Scelte, parole e silenzi del papa in Messico di L.Sandri

Luigi Sandri

Il viaggio del papa in Messico (12-17 febbraio) è stato preceduto, accompagnato e seguito da forti tensioni tra Francesco e una parte dell’episcopato del paese: tensioni che, salvo rare eccezioni, sono sfuggite ai grandi media e anche alla stampa specializzata in problematiche religiose.

 Il primo motivo di tensione, durante la programmazione del viaggio, è stata la decisione del papa di includere San Cristóbal de Las Casas, la storica città, di origine coloniale, del Chiapas, lo Stato del Messico a maggior concentrazione india e cuore della rivolta zapatista. Molti vescovi non desideravano questa tappa, perché inevitabilmente riportava alla memoria don Samuel Ruiz che, titolare di quella diocesi dal 1960 al 2000, aveva dedicato la sua vita non solo al riscatto sociale degli autoctoni ma, anche, all’elaborazione di una Chiesa e teologia india. Per questi motivi, già in vita era divenuto “insopportabile” a gran parte dei confratelli vescovi; e, essendo egli morto solo nel 2011, tali prelati non volevano che, andando a San Cristóbal, il pontefice richiamasse alla memoria un nome, secondo loro, da dimenticare. Forse è stata questa permanente ostilità episcopale (oltre che governativa) che ha portato il papa ad una scelta incredibile: non nominare assolutamente don Samuel nell’omelia della messa, il 15 febbraio celebrata di fronte a migliaia di autoctoni. Francesco ha fatto, nell’occasione, gesti importanti rispetto ad essi: ha stabilito che d’ora in poi le loro lingue possano essere usate nella liturgia; ha benedetto le prime Bibbie nelle loro lingue; visitando la cattedrale, si è soffermato a pregare in silenzio sulla tomba di don Samuel; ha chiesto perdono per le ingiustizie commesse contro gli indios. Ma il nome del vescovo difensore degli indigeni non lo ha fatto. E, ancora più sorprendente, il papa non ha ricordato nemmeno Bartolomé de Las Casas, il difensore degli indios nel Cinquecento, e primo vescovo di quella città che ancora porta il suo nome. Silenzi che pesano.

Tornando alla conferenza episcopale, la prova evidente di alcuni suoi atteggiamenti spiacenti a Francesco è stato che, parlando ad essa, egli ha detto che la Chiesa non ha bisogno di vescovi “prìncipi”. Una sferzata, alla quale sul momento non vi è stata replica. Essa è venuta alcuni giorni dopo, su Desde la Fe, rivista dell’arcidiocesi di Città del Messico, alla quale nel 1995 Giovanni Paolo II pose a capo monsignor Norberto Rivera Carrera, che nel ’98 lui creerà cardinale. Il periodico, ovviamente ispirato dal porporato (e la smentita, in merito, del direttore del periodico, conferma il sospetto), fa una difesa ad oltranza dei meriti dei vescovi messicani lungo la storia; poi, ponendo sullo sfondo il rimprovero (peraltro gentile) ai vescovi “prìncipi” e altre – indirette – frecciatine, alcune delle quali dal pontefice aggiunte a braccio al discorso scritto, commenta: “L’episcopato messicano è unito e ben disposto ad affrontare i compiti che Sua Santità gli ha messo dinanzi. Purtroppo esiste la mano della discordia che ha voluto sottolineare gli aspetti negativi, avendo una visione parziale della Chiesa e cercando di influire sul discorso del pontefice per conseguire un effetto critico nel pubblico, sottolineando sfide e tentazioni come mali dell’episcopato. Non è così. E qui si impone la domanda: perché tentare di sminuire il lavoro dei vescovi messicani? Per fortuna il popolo conosce i suoi pastori, e li accompagna nella costruzione del regno di Dio, quale che sia il prezzo, come è avvenuto lungo la storia di questo paese. O non sarà che le parole improvvisate del papa rispondevano ad un cattivo consiglio di qualcuno vicino a lui? Chi ha consigliato male il papa?”.

Considerando gli ultimi cinquant’anni, è davvero arduo trovare un cardinale che, a commento del viaggio di un pontefice nel suo paese, abbia osato criticarlo in tal modo (come minimo ritenendolo imprudente e fazioso per aver ascoltato ingenuamente “cattivi consigli”). Ma perché Rivera si è spinto a tal punto? Secondo alcuni media messicani, il porporato si era assai irritato per il tentativo di estrometterlo, di fatto, dall’organizzazione del viaggio papale (nel quale avrebbero pesato ben di più i cardinali Francisco Robles Ortega di Guadalajara, e Alberto Suarez Inda di Morelia). Fra i tre, poi, ci sarebbero inconciliabili disparità di vedute su chi scegliere, prossimamente, come nuovo presidente della conferenza episcopale. D’altra parte, Rivera è del 1942; dunque l’anno prossimo compie 75 anni, e sono già in atto pressioni per la scelta del successore alla guida della diocesi di Città del Messico, la più importante – politicamente ed ecclesialmente – del paese.

Che deciderà, il papa, tra spinte e controspinte? Senza dire che, quanti desiderano una Chiesa più libera dal potere politico, rimproverano all’attuale titolare della diocesi della capitale una troppo stretta, e imbarazzante, alleanza con il presidente messicano, Enrique Peña Nieto. Infine, i critici di Rivera lo accusano di aver difeso a spada tratta, a suo tempo, il padre Marcial Maciel Degollado, il fondatore dei Legionari di Cristo poi accusato di atti di pedofilia infine assolutamente comprovati.

Tutti questi problemi, visti al di qua dell’Atlantico, potrebbero sembrarci lontani e comunque irrilevanti; ma, a parte che fanno intravvedere realtà invisibili se considerate solo con lo spettro del trionfale benvenuto riservato dai messicani al papa, di cui le tv ci hanno documentato, converrebbe non dimenticare il peso geopolitico ed ecclesiale del Messico ove, su centoventi milioni di abitanti, cento sono cattolici. Esso, dunque, dopo il Brasile è – per numero – il secondo paese cattolico del mondo.