Ma quale successo? L’accordo di Parigi sul clima ci avvicina al collasso di C.Fanti

Claudia Fanti
Adista Documenti n° 45 del 26/12/2015

Salutato come un accordo di valore storico, celebrato con tutta la retorica di rito da governi e mezzi di comunicazione come un passo decisivo nella lotta al riscaldamento globale, come «un messaggio di vita» – così François Hollande – inviato «proprio da Parigi, che è stata colpita dalla morte un mese fa», il documento approvato il 12 dicembre scorso dalle 195 delegazioni presenti alla Cop21 (la Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico), se è un passo decisivo, lo è casomai nella direzione opposta, quella della catastrofe planetaria.

È vero che è stato fissato «ben al di sotto dei 2 gradi centigradi, puntando all’obiettivo di 1,5°C», il limite all’aumento della temperatura globale; che è stata decisa una revisione ogni cinque anni dei piani nazionali per il taglio delle emissioni climalteranti e che è stato ribadito (lo si era deciso già alla Cop16 di Città del Messico, ma evidentemente senza molta fortuna) l’impegno dei Paesi sviluppati – senza però specificare altro – a mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno a favore dei Paesi in via di sviluppo da qui al 2020 (e non è poi molto, dal momento che il salvataggio delle banche statunitensi realizzato da Obama sembra sia costato 14mila miliardi di dollari), ma è anche e soprattutto vero che, per quanto l’accordo si definisca vincolante, non c’è nulla in realtà che vincoli gli Stati, dal momento che la riduzione delle emissioni – cioè l’elemento chiave dell’accordo – è decisa da ciascun Paese attraverso misure volontarie e non obbligatorie, senza alcun concreto strumento di controllo e di sanzione (e ciò soprattutto per accontentare gli Stati Uniti, il cui Congresso a maggioranza repubblicana liquiderebbe immediatamente l’accordo nel caso i tagli alle emissioni venissero imposti dall’esterno). Peccato che, come ha evidenziato la Via Campesina (organizzazione che raccoglie più di 200 milioni di contadini appartenenti a 180 organizzazioni di 73 Paesi del mondo), «quando si tratta di firmare gli accordi di libero commercio, gli Stati sanno assumere eccome impegni vincolanti», ma, si sa, è sempre «il denaro a dettare legge».

E c’è di più: se anche ciascun governo realizzasse davvero i tagli promessi, la temperatura salirebbe comunque di circa 3 gradi centigradi (se non di più), dunque il doppio del limite fissato. Per quanto le revisioni quinquennali dovrebbero in teoria servire proprio a rivedere al rialzo gli obiettivi di riduzione volontaria (i cosiddetti Indsc), per evitare di sforare il tetto del grado e mezzo, la prima verifica, prevista nel 2023, arriverà comunque troppo tardi, «quando – avverte l’associazione Ecologisti in Azione (www.ecologistasenaccion.org) – avremo già quasi emesso una quantità di gas a effetto serra tale da oltrepassare la soglia» fissata. E c’è anche chi, come Roberto Savio (Alai, 15/12), ritiene che già ora sia «troppo tardi per fermare il disastro che abbiamo provocato. Se – commenta – 20 anni fa, alla prima Conferenza sul clima a Berlino, il tema del riscaldamento globale fosse stato preso sul serio, avremmo avuto ancora tempo per farlo. Ma non ora, con la temperatura già salita di 1°C rispetto ai tempi preindustriali».

Dopo, insomma, oltre 20 anni di negoziati – il cui esito più evidente è stato quello di permettere, di conferenza in conferenza, un aumento delle emissioni del 50% – un accordo basato sulle “buone” intenzioni governative e su obiettivi di riduzione già in partenza totalmente insufficienti (e che oltretutto non entrerà in vigore prima del 2020) appare veramente un misero risultato. Si tratta di un documento, quindi, che di storico non ha proprio nulla, lasciando cadere nel vuoto, ancora una volta, gli appelli della società civile e anche dei leader delle religioni mondiali, uniti nella richiesta di un accordo forte e vincolante («Ogni anno – aveva dichiarato papa Francesco, di ritorno dal suo viaggio in Africa, a proposito della Cop21 – i problemi diventano più gravi. Siamo giunti al limite. Se posso usare una parola forte, direi che siamo al limite del suicidio»). E, soprattutto, lasciando ancora una volta inascoltata la voce dei più poveri, quelli che, pur avendo le minori responsabilità, soffrono le peggiori conseguenze del cambiamento climatico: non a caso, secondo il rapporto presentato dall’Oxfam a Parigi, il 10% della popolazione più ricca del pianeta è responsabile del 50% delle emissioni di anidride carbonica, mentre la metà più povera della popolazione mondiale – circa 3,5 miliardi di persone – ne produce solo il 10%. E completamente ignorata, a Parigi, è stata anche la questione dei rifugiati climatici, che, secondo le Nazioni Unite, potrebbero arrivare, nel 2050, a oltre 250 milioni.

Obiettivi reali e false soluzioni

Tra le associazioni ambientaliste, tuttavia, emergono, a sorpresa, anche letture più ottimiste, come quelle di Legambiente e del Wwf («Il testo contiene elementi che creano la possibilità di rendere le azioni dei governi sempre più forti col passare del tempo, in termini di mitigazione, adattamento e finanza», ha dichiarato per esempio Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del Wwf Italia). Stupisce anche il commento del direttore esecutivo di Greenpeace Kumi Naidoo, secondo il quale «vi sono molti punti nel testo che sono stati diluiti dai predatori del nostro pianeta», ma l’imperativo di contenere l’aumento della temperatura a 1,5°C «provocherà costernazione» tra le compagnie e i grandi esportatori di petrolio.

Eppure non si vede come l’industria petrolifera possa sentirsi costernata dal momento che il testo non fa alcun riferimento all’obiettivo della decarbonizzazione dell’economia, né alla necessità di mantenere sotto terra almeno il 50% delle riserve di combustibili fossili. Ma anzi, evidenziando la necessità di arrivare entro la seconda metà di questo secolo a un «equilibrio» tra emissioni climalteranti e rimozioni di gas a effetto serra attraverso fonti di assorbimento (come le foreste, ma non solo), apre chiaramente le porte anche a pericolose tecniche di geoingegneria come quella della cattura e dello stoccaggio di carbonio, che, come spiega bene la ricercatrice del Gruppo ETC Silvia Ribeiro (Alai, 13/12) nell’intervento che riportiamo qui di seguito, consentirebbe alle imprese di continuare a estrarre petrolio, «potendo oltretutto riscuotere crediti di carbonio per aver “catturato e sequestrato” gas a effetto serra».

Lo riconosce anche Bill McKibben, cofondatore dell’organizzazione ambientalista 350.org, affermando che se «i governi sembrano ora ammettere che l’era dei combustibili fossili deve giungere a termine, e subito», il potere dell’industria degli idrocarburi è comunque ben rispecchiato nel testo, il quale «prolunga la transizione in maniera tale da rendere ancora possibili infiniti danni climatici». Del resto, affermano in maniera anche più netta Gerardo Honty e Eduardo Gudynas del Claes (Centro Latino Americano de Ecología Social, Alai, 14/12), se i grandi esportatori di idrocarburi e le compagnie petrolifere hanno finito per celebrare l’accordo, è chiaro che «non si stanno ponendo limiti alla civiltà del petrolio».

Trovano invece spazio nel documento tutti i vari meccanismi di mercantilizzazione del clima già previsti nei precedenti round negoziali, come il “mercato del carbonio”, che permette a chi inquina di pagare altri perché puliscano, e la mercificazione delle foreste attraverso il meccanismo noto come Redd (Riduzione delle emissioni provenienti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste nei Paesi in via di sviluppo): un pacchetto di “false soluzioni” al problema del riscaldamento climatico – su cui si sofferma Via Campesina nel documento riportato di seguito – il cui scopo è in realtà quello di impedire qualunque cambiamento al sistema di produzione e di consumo.

Aveva ragione dunque, tra molti altri, lo scrittore Carlos Taibo, uno dei più noti teorici e sostenitori del movimento della decrescita in Spagna, ad affermare che nulla c’era da aspettarsi dalla Cop21: «Sono fermamente convinto – scriveva alla vigilia della Conferenza (Comune-info, 30/11) – che nessuno dei problemi legati al cambiamento climatico e all’esaurimento delle materie prime energetiche, troverà una soluzione all’interno del capitalismo. E poiché l’intenzione di lasciarci alle spalle quest’ultimo è oggi minoritaria, la cosa più facile è che ci avviciniamo, a marce forzate, al collasso». Aggiungendo: «Il nostro dovere non può essere che quello di organizzarci dal basso, con l’autogestione, la demercificazione, la de-patriarcalizzazione, l’azione diretta e il reciproco sostegno», cercando «buone compagnie per il dopo collasso».