare il genere femminile in riferimento alle donne è però anch’essa – oltre che una regola della grammatica italiana, ma ne parlerò dopo – una questione centrale all’interno degli studi sul rapporto fra lingua, linguaggio e genere. Perché? Perché dal momento che in italiano il genere grammaticale femminile rimanda a un essere femminile, tutto ciò che è declinato al femminile contribuisce a individuare, costruire, descrivere il genere femminile.

«Che c’è di male se una ragazza vuole diventare calciatrice anziché ballerina?» chiede Marzano a p.70 usando, giustamente, il femminile «calciatrice» per l’immagine di una donna che gioca a calcio, un ruolo che quindi fa parte di quelli che le donne possono ricoprire e le professioni che possono svolgere (e quindi del genere femminile). E allora cosa c’è di male se una ragazza vuole diventare ministra o sindaca? Con un rimando, forse un po’ audace, a Judith Butler, si può dire che qui il genere grammaticale determini la funzione performativa dell’atto linguistico, perché questo ha come conseguenza l’assegnazione di un ruolo di genere.

E poi, che in italiano le forme femminili calciatrice, parrucchiera, massaggiatrice e maestra vadano benissimo e ministra, sindaca e rettrice no, è un atteggiamento che fa pensare: sembra quasi che ci sia qualche imbarazzo a considerare i primi ruoli propri del «fare» delle donne e quindi del genere femminile, e i secondi no.

Tornando alla grammatica, sappiamo fino dalle scuole elementari che in italiano (ma anche in altre lingue) per i termini che indicano esseri umani il genere grammaticale non si sceglie liberamente: viene assegnato in base a un principio generale del sistema lingua, per cui i termini che indicano gli esseri umani di sesso maschile sono di genere grammaticale maschile, e quelli che indicano esseri umani di sesso femminile sono di genere grammaticale femminile. E aggettivi, pronomi, participi concordano «in genere e numero con ciò a cui si riferiscono». Quindi «mio figlio fa il calciatore/lo psicologo/il ballerino» oppure «mia figlia fa la calciatrice/la psicologa/la ballerina». Sono meccanismi linguistici che usiamo quotidianamente, anche se forse poco consapevolmente del loro significato profondo in termini di genere e della loro funzione fondamentale sul piano testuale (ma di questo parlerò un’altra volta).

L’uso di ministra, sindaca, e rettrice non è quindi una sterile «torsione» linguistica ma contribuisce ad affermare, nel riconoscimento della differenza, la parità uomo/donna. E dal momento che il genere grammaticale femminile permette di identificare inequivocabilmente la persona cui ci si riferisce come una donna, permette anche di decodificare correttamente il messaggio e capire che si parla di una donna e non di un uomo (e anche di evitare storture ridicole francamente spiacevoli, come il ministro è incinta).

Pensiamoci: definire una donna con un titolo di genere grammaticale maschile per indicare il suo ruolo professionale o istituzionale comunica – ed è lecito, ci mancherebbe – che tali ruoli sono solo maschili, sono «cose da uomini» usurpate dalle donne, alle quali non sono riconosciute dalla società. Definirla «al femminile» significa invece riconoscere che la donna può occupare a pieno titolo posizioni di rilievo o di responsabilità: e questo rappresenta, oltre che una constatazione di fatto, un bel passo avanti nella costruzione del genere femminile.