Guerre: quali profitti? di M.Simoncelli

Maurizio Simoncelli
(Intervento tenuto al Cantiere del Cipax 2015/2016, il 12 novembre)
www.adistaonline.it

Quando mi è stato detto il titolo dell’intervento che avrei dovuto tenere, sinceramente ho avuto un attimo di panico, perché quantificare i profitti delle guerre non è per niente cosa facile. (…).

Se parliamo di profitti di guerra dobbiamo parlare di guerre e di armi. Vediamo quindi qualche dato. L’aumento delle spese militari, calcolate su base annua, negli ultimi due decenni è andato crescendo notevolmente: dai 1.200 miliardi di dollari degli inizi degli anni 2000 siamo passati ai 1.700 di oggi. In piena crisi economica le spese militari sono quindi aumentate, a livello mondiale, di circa il 50%.

Interessante notare che l’aumento è avvenuto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta (dopo il declino conseguente alla fine del bipolarismo): non è dunque legato alla guerra al terrorismo, essendosi cominciato a manifestare ben prima dell’11 settembre 2001. Ma chi sono i Paesi che spendono di più in armi? (…). Nel 2014 i più grandi spendaccioni sono stati gli Usa (che si confermano il Paese con la più alta spesa militare), la Cina e la Russia (quest’ultima però contribuisce solo per il 4,8% alla spesa mondiale mentre gli Stati Uniti per il 34%). L’Italia, nonostante tutta la crisi che stiamo vivendo, è comunque tra i 15 Paesi al mondo che spendono di più, con il suo 1,7%. Teniamo presente che, da soli, questi 15 Paesi coprono l’80% delle spese militari mondiali. Gli altri 180 si dividono dunque le briciole.

È interessante notare, oltre al ruolo della Cina, la presenza tra questi Paesi dell’Arabia Saudita (4,5%), dell’India (2,8%), del Giappone (2,6%) e poi della Corea del Sud (2,1%), del Brasile (1,8%), degli Emirati Arabi Uniti (1,3%, cosa particolarmente preoccupante essendo una zona molto calda) e della Turchia (1,3%, altro Paese oggi al centro dell’attenzione internazionale).

Se passiamo ai dati relativi all’esportazione di armamenti ritroviamo più o meno gli stessi protagonisti. I primi dieci esportatori di armamenti nel 2010-2014 detengono il 90% del mercato mondiale. Si tratta di: Usa (32%), Russia (27%), Cina, Germania e Francia (5% ciascuno), Gran Bretagna (4%), Italia, Spagna e Ucraina (3% ciascuno), Israele 2%.

Grossolanamente possiamo dunque dire che tutte le armi utilizzate nei conflitti in corso provengono da questi Paesi. Interessante notare la presenza dell’Ucraina che è il primo Paese esportatore di armi in Africa e che riveste inoltre un ruolo molto importante a livello geopolitico, con la base di Sebastopoli, la Crimea e in quanto territorio di passaggio del gas tra Russia e Unione europea.

Se andiamo a guardare le lista dei maggiori importatori di armi pesanti (sempre nel periodo 2010-2014), troviamo l’India (15%), l’Arabia Saudita e la Cina (5% ciascuno), gli Emirati Arabi Uniti, il Pakistan e l’Australia (4% ciascuno), la Turchia, gli Usa, la Corea del Sud e Singapore (3% ciascuno). Si tratta perlopiù di Paesi asiatici o mediorientali e molti si trovano in zone in cui ci sono guerre in corso. E tutto questo la dice lunga. Vi segnalo in particolare il 10° posto di uno Stato piccolo come Singapore che da anni è uno dei maggiori acquirenti di armi. La domanda sorge spontanea: queste armi si fermano a Singapore o vanno anche altrove?

E l’Italia? Se guardiamo i dati relativi alle esportazioni di armi italiane vediamo che seppur con alti e bassi il trend è in crescita. Se paragoniamo il quinquennio 2005-2009 a quello 2010-2014 vediamo che l’Italia ha registrato, dal punto di vista delle zone geopolitiche di destinazione, variazioni significative rispetto alle autorizzazioni degli armamenti: se prima esportavamo soprattutto verso l’Unione Europea, ora esportiamo soprattutto verso Medio Oriente e Nord Africa. Come diceva Alberto Sordi: “Finché c’è guerra c’è speranza” e infatti non è casuale che l’incremento sia proprio in quest’area attraversata da conflitti, dove l’Italia si sta tanto impegnando a parole per la pace.

Il nostro Paese è inoltre un grande esportatore di armi leggere. Gli Stati Uniti ci hanno da poco soffiato il primo posto, ma insomma la nostra Beretta ci fa fare una bella figura a livello internazionale. Per quanto riguarda l’esportazione di armi leggere italiane nel 2014, i maggiori destinatari sono stati: Nord America (42%), Unione Europea (31,5%), Paesi Europei non Ue (8,5%), Africa (8%), Medio Oriente (4%).

L’OCCUPAZIONE DEL SETTORE

L’Istituto per la pace di Stoccolma (Sipri) da anni elabora un database delle 100 più grandi industrie del settore (Cina esclusa, poiché non si hanno dati attendibili). Il totale degli addetti di queste 100 aziende produttrici di armamenti è di 4.217.652 persone. Il totale degli addetti delle prime 10 aziende è di 1.077.390 persone.

Si tratta di cifre non irrilevanti ma pur sempre limitate se paragonate al giro d’affari di queste industrie: questo perché oggi il costo delle armi è molto legato al loro valore tecnologico. Il carro armato non costa tanto per la sua struttura ma per i sistemi d’arma elettronici di cui è dotato: quindi l’industria non impiega milioni e milioni di persone ma personale tecnico molto selezionato. Per intenderci, con la stessa cifra con cui oggi si compra un aereo, 50 anni fa se ne compravano 50. Gli Stati stanno quindi riducendo il numero di armi – si parla di “disarmo strutturale” – per avere però armi sempre più sofisticate.

Tra le maggiori industrie belliche mondiali per fatturato, la maggior parte è statunitense (con al primo posto la Lockheed Martin) ma al 9° posto c’è la nostra Finmeccanica che ha circa 64mila occupati (Finmeccanica non produce solo materiale bellico: è il 50% del fatturato a essere di tipo militare). (…).

GUERRE: COSTI E PROFITTI

Le guerre sono sia fonte di profitto per alcuni che fonte di costi per altri.

La definizione dei costi di un conflitto è una tra le operazioni più complesse, perché non parliamo solo della quantificazione dei costi immediati – relativi alle armi e alle munizioni – ma anche di quelli relativi a equipaggiamento, mezzi di trasporto, cure mediche, rifornimenti energetici ed alimentari, paghe.
Altro elemento da considerare è il non investimento delle medesime risorse in altri settori. In Italia, per esempio, abbiamo deciso di comprare per alcuni miliardi di euro circa 90 cacciabombardieri F35: queste spese vanno in una direzione e non in un’altra e costituiscono quindi un profitto per alcune aziende e un mancato profitto per altre, come quella ospedaliera, culturale, dei trasporti. (…).

A differenza dell’Italia, gli Stati Uniti, prima potenza mondiale, hanno un sistema di trasparenza invidiabile: riusciamo ad accedere a informazioni che in Italia fatichiamo a ottenere. Il bilancio del nostro Ministero della Difesa è quanto di più lacunoso ci possa essere. Gli studiosi internazionali fanno fatica a reperire informazioni complete, perché il bilancio del Ministero della Difesa comprende alcune voci ma altre dobbiamo andarle a cercare nel bilancio del Ministero dello Sviluppo economico o in quello del Ministero delle Finanze. Se sommiamo tutto, vediamo che ammonta a 23 miliardi l’anno: se consideriamo solo quello della Difesa ne risultano 20.

Negli Stati Uniti invece abbiamo dei dati precisi. Un report del Congressional Research Service (CRS) dice che la guerra in Iraq è costata agli Usa 814.6 miliardi di dollari. Quella in Afghanistan è costata sinora 685.6 miliardi di dollari. (…).

Gli Stati Uniti forniscono insomma informazioni dettagliate che qui in Italia ci sogniamo: già riuscire ad avere notizie sui costi delle nostre missioni militari all’estero è una battaglia, non parliamo di avere informazioni su come viene articolata la spesa militare nel dettaglio. Gli stessi parlamentari della Commissione Difesa non riescono ad avere informazioni precise.

Ci sono poi i costi relativi alle armi nucleari che, nonostante – e per fortuna – non siano più state utilizzate dal 1945, comportano comunque delle spese. Ad oggi ce ne sono “solo” 16mila nel mondo. E dico “solo” perché durante la Guerra Fredda questa cifra si attestava tra le 70 e le 80mila. Ciononostante, 16mila testate nucleari sono comunque più che sufficienti a distruggere il nostro Pianeta anche più volte.

Il Congressional Budget Office nel gennaio 2015 ha comunicato che gli Stati Uniti spenderanno circa 350 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni per potenziare e mantenere il proprio arsenale nucleare. Si arriverà a 1.000 miliardi di dollari nell’arco di 30 anni. Secondo uno studio della Brookings Institution, i costi di ricerca nucleare, sviluppo, test, dispiegamento e manutenzione hanno superato i 5.5 trilioni di dollari dal 1996.

Proprio a novembre è stato presentato poi il Rapporto “Don’t Bank the Bomb 2015” che analizza il ruolo degli istituti finanziari impegnati con aziende produttrici di armi nucleari. Il Rapporto ha anche una sezione dedicata all’Italia grazie alla quale scopriamo che una serie di banche italiane finanzia aziende che lavorano nel settore delle armi nucleari. Si tratta di Anima, Monte dei Paschi di Siena, Banca popolare di Sondrio, Banca popolare Emilia Romagna, Banco di Sardegna, Banco popolare, Carige Group, Gruppo BPM, Intesa San Paolo, UBI Banca, UniCredit.

Ci sono poi altri costi, cui corrisponde sempre il profitto di qualcun altro. Ci sono i costi relativi ai danni immediati all’economia dei Paesi coinvolti e i conseguenti profitti di chi si occupa della ricostruzione. Ci sono i costi relativi ai danni a lungo termine allo sviluppo dei Paesi coinvolti: per esempio generazioni che non possono andare a scuola e quindi prepararsi professionalmente, costi che si traducono in profitti per quei Paesi che forniscono personale qualificato. Ci sono i costi delle migrazioni forzate e quindi i profitti dei trafficanti di esseri umani che fanno soldi a palate (…). Ci sono poi i costi delle azioni internazionali di salvataggio: Trident, Mare nostrum… E infine i costi delle politiche di accoglienza che per qualcuno sono profitti: basti pensare a Mafia Capitale.

I dati dell’Unhcr sui rifugiati per cause di guerra ci dicono che negli ultimi anni c’è stata un’impennata tale che alla fine del 2014 gli sfollati ammontavano a circa 60 milioni. Nel 2014 42.500 persone al giorno hanno lasciato la propria casa a causa di conflitti; nel 2013 erano 32.200; nel 2012 23.400; nel 2010 10.900.

E l’Italia quanto spende per il sistema di accoglienza?

Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – Sprar costa circa 180 milioni di euro annui, ripartiti tra i 400 centri considerati idonei. Attenzione! Non è che questi 180 milioni di euro li diamo ai rifugiati! Una minima parte va direttamente a loro: dei famosi 35 euro che spendiamo quotidianamente, il 90% va a imprese che operano nel settore e che fanno profitti anche su questo terreno.

Globalmente l’Italia spende attorno ai 2,6 milioni di euro al giorno per l’accoglienza sia per i Cara, Cda e Cpsa (1.600 strutture temporanee e 14 centri governativi per richiedenti asilo), sia per lo Sprar.

Poi abbiamo i costi delle missioni di salvataggio. Per l’operazione Mare Nostrum spendevamo 9,5 milioni di euro al mese, 114 milioni di euro in un anno. L’operazione Triton, dell’Agenzia europea per la sicurezza (Frontex) con funzioni di controllo delle acque territoriali comunitarie (e non di soccorso in mare), dovrebbe costare all’Unione Europea 120 milioni di euro per il biennio 2015-2016.

L’Italia ha poi una serie di missioni internazionali dette di peacekeeping finanziate con un fondo non compreso in quello del Ministero della Difesa – spese imputate quindi ad altri Ministeri – il cui costo è stimato grosso modo in un miliardo di euro l’anno. Queste missioni interessano perlopiù l’area del Mediterraneo che possiamo dire con orgoglio di aver vivacemente contribuito a destabilizzare, sia con la guerra contro la Libia che con le forniture di armi, come le bombe inviate all’Arabia Saudita impegnata in un conflitto con lo Yemen.

Insomma, l’industria degli armamenti non è che uno degli innumerevoli elementi che vanno presi in considerazione per definire i cospicui costi e profitti delle guerre.