Una pratica feconda di felicità: evangelizzare gli uomini di Beppe Pavan

Beppe Pavan
Cdb Viottoli – Pinerolo)

Le grandi discussioni/polemiche/battaglie intorno alla fantomatica “teoria del gender” mi sembrano rispondere alla patriarcale voglia di competere, alla intellettuale costruzione di corpi ideologici da contrapporre l’uno all’altro per far prevalere chi li incarna, consegnarlo alla fama, renderlo potente nell’organizzazione delle comunità umane…

Io credo, piuttosto, che la strada migliore sia quella delle narrazioni: guardarci intorno e dentro e narrare, ciascuno e ciascuna, ciò che vede, ciò che osserva, ciò che sente; in una parola: la propria personale esperienza.

Le differenze sono la caratteristica di tutto ciò che vive, ne sono una delle caratteristiche fondamentali, insieme al soffio vitale. La differenza appartiene all’essenziale, nascosto agli occhi di chi brama ridurre tutto a sé, per meglio dominare. Non c’è persona uguale ad un’altra, ci dice la scienza. E’ solo la tentazione del dominio, dell’accumulo, dell’arricchimento, che spinge una parte dell’umanità a inventare e a imporre le categorie di superiorità/inferiorità.

Terribile responsabilità hanno le dottrine religiose, in questo campo, chi le ha elaborate nei secoli e chi ancora oggi le impone.

La mia narrazione parte dal riconoscermi “nato da corpo di donna” e corpo irriducibilmente diverso da quello: non solo perché non posso generare e allattare, ma anche perché penso, soffro, amo, parlo, guardo, ammiro, partecipo… in modo diverso da lei.

Che poi mi appaia migliore o peggiore non è in relazione ai corrispettivi modi femminili, bensì alla possibilità per me di essere felice o meno nella vita. Questo osservo da molti anni: liberarmi dalle pigrizie e dalla tentazione di dominare, nella banale quotidianità di uomo “comune”, si sta rivelando una pratica feconda di felicità. E ad essa concorrono non solo la trasformazione, in atto da decenni, delle modalità di relazione nella vita di coppia, ma anche le trasformazioni che da quella sono derivate in tutte le altre relazioni. Vi risparmio l’elenco.

L’altro valore, che ho imparato ad osservare ed apprezzare, è la differenza femminile nei confronti delle istituzioni e del simbolico dominanti, di stampo maschile patriarcale. Le donne del femminismo nominano e praticano la loro differenza con libertà e coraggio: la chiamano “autorità femminile” e si esercitano a riconoscerla e praticarla tra loro. In questo modo si liberano dalla tentazione di omologarsi al pensiero patriarcale dominante e, insieme, offrono a noi uomini un’opportunità di riconoscere e apprezzare la loro autorità. Che non è e non vuole essere autoritarismo e dominio, ma libertà di mettere in parole e in pratiche il pensiero che ogni donna elabora dalla propria personale esperienza del mondo in cui abita.

A me – a noi uomini – tocca di rinunciare consapevolmente alla pretesa di credere superiore, migliore, il mio pensiero rispetto a quello: sono semplicemente diversi. Raccontandoceli a vicenda mi succede di veder modificarsi più o meno impercettibilmente il mio. E magari lei mi racconta altrettanto di sé e del suo.

Qui si radica la felicità del nostro camminare insieme, mano nella mano, ogni giorno di vita. E mi scopro fecondo, cooperatore di lei nel rimettere al mondo il mondo, come lo sono stato nel mettere al mondo i nostri figli e, tramite loro, i nostri nipoti. E, grazie alla rete di relazioni in cui sono immerso, bambini e bambine, ragazzi e ragazze con cui entro in relazione anche solo per qualche ora.

Sono le ore che trascorro nelle scuole grazie a progetti che si chiamano “Mi fido di te” (www.xsone.org), ideato dalla chiesa valdese nel pinerolese, oppure “Five men” (www.cosedauomini.eu) di Maschile Plurale in sinergia con la rete D.I.R.E. dei centri antiviolenza, oppure iniziative formative di singole scuole o di singoli/e insegnanti.

Quello che mi sembra ormai urgente realizzare è un progetto “universale” di cooperazione educativa tra adulti, docenti e genitori in primis, che li aiuti a prendersi cura con coerenza reciproca dei loro ragazzi e delle loro ragazze. Deve diventare universale, lo penso davvero, ma l’unica strada credibile per costruirlo è che cresca dal basso, dal desiderio e dall’impegno di ogni adulto/a che se ne fa consapevole.

Credo che non ci siano scorciatoie possibili, pena tornare sistematicamente indietro, come succede in campo economico, sotto la bandiera della crescita e dello sviluppo, sventolata da chi ingrassa sulla pelle di milioni di uomini e donne ridotti/e in schiavitù, anche nella nostra cristianissima Italia. O come succede nelle relazioni internazionali: i governanti occidentali sono pronti a condannare con fermezza e senza paura il terrorismo praticato dagli altri, mai a riconoscere e nominare il proprio, generatore di faide senza fine; mai a nominare la convenienza, per il mondo e per chi lo abita, di cambiare radicalmente i propri stili di vita, dispendiosi e rapinatori, e le modalità delle relazioni tra culture e comunità diverse. A partire da sé. Smettendo di giudicare gli altri.

Una pratica decisiva, per rimettere al mondo il mondo, è quello che Giancarla Codrignani chiama “evangelizzare gli uomini” (in “La famiglia secondo voi”, su Noi Donne di luglio-agosto 2012). Fede e conversione sono pratiche sessuate, come ogni pratica umana; e sono tali anche per chi pretende di insegnare, ad esempio la vetusta “chiesa docente”. L’autocoscienza è un’antica e saggia filosofia di vita, conosciuta da Gesù e da chi ne ha tramandato il messaggio: “Medico, cura te stesso… Togli prima la trave dal tuo occhio…”. Loro, gli uomini del sacro, lo predicano volentieri ma faticano molto a praticarlo; anzi: commissariano le suore troppo femministe invece di cogliere il femminismo di quelle suore come stimolo e occasione per ripensare al proprio ruolo di dominio di stampo patriarcale, che dobbiamo invece riconoscere ed abbattere per costruire insieme, donne e uomini, “cieli nuovi e terre nuove”.