Religione cattolica nelle scuole: frequenza ancora in calo di V.Gigante

Valerio Gigante
Adista Notizie n° 4 del 30/01/2016

La notizia conferma un trend che era in atto da diversi anni, ed evidenzia come l’“effetto Francesco” sulla Chiesa e la società italiana sia più una costruzione mediatica che una dinamica reale: l’Insegnamento della religione cattolica nelle scuole è una opzione sempre meno scelta.

I dati per l’anno scolastico 2014-2015, diffusi dal sito tuttoscuola.com, frutto di statistiche elaborate direttamente dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, affermano che a frequentare l’Irc nelle scuole italiane sono complessivamente poco meno di 7 milioni (esattamente 6.927.849), pari all’87,9% della popolazione studentesca, con un calo netto del 5,5% negli ultimi 15 anni e una flessione di 0,3 punti percentuali rispetto all’anno scolastico 2013/2014, quando i frequentanti erano l’88,2%, pari a circa 22mila alunni in più. Numeri che raccontano un Paese (ed una scuola) che continua il proprio lento, ma costante, percorso di secolarizzazione.

Divario Nord-Sud

Ancora una volta le statistiche indicano che il nostro Paese è contrassegnato dal divario Nord-Sud. Il Mezzogiorno fa infatti registrare complessivamente le più alte percentuali di alunni che si avvalgono dell’Insegnamento della religione cattolica (in testa il Molise con il 96,7%, poi la Campania con il 96,6% e la Puglia e la Basilicata con il 96,4%), mentre tutte le altre regioni, con l’eccezione delle Marche e dell’Umbria, hanno fatto registrare nel 2014/15 percentuali sotto la media nazionale.

Sotto la media nazionale (87,9% di alunni avvalentisi) si trova però anche, e a sorpresa, il Veneto “bianco” (84,8%); più laica di tutte è invece la Toscana (il 78,8% degli studenti si avvale), seguita dall’Emilia-Romagna (79%). Ad avere in termini assoluti il numero maggiore di studenti che non frequenta l’Irc è la Lombardia con 220.337 non avvalentisi su un totale di 1.182.049, seguita dall’Emilia-Romagna (113.168 su 539.887).

Grado di adesione

L’adesione scende man mano che sale il grado di istruzione. Si passa dal 91,3% di studenti che si avvalgono nella scuola dell’infanzia e al 92,3% della primaria, all’89,9% della secondaria di I grado, fino all’80% della secondaria di II grado, dove a scegliere sono gli studenti (negli altri gradi di istruzione sono i genitori).

Se si guarda alla sola scuola secondaria di secondo grado (dove il numero degli avvalentisi è in lieve aumento rispetto al 2013/2014, forse anche perché l’ora di religione contribuisce ormai all’attribuzione del credito scolastico), è la Lombardia con oltre 109mila studenti che non si avvalgono dell’Irc a registrare il più alto tasso di disaffezione verso la religione, seguita da Lazio (58.503), Toscana (57mila), Piemonte (poco meno di 57mila) ed Emilia Romagna (meno di 55mila).

Negli istituti superiori del Sud e delle Isole il numero degli studenti della secondaria di II grado che non si avvalgono della Irc supera di poco le 74mila unità, cioè soltanto due terzi di quelli della Lombardia.

Cultura o dottrina?

Nicola Incampo, consulente della Conferenza episcopale italiana per l’Irc, ha spiegato al portale tuttoscuola.com che se l’ora di religione «è adeguatamente presentata e valorizzata nel Piano dell’offerta formativa, gli avvalentisi aumentano. L’importante – ha aggiunto – è far capire alle famiglie che non si tratta di un’ora di catechismo, che è un’altra cosa e, è bene ricordarlo, non si fa a scuola».

L’Irc è «cultura, non è catechismo che si fa in parrocchia», ha fatto eco il 10 gennaio scorso (in occasione della Giornata di sensibilizzazione sull’ora di religione) il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, il quale ha ricordato ai genitori che il meglio per i figli «coincide innanzitutto con la formazione della mente e del cuore ai grandi valori della vita, a ciò che conta veramente, smascherando miti e ingannevoli apparenze». In questo senso, ha aggiunto il presidente della Cei nel suo discorso, la scuola, «si affianca al compito educativo che la famiglia ha per sua naturale vocazione» e l’ora di religione cattolica «è l’esposizione della storia e della dottrina cristiana; è l’affronto dei grandi temi dell’uomo e della vita». Pertanto, l’insegnamento della religione, «introduce non solo agli universali interrogativi dell’esistenza, ma anche offre a tutti, cristiani e non cristiani, la possibilità di comprendere la società e la cultura del nostro Paese e dell’Europa».

Le parole di Incampo e Bagnasco evitano però di prendere in considerazione alcuni aspetti della normativa sull’Irc che contraddicono, nei fatti, ciò che viene affermato in linea di principio. Anzitutto il fatto che nel Protocollo addizionale alla legge che modifica i Patti Lateranensi (la n. 121 del 25 marzo 1985) si afferma con chiarezza che la religione cattolica nelle scuole viene impartita «in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni».

L’accento sulla valenza “culturale” dell’Irc, fortemente sottolineato negli ultimi anni (specie nell’aggiornamento dell’Intesa Cei-governo siglata durante il governo “tecnico” di Mario Monti, nel 2012) non fa che tentare di occultare il carattere intrinsecamente confessionale della disciplina. Acuita dalla modalità stessa del reclutamento dei docenti di Irc. È il vescovo, e solo lui, a concedere al docente il nulla osta che consente l’insegnamento di tale disciplina. Lo Stato si limita a ratificare un rapporto di lavoro rispetto al quale non ha alcun potere discrezionale.

Il vescovo, inoltre, può in ogni momento revocare al docente il nulla osta concesso, impedendo che egli prosegua nell’insegnamento della religione cattolica. Anche in anni recenti si sono verificati casi di docenti sollevati dal loro incarico perché non in linea, per la loro condotta personale o per le idee che esprimevano, con gli insegnamenti del magistero cattolico.

Insomma, la spada di Damocle dell’autorità ecclesiastica mina alla radice, ed in maniera irriducibile ed irrisolvibile, l’autonomia e in ultima analisi la stessa libertà di insegnamento dei docenti di religione cattolica.
Il risultato di questa contraddizione emerge dai dati sulla frequenza dell’Irc; e questo nonostante le scuole non abbiano ancora in maniera adeguata previsto reali alternative da proporre a studenti e famiglie alla frequenza di questa disciplina, che è opzionale ma resta comunque inserita nell’orario curricolare delle scuole di ogni ordine e grado (una o due ore settimanali).

———————————————-

Abbiamo bisogno di una scuola che protegga trans e omosessuali

Paul B. Preciado
www.internazionale.it

Alan è morto a Barcellona il giorno dopo Natale. Era un ragazzo trans di 17 anni. Era stato uno dei primi minorenni a ottenere un cambio di nome su un documento d’identità in Spagna. Ma quel certificato nulla ha potuto contro il pregiudizio. La legalità del nome non ha potuto opporsi alla forza di quanti si sono rifiutati di usarlo. La legge nulla ha potuto contro la norma. Le scene di molestia e intimidazione che ha subìto per tre anni a scuola hanno piegato la sua fiducia nel poter vivere, spingendolo al suicidio.

Si potrebbe dire che la morte di Alan sia stata un incidente drammatico ed eccezionale. Ma non c’è niente d’accidentale: oltre la metà degli adolescenti trans e omosessuali dichiara di essere stata oggetto di aggressioni fisiche e psicologiche negli istituti scolastici. E non c’è niente di straordinario: è proprio tra gli adolescenti trans e omosessuali che si registra il più alto tasso di suicidi.

Com’è stato possibile che la scuola sia stata incapace di proteggere Alan dalla violenza? La risposta è semplice: la scuola è il primo luogo in cui si apprende la violenza di genere. Non solo il liceo di Alan non l’ha protetto, ma ha creato le condizioni del suo assassinio sociale.

La scuola è un campo di battaglia dove i bambini arrivano armati solo dei loro fragili corpi e del loro futuro da scrivere, un teatro di guerra dove si affrontano il passato e la speranza.

La scuola è una fabbrica di piccoli macho e di checche, di carine e di grasse, di furbi e di scemi. La scuola è il primo fronte di questa guerra civile: il luogo dove s’impara a dire che noi maschi non siamo come loro, le femmine. Il luogo dove vincitori e vinti sono marchiati con un segno che finisce per diventare il loro volto.

La scuola è un ring dove il sangue si confonde con l’inchiostro e dove chi è capace di versarli è premiato. L’unica lingua che si parla è quella della violenza sorda e segreta della norma. Alcuni di loro, come Alan, senza dubbio i migliori, non sopravviveranno. Non potranno partecipare a questa guerra.

La scuola non è solo un luogo d’apprendimento di contenuti. È una fabbrica di soggettivizzazione: un’istituzione disciplinare il cui obiettivo è la normalizzazione del genere e della sessualità.

In essa ogni allievo deve esprimere un solo genere, definitivo: quello che gli viene attribuito alla nascita. Quello che corrisponde alla sua anatomia. Il liceo incoraggia e valorizza la teatralizzazione convenzionale dei codici della sovranità maschile e della sottomissione femminile, e allo stesso tempo sorveglia il corpo e i suoi movimenti, punendo e patologizzando ogni forma di dissidenza.

I compagni di Alan esigevano che sollevasse il maglione per far vedere che non aveva seno. Lo insultavano, lo chiamavano lesbica schifosa, si rifiutavano di chiamarlo Alan. Non si è trattato d’incidente, ma di pianificazione concordata e finalizzata a punire un dissidente. Le istituzioni hanno fatto il loro dovere: marchiare a fuoco chi mette in discussione l’epistemologia del genere.

La scuola moderna, come struttura d’autorità e di riproduzione gerarchica del sapere, è ancora il prodotto di una definizione patriarcale della sovranità maschile. In fin dei conti è da poco che le donne, le minoranze sessuali, le persone non bianche o diversamente abili vi hanno accesso: cento anni per le donne, cinquanta o addirittura venti per la segregazione razziale, e appena una decina per i diversamente abili.

Al compito principale di fabbricare la virilità nazionale si aggiungono quelli di modellare la sessualità femminile, marcare la differenza razziale, di classe, religiosa, funzionale o sociale.

Parallelamente all’epistemologia della differenza di genere (che ha oggi nelle nostre istituzioni il posto che aveva il dogma della natura divina di Cristo nel medioevo), la scuola funziona secondo un’antropologia essenzialista. L’idiota è un idiota, la checca è una checca. La scuola è uno spazio di controllo e dominazione, di esame minuzioso, diagnosi e sanzione. Presuppone un soggetto unico e monolitico, che deve imparare ma che non può e non deve cambiare.

Allo stesso tempo, la scuola è la più brutale e passiva scuola di eterosessualità. Apparentemente asessuali, le scuole medie superiori valorizzano e fomentano il desiderio eterosessuale e la teatralizzazione corporale e linguistica dei codici dell’eterosessualità normativa.

Ecco alcuni possibili nomi delle materie insegnate negli stabilimenti scolastici: “principi di maschilismo”, “introduzione allo stupro”, “laboratorio pratico d’omofobia e transfobia”. Un recente studio condotto in Francia ha mostrato che gli insulti più utilizzati dagli allievi, perché considerati più offensivi, sono pédé (finocchio) per i ragazzi e salope (puttana) per le ragazze.

Per farla finita con questa scuola assassina è necessario stabilire dei nuovi protocolli di prevenzione dell’esclusione e della violenza di genere in tutti gli stabilimenti scolastici. Non penso al sogno umanista di una scuola inclusiva (e al suo motto “tolleriamo la differenza e tolleriamo il malato affinché si adatti”).

Al contrario occorre degerarchizzare e denormalizzare la scuola, introdurre eterogeneità e creatività nei suoi processi istituzionali. Il problema non è la transessualità, ma la relazione costitutiva tra pedagogia, violenza e normalità. Non era Alan a essere malato. È l’istituzione, è il liceo a essere malato e a dover essere curato, sottoponendosi a un processo che potremmo chiamare, riprendendo Francesc Tosquelles e Felix Guattari, “di terapia istituzionale”.

Per salvare Alan ci sarebbe voluta una pedagogia queer in grado di confrontarsi con l’incertezza e con l’eterogeneità, di concepire la soggettività sessuale e quella di genere come processi aperti e non come identità chiuse.

Di fronte a una scuola assassina è necessario creare una rete d’istituti in fuga, una trama di scuole trans-femministe-queer che accolgano i minori vittime d’esclusione e di molestie nelle loro scuole, ma anche tutti i bambini che preferiscono la sperimentazione alla norma.

Questi spazi non sarebbero sufficienti, ma diventerebbero dei rifugi dove i bambini e gli adolescenti sarebbero protetti dalla violenza istituzionale. A New York, per esempio, nel 2002 è stato aperto il liceo Harvey Milk (in omaggio all’attivista gay assassinato nel 1978 a San Francisco), che accoglie 110 studenti queer e trans che sono stati vittime di molestie e d’esclusione nelle scuole che frequentavano in precedenza.

Voglio immagine un’istituzione educativa più attenta alla singolarità dell’allievo che alla preservazione della norma. Una scuola microrivoluzionaria dove sia possibile favorire una moltitudine di processi di soggettivizzazione individuale. Voglio immaginare una scuola nella quale Alan sarebbe potuto rimanere vivo.

(Traduzione di Federico Ferrone)