“Il nodo della cultura della pace” in un libro di Armido Rizzi di G.Petrucci

Giampaolo Petrucci
Adista Notizie n° 1 del 09/01/2016

Arriva in una fase storica drammaticamente attraversata e lacerata da guerra e terrorismo. E dalle risposte spesso dissennate degli Stati e della comunità internazionale che, in ogni ambito e in ogni latitudine, vengono messe in campo. È il volume di Armido Rizzi (teologo e biblista, esperto di ebraismo, redattore di Servitium, Rivista di Teologia Morale e Filosofia e Teologia), pubblicato dall’editore Pazzini con il titolo “Alle origini della violenza. Il nodo della cultura della pace” (pp. 86, 12€, acquistabile presso Adista, 06/6868692, abbonamenti@adista.it, www.adista.it). Fondamento di questo libro è il capovolgimento della prospettiva di risoluzione delle controversie cui siamo ormai abituati: «L’offerta del perdono è un segno vincente di pace in ogni conflitto lacerante, specialmente dove massima è la violenza come la guerra e il terrorismo. L’inizio della pace avviene mediante gesti unilaterali di riconciliazione, rinunciando all’accanimento contro il nemico».

La violenza, spiega Rizzi, nasce come «dovere etico» di rimozione di quegli ostacoli che minacciano la conservazione di un ordine costituito. Nelle religioni “si deve” conservare un ordine cosmico; nelle società la sfera sacrale è sostituita da un ordine laico, ma non meno sacralizzato, come avvenuto, e ancora avviene, nelle dittature. In ambedue i casi, la violenza perpetrata contro chi “minaccia” tale ordine (si pensi alle crociate contro i musulmani o all’Inquisizione in ambito cristiano), non è considerata un “male”, anzi è legittimata e incoraggiata proprio come opera di salvaguardia. Con l’avvento della modernità laica, poi, la “violenza legittima” per la preservazione non scompare ma passa nelle mani dello Stato, unico a poterla amministrare verso l’interno e anche verso l’esterno (la guerra) con il fine ultimo di garantire la pace e la sicurezza. Un’estensione più attuale della stretta correlazione moderna tra pace e violenza è rappresentata dagli organismi internazionali come la Nato o l’Onu, autorizzati ad utilizzare la violenza per conservare l’ordine internazionale.

Incrociando le tre dimensioni – etica, fede e laicità, dove la laicità è considerata la piattaforma comune degli esseri umani – il volumetto invita credenti e non credenti «ad agire per consolidare un’etica nonviolenta, mossi da un cuore pacificato che cerca di fare ciò che è giusto al di fuori della ragione giustiziera e vendicatrice». Partendo da un approccio filosofico (dove per filosofia si intende un discorso chiarificatore del linguaggio), l’autore sottolinea le forme di violenza giustificata (letteralmente “fatta giusta”) dal bene, o meglio dall’idea individuale e particolare del bene che arriva a legittimare vendetta, repressione, ritorsione. In tal senso si colloca la forza del “perdono”, che non è “condono” e non autorizza l’impunità. Il gesto di perdonare non azzera la giustizia (che comunque «deve fare il suo corso») ma la separa dal soggetto perdonante. «Il perdono è dunque la rinuncia a fare giustizia e a godere della pena inflitta al colpevole. Il perdono è dire: io voglio il tuo bene, desidero che tu abbia la felicità, ma che la raggiunga attraverso la sorgente di quella felicità che è la conversione al bene». Nell’«essenza del perdono e della riconciliazione» sta tutta la forza del capovolgimento proposto dal teologo: il perdono, e il pentimento dell’altro che ne completa il processo, presuppone «la rinuncia a considerare l’altro come nemico». In tal senso, conclude Rizzi citando un detto popolare, «la miglior vendetta è il perdono», perché con il perdono «non si vuole la morte di quell’essere umano che è il colpevole, ma la morte del colpevole che è in lui. E così adempie quella promessa che la violenza giustiziera fa senza poterla mantenere: ristabilisce l’ordine leso dalla colpa». Per il teologo perdono sta a vittoria come violenza sta a sconfitta. Nel primo caso si instaurano circoli virtuosi di pentimento e riconciliazione, nel secondo c’è solo la «menzogna» di una contrapposizione che permane.

Le 86 pagine del libro rappresentano un concentrato di spunti filosofici e teologici che, oltre a dimostrare la grande preparazione ed esperienza dell’autore, offrono interessanti e concrete chiavi di lettura del presente sul tema della violenza, della pace e della riconciliazione. «L’epoca attuale è il kairós per riprendere la lezione vincente del perdono e vederne, come mai forse in passato, le implicazioni “politiche”, cioè di rilevanza per le diverse sfere delle relazioni interumane di carattere sia religioso (intraecclesiale, interconfessionale, nel dialogo tra le religioni) che civile (dentro le comunità nazionali, nella costruzione della Comunità europea, in rapporto allo “straniero che è in mezzo a noi”, nelle relazioni internazionali)». La potenza del perdono, paradossalmente, impone alla politica un carattere di “debolezza” e di precarietà, avverte Rizzi: «Il perdono dato può essere rifiutato, può lasciare indifferenti o persino suscitare risentimento. Il perdono è privo di ogni garanzia storica di avere una propria efficacia sul destinatario». Il cammino del perdono non è lineare nemmeno qualora le cause di un conflitto non siano imputabili ad una delle parti in contesa. È comunque convinzione dell’autore che, in ambito politico, «l’inizio della pace è dato da questa volontà: accettare l’offerta di riconciliazione. Fare la pace significa, contestualmente, “fare pace” e “costruire pace”, mantenendo salda la consapevolezza della fragilità del percorso di riconciliazione e conservando, allo stesso tempo, un atteggiamento di incrollabile “fede” (in senso tanto religioso quanto laico), ovvero di “credere nella pace”».