Veglia natalizia 2015 – CdB Luogo Pio di Livorno

Veglia natalizia 2015. – C.d.b Luogo Pio di Livorno.

BEATI I PURI DI CUORE, BEATI I MITI.

 

Mt.5,5: Beati i miti perché erediteranno la terra.

Mt.5,8: Beati i puri di cuore  perché vedranno Dio.

Mt.11.29-30: Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite ed umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero.

Mt.5,28-42: Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti da uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.

Is.42,1-7:  Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. Proclamerà il diritto con fermezza;  non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra.

 

                                                                  ***

Il modello è Gesù che entra a Gerusalemme su un asino, affinché si adempisse la profezia (Dite alla figlia di Sion: ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina (Mt 21,5), Gesù che non risponde alle accuse e alle falsità (Quando lo offendevano non offendeva; quando lo facevano soffrire non parlava di vendetta, ma aveva fiducia in Dio che giudica con giustizia (1Pt, 2-23), che non reagisce all’arresto e condanna Pietro perché ha tagliato un orecchio al servo del tempio (Mt 26,51-54)

(R.Bodei, Beati i miti)

 

***        

I  puri di ieri

Ne ho conosciuti, dicevo, ne ho conosciute.

Ed erano soprattutto donne e contadini, analfabeti. Con le donne, faccio meno fatica a ricordare, a collocare nel tempo e nell’ambiente. La mia nonna materna e mia madre, ad esempio. Tre zie. Due donne siciliane, Vin­cenzina e Titidda, più belle, più chiare dei lo­ro sposi. Lucia M. Qualche migrante… Anal­fabete o semianalfabete, con qualcosa – sem­pre la Morante! – della Nunziata dell’Isola di Arturo e dell’Antigone della Serata a Colono…

Ingenue e sagge, talvolta perfino incapaci di concepire il male e perciò reagendovi con di­sarmante semplicità, senza astio e con una ca­pacità di resistenza all’offesa pari a quella di resistere alla fatica e al dolore, che non intac­cavano mai la loro disponibilità agli altri, il lo­ro «buon umore» e la loro apertura al presen­te. Quel presente che sembrava essere la sola cosa che conoscessero, così poco attente al passato e così poco attente al futuro, e piutto­sto cicale che formiche, dispensatrici invece che accumulatrici, secondo una generosità in­nata che esse avevano istintivamente mutato in stile e in morale. E dotate di una tolleranza infinita per i limiti delle persone che avevano intorno. Incapaci di «odio sociale» e di maldi­cenza, sempre attente ai lati positivi e belli delle persone, anche se, pochi, e non a quelli negativi, anche se prevalenti.

La mia nonna materna, Assunta, vedova della prima guerra mondiale, con due figlie e una madre e una suocera a carico, cacciate tutte dalla grande famiglia contadina del de­funto perché cinque donne non vi erano eco­nomicamente tollerabili, proteggibili. Nessu­no ricorda che abbia mai parlato male di nes­suno. Per mantenersi, cucinava per i pranzi di trebbiatura, per i matrimoni in giro per le campagne, vestiva i morti e coi morti parlava. Si affliggeva di non riuscire a parlare col non­no, suo marito, scomparso nel ’17 sul Grappa, e si diceva convinta, di conseguenza, che fos­se ancora vivo, che forse si era rifatto una vi­ta altrove. Ma continuava a sperare nel suo ri­torno. Più avanti, la figlia maggiore le impedì di risposarsi, quando se ne presentò l’occasio­ne, per il timore di rompere l’equilibrio della piccola comunità femminile. Tornava a casa nottetempo attraverso boschi e campi, da lon­tani abitati, reggendo sul capo un sacco di grano o una cesta di viveri, che erano il gua­dagnato. «Non avete paura, nonna?» le chiedevamo. «No, perché mi tengono compagnia i morti che ho conosciuto e anche gli altri, mi proteggono i buoni spiriti.» […]

Non mi pare di aver più conosciuto, dagli anni ’70, dei «puri di cuore» di questa fatta, e se sì, essi sono certamente di un tipo molto di­verso da quello del tempo andato. Un vecchio pescatore del Québec, in un film documenta­rio dei primi anni ’60, alla domanda «perché ti ostini in questa fatica?» rispondeva sempli­cemente, dopo una breve esitazione: «Pour la suite du monde», perché il mondo continui. Un militante sindacale milanese, figlio della Brianza contadina, terminò nel ’69 un inter­vento in assemblea tra gli operai dell’Alfa, di­cendo: «Perché dobbiamo lottare? Perché è giusto lottare? Il motivo è semplice e l’abbia­mo tutti ben chiaro: perché tra gli uomini vi sia più giustizia, perché il mondo in cui i no­stri figli devono crescere sia migliore di que­sto». La nostra sola possibilità è di non essere completamente trascinati soffocati maciullati dai modelli mediatici e dalle idee correnti, dalle imposizioni e dai ricatti del mercato e della politica. […] Resta l’augurio che la conoscenza non ci uccida. Che non ottunda la capacità di guardare alla vita con l’occhio dei bambini, con la loro im­mediatezza e spontaneità. Che non estirpi dalla nostra sensibilità la capacità di amare le creature, uomini animali piante, la natura tut­ta che vive e pena con noi. Che non schiacci quel poco che ancora in noi sopravvive del­l’istinto di solidarietà verso gli altri, che, dico­no quelli che ne sanno, è innato nella nostra specie quanto il suo contrario, l’egoismo…

Ci sono puri di cuore rimasti tali nono­stante la conoscenza? Ne conosciamo? Passo in rassegna le persone migliori che ho conosciuto e conosco degli ultimi decenni, e non ne trovo. Non ci resta dunque che preparare il terreno… In conclusione, dunque, se una speranza ci resta, esile e fragile, è quella, per noi che puri non siamo, di «sopravvivere» cercando di muoverci in una direzione con­traria a quella del mondo, a quella in cui ci si vorrebbe trascinare e annullare, e mutando anche noi ma senza che perdiamo la memo­ria e la sostanza del «prima» e del vero.

(Da Goffredo Fofi, Le beatitudini, ed. Lindau, passim.)

 

***

La mitezza è una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé. Il mite attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità. Il mite può essere configurato come l’anticipatore di un mondo migliore. Egli non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata. (…) E’ una donazione e non ha limiti prestabiliti e obbligati. Amo le persone miti, perché sono quelle che rendono più abitabile questa “aiuola”, tanto da farmi pensare che la città ideale non sia quella fantastica e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventa-re insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale.

(N. Bobbio)

 

***

Io ero un uccello

dal bianco ventre gentile,

qualcuno mi ha tagliato la gola

per riderci sopra,

non so.

Io ero un albatro grande

Volteggiavo sui mari.

Qualcuno ha fermato il mio viaggio,

senza nessuna carità dei suono.

Ma anche distesa per terra

Io canto ora per te

Le mie canzoni d’amore.

( Alda Merini. – Fiori di poesia)

 

***

Mitezza e umiltà, parole in esilio. E fossero solo le parole in esilio. In esilio sembrano essere le donne e gli uomini che ancora osano, impenitenti, scommettere su mitezza e umiltà. Quasi fossero degli alieni nella stagione dell’urlo. Osservo e, lo confesso, mi prende tristezza. Eppure mi ritornano, nonostante tutto – quasi messaggio di sfida e di resistenza in tempi di distanza – le parole del monte, ad assicurami che, a dispetto di quanto ci dicono, saranno i miti a ereditare la terra. “Beati i miti… avranno in eredità la terra” (Mt 5,5). E le parole allora rimasero a memoria nel cuore di qualcuno, pur se apparivano parole sconfitte. Rimasero e furono scritte. A memoria. A memoria dei resistenti. Era buona notizia, era notizia buona che il rabbi di Nazareth, lasciasse, quasi penultima sua icona, quell’assurdo ingresso, poi chiamato trionfale, su un asino da soma, ripudiando la frenesia spavalda dei cavalli. Notizia buona che il rabbi di Nazareth lasciasse a insegnamento e cosa da fare, ultima icona, quel suo cingersi i fianchi di grembiule e chinarsi su piedi sporchi di sabbie e di fatiche. Era il suo racconto di Dio, era la sua indicazione su come ereditare la terra. Gli arroganti possono sì conquistare una terra, ma è terra di occupazione. I miti, al contrario, l’hanno in eredità, in benedizione. (Don Angelo Casati)

 

***

L’uomo si risveglia a ciò che il religioso chiama la presenza di Dio attraverso l’azione disinteressata, attraverso l’amore privo di egoismo, guardando l’altro con occhi puri. I puri di cuore vedranno Dio. Il cuore distaccato da ogni ricerca egoica. L’atto puro di amore e di servizio. E’ questo che risveglia a sé. E’ questo che risveglia a Dio. E’ su questa esperienza intima che deve fondarsi ogni vera religione, non su idee venute, trasmesse dal di fuori.

(Henri Le Saux, Diario spirituale, ed. Mondadori)

 

 **********************

E U C A R I S T I A

Dio dai tanti nomi, sei forse un Dio nascosto, assente. In questa assenza viviamo la tua presenza, viviamo in te come tutto ciò che esiste, nel tuo amore che ci contiene.

In questo buio che ci circonda e ci spaventa, che ci rende incerti, chiusi, diffidenti e sospettosi, privi di speranza, vogliamo ancora rivolgerci a te con un salmo di abbandono fiducioso:

Signore, il mio cuore non ha pretese,

non è superbo il mio sguardo,

non desidero cose grandi

superiori alle mie forze:

io resto tranquillo e sereno.

Come un bimbo in braccio a sua madre

è quieto il mio cuore dentro di me. (Salmo 131)

Forse i puri ci cuore, i miti, sono così, privi di ideologie, vuoti di sé e perciò capaci di attenzione, di prossimità in modo semplice e vero, senza la pretesa di dimostrare qualcosa, senza arroganza e sensi di superiorità. Non chiusi in sé, capaci di gesti spontanei: condividere quello che hanno senza trattenere e accumulare, vedere e riconoscere la vita che scorre in noi e fuori di noi, averne cura, proteggerla.

Il natale di Gesù non può ridursi a un fatto emotivo, a una festa fatta soprattutto di regali a parenti ed amici, ma contiene in sé una domanda:  ci coinvolge ancora  il ricordo della nascita di Gesù? Potrebbero essere i miti e puri di cuore ad  indicarci la strada?

Spezziamo il pane come gesto semplice di incontro e di condivisione, cercando in noi la purezza di cuore con cui Gesù ha vissuto.