Un Papa venuto prima della fine del mondo di R.LaValle

Raniero la Valle

Discorso tenuto il 5 dicembre 2015 all’Università di Lecce, su invito della Fondazione Tonino Bello di Alessano.

Vorrei partire da una frase detta da papa Francesco ai giornalisti nel viaggio in aereo di ritorno dall’Africa, il 30 novembre scorso.
Bisogna stare molto attenti ai viaggi di papa Francesco. Le cose più importanti spesso avvengono nei viaggi, e negli incontri con i giornalisti negli aerei del ritorno si può trovare una sorta di evangelizzazione globale.
Del resto il suo pontificato stesso è un viaggio. Per lui la Chiesa è una Chiesa che cammina. Per questo lui deve portare le scarpe nere. Senza le scarpe non si può stare davanti al gregge, e tanto meno in mezzo o dietro al gregge, come il pastore deve fare perché “il gregge ha il fiuto per trovare nuove strade”.
L’immagine di Chiesa di papa Francesco è quella di un popolo in cammino. Perfino il Sinodo, che uno immaginerebbe come una assemblea di uomini seduti, il papa spiega che è “un camminare insieme”, come dice la parola greca; è un fare esodo, uomini e donne insieme, e non solo i ricchi ma anche i poveri. Anzi proprio i poveri sono stati invitati a sedere dove prima sedevano vescovi e cardinali, nell’aula del “Vecchio Sinodo”, quando papa Francesco il 28 ottobre del 2014 invitò i rappresentanti dei Movimenti popolari di tutto il mondo in Vaticano, per avanzare la loro sacrosanta rivendicazione a “terra, casa e lavoro”.
Il papa che cammina per le strade del mondo è il contrario del papa che, come “santo prigioniero” se ne è stato chiuso per quasi un secolo in Vaticano, indispettito perché gli avevano portato via il potere temporale, con la sola eccezione di papa Pacelli che scese un momento nel quartiere di san Lorenzo devastato dal bombardamento americano durante la guerra; e la Chiesa in uscita, ospedale da campo nel tormento delle periferie, è il contrario della Chiesa degli apostoli chiusa nel Cenacolo dopo la morte di Gesù “per paura dei Giudei”. E’ meglio una Chiesa “incidentata”, dice papa Francesco, che una Chiesa che se ne sta al sicuro, dove non succede niente, e lo Spirito Santo invece di soffiare chissà dove sta.

Che cosa è andato a fare in Africa

Dunque partiamo, per questa riflessione che dobbiamo fare, dal viaggio in Africa (25-30 novembre 2015). Che cosa ci è andato a fare?
È andato ad aprire una porta. Si potrebbe dire – l’abbiamo vista tutti in televisione – una porta qualunque, la porta di legno di una chiesa di periferia. Era la porta della cattedrale di Bangui, in Centro Africa, un luogo che prima del viaggio era stato presentato come il posto più misero, più remoto e più pericoloso della terra, dove la gente si ammazza, in particolare tra cristiani e musulmani, come avviene al di là di un mitico “chilometro 5”. E il papa ha detto al pilota dell’Alitalia: se non mi ci porta lei, mi dia un paracadute, che ci vado da solo. Così è andato in quel posto così pericoloso, mentre c’era un conflitto, come ha fatto don Tonino Bello nel 1992 quando è andato a Saraievo, dove i cecchini sparavano sui mercati e sulle strade. E al chilometro cinque il papa ha fatto salire sulla “papamobile” l’imam musulmano, e insieme hanno salutato la folla.
Dunque il papa ha aperto quella porta, e dice: questa è una porta santa, e perciò è il centro del mondo, è la capitale spirituale del mondo. Ed ecco che la Chiesa non è più la Chiesa di Roma, è la Chiesa di Bangui, è la Chiesa di ogni punto del poliedro Terra dove si apre una porta santa.
Ma perché quella semplice porta diventa una porta santa? Perché si apre sulla misericordia, perché da lì comincia “un anno della misericordia”. Ma, come dice Pietro (2 Pt. 3,8), un solo giorno è come mille anni davanti al Signore, e mille anni come un giorno; dunque un anno è come se fossero mille e mille anni. E infatti che cosa ce ne facciamo di un anno solo di misericordia, di un anno solo in cui torni la pietà? E dopo che succede, torna l’inferno? Dunque non si tratta di inaugurare un anno di misericordia, ma un’età della misericordia, si tratta di dare inizio a una nuova epoca della storia umana, l’epoca della misericordia.
E attraverso quale porta si entra nell’età della misericordia? Non è solo la porta di san Pietro, né la porta delle altre tre basiliche romane, è la porta della cattedrale di Bangui e di ogni altra chiesa o pieve lontana: ma ciò significa, come ha scritto il papa nella bolla di indizione del Giubileo, che ogni porta può diventare una porta santa, se la si varca con animo di misericordia, se per essa si entra nella logica dell’amore. Certo è un bel colpo per l’Opera Romana Pellegrinaggi: ma anche questa è la riforma della Chiesa.
E allora porta santa, ha detto il papa, è anche la porta della cella di ogni carcere, se il prigioniero l’attraversa col pensiero volto al padre della misericordia, perché anche dietro le sbarre di un carcere si può fare esperienza della libertà. Ma se porte sante possono essere perfino quelle di tutte le celle di tutte le prigioni, porta santa può e deve essere la porta di ogni casa, ogni casa in cui abiti la misericordia.
E nemmeno si tratta solo delle porte di legno e di pietra, quelle con gli stipiti. Certo, quelle si devono aprire, come dice il salmista (Ps. 24):
Alzate o porte la vostra fronte
Alzatevi soglie antiche
Ed entri il re della gloria.
Ma non solo le porte di pietra prendono vita, lo stesso re della gloria è una porta, ogni persona è una porta, ognuno che vive, ognuno di noi, può essere una porta santa della misericordia. Anche Gesù, una persona umana, è stato in realtà una porta. “Io sono la porta delle pecore”, dice il Signore. Io sono la porta, chi entra sarà salvato (Gv. 10, 7-9).

Un trasloco nel Pacifico

Dunque, dopo aver aperto la porta, nel volo di ritorno Francesco dice, a proposito della Conferenza sul clima in corso a Parigi, una cosa assai sconcertante. Dice che “nel Pacifico c’è un Paese che sta comprando da un altro Paese terre per traslocare il Paese, perché entro venti anni quel Paese non ci sarà più”. Si sapeva del resto (ma nessuno se ne occupava) che già dal 1990 esiste un’alleanza di 42 piccoli Paesi, soprattutto Stati insulari, dell’ Atlantico, dell’Oceano Indiano e del Pacifico (OASIS) che si sono uniti insieme per lottare contro la loro scomparsa.
Ma non solo non ci sarà più quel Paese del Pacifico che vuole traslocare altrove, forse non ci sarà nemmeno la Groenlandia perché – ha aggiunto il papa – “l’altro giorno ho letto che in Groenlandia i ghiacciai hanno perso miliardi di tonnellate”.
E se i ghiacciai in Groenlandia non ci saranno più, ci saranno miliardi di tonnellate d’acqua in più, per il riscaldamento globale, che tracimeranno sulla terra, e perfino Crozza l’altra sera in TV ci ha fatto vedere una cartina geografica dell’Italia dove anche Milano sarà sommersa dalle acque (e sarà così risolto il problema della Padania!)
Allora la domanda è: Ma che cosa ci sta succedendo?
Questo è appunto il titolo del primo capitolo dell’Enciclica “Laudato sì”: “Quello che sta accadendo alla nostra casa”, ed è preso dal titolo di una lettera pastorale dei vescovi delle Filippine che risale al 1988 (29 gennaio 1988): What is happening in our beautiful land.
“Che cosa ci sta accadendo” è la domanda da cui comincia tutto, comincia anche il ministero pubblico di Gesù. Lo dice l’evangelista Giovanni narrando l’episodio delle nozze di Cana; quando Maria sollecita Gesù dicendogli che gli ospiti non hanno più vino, Gesù risponde con una frase che i traduttori fanno fatica a decifrare (il testo della CEI dice: “Donna che cosa vuoi da me?”) ma che letteralmente dice. “Che cosa ci sta accadendo, donna?” (“Tí emoì kaì soì, gùnai”, e la Vulgata: “Quid mihi et tibi est, mulier?” Gv. 2, 4).
Secondo la conferenza dei vescovi delle Filippine quello che stava accadendo era per esempio che le barriere coralline, che ospitano un milione di specie – pesci, granchi, molluschi, spugne, alghe ecc – oggi sono sterili o in declino. “Chi ha trasformato il meraviglioso mondo marino – scrivono i vescovi – in cimiteri subacquei spogliati di vita e di colore?”. E ciò è una conseguenza non solo di quello che si fa nel mare (per esempio la pesca col cianuro o con la dinamite) ma anche di quello che si fa sulla terra (inquinamento, industrie selvagge, rifiuti, deforestazione ecc.). Di fatto si perdono ogni anno da 20.000 a 100.000 specie viventi.
Veramente sono notizie da fine del mondo. Il mondo è lì da milioni o miliardi di anni (dicono quattro miliardi e mezzo) ed ecco, almeno per come noi l’abbiamo conosciuto, ora finisce. Come si ricorderà, nel racconto della Genesi la creazione fu anche un’operazione di separazione delle acque dall’asciutto, “e Dio chiamò l’asciutto terra, e chiamò le acque mare” (Gen.1, 9). E poi, come Dio dice a Giobbe, Dio ha messo un chiavistello al mare e gli ha detto: “Fin qui giungerai e non oltre, e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde” (Gb. 38, 10-11).
Per migliaia di anni gli uomini hanno creduto in questo chiavistello, si sono fidati, e hanno messo case e stabilito città sulle rive. A Brindisi c’erano le due colonne poste alla fine della via Appia, accanto al mare, e volevano dire: qui finisce la terra. Qui, vicino Lecce, a Roca, ci sono due grotte sull’Adriatico, proprio di fronte all’Albania, che si chiamano Grotte della poesia, dove migliaia di anni fa i Messapi, quando partivano o tornavano da un viaggio per mare, lasciavano iscrizioni votive, sicché quelle pareti sembrano una biblioteca, e il mare non è mai salito a coprirle. Ed ecco che ora questo chiavistello che fermava le acque lo stiamo facendo saltare, incuranti della fine.

Che fa un papa prima che il mondo finisca?

Ma allora, se c’è un mondo che finisce, cambia la percezione che abbiamo di questo papa, cambia l’idea di che cosa è venuto a fare come vescovo a Roma.
Fino ad ora avevamo percepito questo papa come un papa venuto dalla “fine del mondo”, in senso spaziale, come lui stesso aveva detto la sera dell’elezione: “i miei fratelli cardinali sono andati a prendere il vescovo di Roma alla fine del mondo”, cioè dal fondo dell’America, dall’Argentina.
Adesso sappiamo che questo è un papa scelto per fare il papa PRIMA della fine del mondo.
Dunque c’è una fine del mondo intesa non in senso spaziale, ma in senso temporale- (e non a caso il papa ci aveva avvertito, nella “Evangelii gaudium” – n. 222 – che il tempo è superiore allo spazio). E in ogni caso, se ancora non è la fine, c’è però l’annuncio della fine. La conferenza di Parigi sulla crisi climatica che i giornali presentano come l’ultima occasione data ai popoli per salvarsi, l’ultimo treno prima del disastro ambientale, è una specie di consulto su una fine annunciata.
E allora che fa un papa a cui, appena eletto, arriva la notizia che il mondo sta finendo, ma non perché avesse ragione l’Apocalisse, per un decreto divino, ma perché lo stiamo distruggendo noi? Qui non si tratta dell’escatologia, che fa parte del mistero divino che è una cosa bellissima a cui ci dovremmo aprire e preparare nella fede, ben più di quanto siamo soliti fare. Qui si tratta di un collasso della natura e della storia provocato da noi, di un suicidio antropico.
Che fa un papa messo lì prima che il mondo in tal modo finisca?
Arruola militanti per la guerra santa sui principi non negoziabili? Lancia un progetto culturale? Mette le guardie svizzere nei presbiterii delle chiese per impedire che i divorziati risposati o altri esclusi dall’eucarestia si accostino alla comunione? Se la prende col trambusto provocato dal Concilio o rinfaccia a Maometto la spada? Sottrae ai confessionali i peccati di aborto trattando le donne come omicide?
No, naturalmente. Se oggi c’è un rischio della fine, la missione del papa, la risposta alla domanda “che cosa è venuto a fare” non può essere che quella di fermare la fine, e di trasformare la fine in un principio, cioè annunciare e promuovere una storia nuova.

Si riapre la questione di Dio

E questo tocca al papa, e alle Chiese, prima ancora che alla conferenza di Parigi, perché se il mondo finisce, se per gli uomini si pone un problema di salvezza, allora si riapre la questione di Dio. Dio infatti, almeno per il credente, ha a che fare col mondo che finisce, se non altro perché lo ha fatto lui.
Ma se Dio ha a che fare con la fine del mondo, e se questo è il tema posto all’umanità di oggi, cade una certezza su cui è stata fondata la modernità: la certezza che tutto funzionerebbe benissimo, “anche se Dio non ci fosse”. Non si trattava di una tesi atea. Furono anzi proprio dei ferventi cristiani, pur ritenendo blasfema l’ipotesi che Dio non ci fosse o non si occupasse dell’umanità, a sostenere che comunque il mondo poteva andare avanti benissimo lo stesso. Su questo pilastro si è costruita la civiltà occidentale, e anzi su questo solo pilastro l’Occidente si è costruito la sua società, come i trampolieri che stanno in piedi su una gamba sola. È così che il “come se Dio non ci fosse” è diventato l’emblema della laicità, il blasone della secolarizzazione. Se Dio c’era, nessuna obiezione, ma era un affare privato.
Questa laicità ha avuto una funzione storica importantissima, e da essa non si può tornare indietro. Infatti nella misura in cui le Chiese, nel secondo millennio, dirottate com’erano sulle contese per il potere, proponevano un Dio sbagliato, un Dio che si poneva di traverso allo sviluppo umano, la modernità ha reagito mettendo Dio tra parentesi, in modo che la storia non ne venisse bloccata, e la scienza, il diritto, la libertà e il pluralismo delle religioni e delle culture potessero avere sviluppo. Lo stesso Benedetto XVI lo ha riconosciuto rievocando la “discontinuità” del Concilio. Fu appunto questo il conflitto della Chiesa con la modernità che solo il Concilio Vaticano II, non a caso posto da Francesco a premessa e fondamento del Giubileo della misericordia, è giunto a sanare.
Però questa ipotesi del come se Dio non ci fosse oggi va in crisi. Se in gioco è il mondo, non si può dire che Dio non c’entra. Se è in gioco la continuità della specie, e se la modernità è giunta a questa crisi dimostrando di non saperla prevenire e superare, non si può dire che tutto funziona benissimo anche senza l’ipotesi Dio. Se c’è un problema di salvezza, è proprio nel confrontarsi con esso che si comprende cosa voglia dire che le religioni siano vie di salvezza, e forse cominciamo davvero a capire cosa significa un Dio salvatore.
Però non avremmo capito niente di questo papa gesuita e nemmeno del cristianesimo, se dicessimo: “allora passiamo la pratica a Dio, che provveda lui a salvarci” (Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce, fu la sfida fatta a Gesù). Questo lo dicono gli atei, non i credenti; lo disse il grande filosofo, Heidegger, nel 1966, in un’intervista allo Spiegel che la rivista tedesca presentò con questo titolo: “Ormai solo un Dio ci può salvare”. I credenti invece sanno che Dio agisce attraverso le mani e il cuore dell’uomo, sanno che Dio, come afferma san Tommaso, ha dato all’uomo la “causandi dignitas”, la dignità di essere causa delle cose, e se la salvezza è un dono di Dio, e anzi solo in Cristo ci si può salvare, è anche un dono che gli uomini si fanno l’uno con l’altro; e anzi se, come ha detto papa Francesco all’ONU, c’è “un diritto all’esistenza della stessa natura umana”, questo è un diritto che ciascun uomo può e deve esigere dall’altro.
Il papa è venuto appunto a proclamare questo diritto nuovissimo all’esistenza della specie (c’è sempre stato, ma mai i giuristi se ne erano accorti), come i profeti avevano proclamato i diritti antichi, i diritti primordiali, quelli di primissima generazione.
Ma qui si va oltre la profezia. La profezia è infatti nell’ordine dell’annuncio, qui si tratta di dare inizio a un tempo nuovo, un tempo in cui ci si possa salvare, dunque (e scusate il termine tecnico) siamo nell’ordine messianico.
Caratteristica del tempo messianico è che è un tempo breve. “Il tempo ha caricato le vele”, cioè si è fatto breve, dice san Paolo ai greci di Corinto (1 Cor., 7, 29); e ai movimenti popolari riuniti di nuovo a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, il 9 luglio 2015, ha detto papa Francesco: “Il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine; non è bastato combattere tra di noi, ma siamo arrivati ad accanirci contro la nostra casa. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi… E non lo sopporta più la terra, la sorella madre terra, come diceva san Francesco”. E tornando in aereo dall’Africa, richiesto se dalla conferenza di Parigi a suo parere sarebbe venuta una soluzione, papa Francesco ha risposto: “Non ne sono sicuro, ma posso dire che o adesso o mai. Siamo al limite, al limite di un suicidio”.
Dunque siamo al termine di due processi che ci hanno portato ad aver poco tempo per salvarci: ci siamo sempre combattuti tra di noi (la storia come storia di guerra e di violenza, fino all’ISIS), e lo sfruttamento della terra fino alla rottura

Che cosa mettere in campo?

Se questa è la crisi, qual è la risorsa del papa, che cosa può mettere in campo?
Il papa riapre la questione di Dio, ma non propone il Dio dei miracoli, bensì il Dio della misericordia. Riapre un radicale processo di conoscenza di Dio, di cui l’uomo moderno sembra non sapere più nulla, e ne propone il riconoscimento, propone lo stesso discernimento che ne ha fatto Gesù. Questo discernimento è necessario (proprio per questo – ha spiegato il Concilio – il Verbo si è fatto carne) perché era necessaria – e lo è anche oggi – una nuova comprensione di Dio; infatti la storia, inclusa la storia delle religioni, è anche una storia dei fraintendimenti di Dio, da cui mano a mano i credenti e le Chiese si sono affrancati a cominciare dall’immagine del Dio violento, vendicatore, giudice e perfino sterminatore da cui le religioni, secondo un prezioso documento della Commissione Teologica Internazionale del gennaio 2014, devono prendere oggi un definitivo congedo, realizzando così un cambiamento epocale nella percezione di Dio e nella condotta degli uomini.
Questo è il significato della misericordia come messaggio e scelta in cui si riversa tutto il pontificato di Francesco, dalla scelta del motto papale – “miserando et eligendo” – alla ripresa del Concilio, al suo proseguirlo e incardinarlo nell’anno della misericordia e da qui in un’età della misericordia: misericordia di Dio, e misericordia anche nostra.
Storicamente la società umana si è costruita al di fuori e addirittura senza misericordia. E anche dopo che la misericordia si è pienamente svelata nel volto di Gesù, il mondo ha cercato semmai le vie della giustizia, non della misericordia. In nome della giustizia si sono fatte guerre giuste e conquiste, inquisizioni, punizioni, vendette, discriminazioni ed esclusioni. A metà del Novecento, dopo che il flagello era arrivato al culmine, i popoli ebbero un sussulto, e a San Francisco (magia dei nomi!) provarono la strada della misericordia, ripudiando la guerra, condannando i genocidi, proclamando i diritti, instaurando una convivenza; ma durò poco, e tutto fu di nuovo riassorbito nella guerra fredda e nel terrore bipolare prima, fino all’89, nel ripristino delle guerre e nella sovranità selvaggia del denaro poi, dopo la caduta del Muro..
L’ “ecologia integrale” del papa punta ora tutto sul ritorno della misericordia; non più solo come virtù privata o ornamento spirituale della vita, ma come nuovo criterio del politico (invece del criterio “amico-nemico) e come precondizione della continuità della vita sulla terra.
E’ questo che Francesco ci ha fatto vedere, un altro volto di Dio, un Dio che perdona sempre, che arriva sempre primo nell’amore e così ci muove ad amare. Il papa ci ha fatto vedere che con la misericordia non solo si può continuare ad abitare la terra, ma un altro mondo è possibile