Occasioni perdute per un mondo più giusto di M.Magnano

Marco Magnano
www.riforma.it

Con una contemporaneità ormai affermata da alcuni anni, nella giornata di martedì è stato pubblicato l’ultimo rapporto di Oxfam, dedicato alle disuguaglianze e del quale è possibile leggere un’analisi su Riforma.it, mentre a Davos, nel cuore del cantone Grigioni in Svizzera, si è aperta l’edizione 2016 del World Economic Forum, l’incontro di 2.500 tra le più importanti personalità del mondo della politica, della finanza e dell’imprenditoria.

Apparentemente non potrebbero esserci interessi e temi più lontani tra le due realtà, eppure al centro di entrambe le iniziative quest’anno si trova proprio il tema degli squilibri tra ricchi e poveri in un mondo che sta cercando di riemergere dalla crisi del 2008. A sorprendere, per quanto riguarda Davos, tradizionalmente un raduno di impostazione liberista o neoliberista e per questo spesso contestato dai movimenti che, in passato come oggi, chiedono maggiore giustizia sociale, è una delle conclusioni raggiunte già nelle prime 24 ore di Forum: «la crescita è illusoria, – racconta l’editorialista del Wall Street Journal Thorold Baker introducendo uno degli incontri – e il motivo per cui la domanda non si attiva è strutturale, e va cercata nella disuguaglianza».

Tuttavia, l’impressione è che questa presa di coscienza, ammesso che sia condivisa e sia tradotta in azione, arrivi tardi, ormai otto anni dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime che ha innescato la crisi e messo in ginocchio l’intero sistema economico mondiale. Secondo Andrea Baranes, presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica, «si è usciti dalla crisi con i ricchi che diventano sempre più ricchi e i poveri che diventano sempre più poveri».

Nella bufera del 2008 si era accesa una piccola speranza che la crisi potesse essere un’occasione per riequilibrare il sistema economico mondiale. Possiamo parlare di un’occasione perduta o non è mai troppo tardi?

«Direi che è un’occasione perduta per la mancanza di una regolamentazione del casinò finanziario. Dopo la crisi, infatti, tutte le istituzioni internazionali hanno promesso e giurato che non ci sarebbe mai più stata una situazione del genere. Di fatto, però, a otto anni di distanza la regolamentazione finanziaria nel migliore dei casi va avanti col freno a mano tirato. Anzi, bisogna dire che in alcuni casi va ancora peggio, perché è tornata in auge l’idea che i mercati finanziari debbano avere mano libera e non debbano essere regolamentati in modo troppo stringente. Sembra quasi che la finanza privata sia la soluzione e che le diseguaglianze alla fine siano addirittura un bene, costituiscano un motore dell’economia. Ecco, mi sembra non si sia imparato nulla dalla crisi e che si sia ripartiti ancora più veloci e “arrabbiati” di prima».

Oltre all’occasione perduta di ripensare ai meccanismi del sistema abbiamo anche perduto la possibilità di introdurre il tema dell’etica nel sistema economico?

«Sì, si è persa un’occasione storica per ripensare non soltanto alle regole, ma anche allo scopo, a quello che dovrebbero fare l’economia e la finanza viste come strumento a servizio dell’insieme della società e delle persone. Nonostante la crisi del 2008, l’idea che la finanza significhi far soldi dai soldi nel più breve tempo possibile e che sia fine a se stessa non è mai venuta meno. Abbiamo del tutto perso di vista l’obiettivo sociale dell’economia e della finanza, che oggi anziché essere uno strumento sociale sono uno strumento a un livello superiore: in campo economico e finanziario si prendono decisioni che poi ne producono in campo politico e sociale. Ecco, per dare un senso etico all’economia dovrebbe essere l’opposto».

Nonostante le critiche all’idea di crescita emerse nel World Economic Forum, secono lei il paradigma pre-2008, centrato sul mercato e su mercati, è ancora in vigore?

«Certo. Non c’è stato nessun ripensamento, anzi, forse non c’è stata nessuna riflessione. In particolare, in Europa è passato nell’immaginario che il problema sia la finanza pubblica e che la soluzione sia invece la finanza privata. Con questo approccio allora non si può parlare di un diverso sistema fiscale per una redistribuzione delle ricchezze, né di spese per il welfare e lo stato sociale, perché è il “magico” motore della finanza privata la mano invisibile del mercato che deve rilanciare la crescita, e quindi qualunque intervento dello stato è visto come un errore, una cosa da contrastare, in questo modo le diseguaglianze non fanno che aumentare e il rapporto di Oxfam conferma questo andamento».

In un sistema finito la crescita non può essere infinita. È un’ovvietà, ma spostato sul campo delle concentrazioni di potere significa che a un certo punto si fermeranno fisiologicamente?

«Più che altro il sistema danneggia se stesso. Le disuguaglianze di cui parla il rapporto di Oxfan sono un disastro dal punto di vista economico. Trascuriamo per un attimo i limiti ambientali del pianeta e le ingiustizie sociali, e rimane comunque un disastro. Addirittura, un rapporto del 2014 dell’Ocse, l’organizzazione che riunisce le maggiori potenze economiche del mondo, spiega che l’eccesso di disuguaglianze danneggia la crescita, e che negli ultimi 20 anni abbiamo perso quasi 10 punti di PIL perché sempre meno persone sono sempre più ricche. Per intenderci, i ricchi possono anche comprarsi una Ferrari al giorno, ma non possono sostenere la domanda aggregata e i consumi. Abbiamo un sistema economico in cui bisogna produrre sempre di più, ma dall’altro lato gran parte delle famiglie e dei lavoratori non hanno più i soldi per potersele comprare. È chiaro che abbiamo un problema».

Su questo sistema di consumi anche il debito finisce per allargare la forbice?

«Dipende. Il debito pubblico dovrebbe essere uno degli strumenti di politica economica adatti a redistribuire il reddito. Se lo Stato vuole costruire degli ospedali o delle strade si indebita, emette titoli di stato e in questo modo realizza degli investimenti. Il problema però è che oggi il debito è uno strumento di redistribuzione della ricchezza al contrario, serve ad alimentare le disuguaglianze. Abbiamo un debito pubblico che paghiamo tutti, ma che è concentrato, e chi detiene i titoli di stato sono sempre meno persone sempre più ricche. Anche quello che dovrebbe essere uno strumento al servizio dell’insieme della società, della comunità, si trasforma poi in un sistema che alimenta le disuguaglianze economiche».

Questo discorso vale anche per il debito privato?

«L’indebitamento delle famiglie e dei lavoratori finisce per drogare la crescita. I lavoratori, le famiglie, le persone e le stesse imprese produttive sono sempre più povere. Per sostenere la crescita del Pil in un contesto di persone e famiglie sempre più povere l’unica strada è il debito privato.

Questo è il sistema subprime: affidare dei mutui anche ai più poveri, anche a chi non ha garanzie, perché l’economia occidentale si regge sulle case e sulle automobili, e se noi riusciamo a indebitare anche chi non ha soldi perché si è impoverito per comprarsi la casa o l’automobile e via discorrendo, allora facciamo girare l’economia. In realtà stiamo “drogando” la crescita: si può andare avanti qualche anno così, ma procediamo verso una nuova bolla».

Per pensare a una via d’uscita c’è un esempio virtuoso?

«Purtroppo è difficile vedere esempi virtuosi in questo momento. In linea teorica sappiamo cosa andrebbe fatto, anche guardando a esempi storici di come si è usciti da crisi precedenti, ma è difficile pensare di rilanciare sempre i consumi, anche se redistribuiamo la ricchezza. Quello che servirebbe sarebbe spostare l’economia dai consumi agli investimenti, e qui ci sarebbe molto da fare, sia per creare posti di lavoro sia per migliorare le nostre vite: investimenti per la riconversione, ecologica, per l’efficienza energetica, per la mobilità sostenibile, per il welfare, ma sono investimenti di lungo periodo in un momento in cui la finanza privata ragiona in millesimi di secondo e non è interessata a una visione di medio periodo. In parallelo, la finanza pubblica non ha i mezzi, perché l’unica strategia attuata finora è stata strangolarla tramite l’austerità. È difficile cambiare questa impostazione, che però è più una visione ideologica che non un problema economico. Anche qui abbiamo perso un’occasione».