Intervista con padre Carlos Schickendantz a cura di M.Castagnaro

Papa Francesco – Riforma della Chiesa: anche nelle strutture

Regno, 15 febbraio 2016

Sacerdote della diocesi argentina di Cordoba, dopo aver insegnato Etica sociale e Teologia alla locale Università cattolica, di cui è stato anche vicerettore, p. Carlos Schickendantz dal 2011 lavora come ricercatore all’Università «Alberto Hurtado» dei gesuiti di Santiago del Cile, dove dirige la collana di libri «Teología de los Tiempos» del Centro teologico «Manuel Larraín». Tra le sue pubblicazioni spicca il volume Cambio estructural de la Iglesia como tarea y oportunidad, pubblicato nel 2005. Con altri 30 ecclesiologi, storici, ecumenisti, canonisti ed esperti di pastorale provenienti da 13 paesi ha partecipato a Roma dal 28 settembre al 2 ottobre 2015 al seminario di studio a porte chiuse su «La riforma e le riforme nella Chiesa», organizzato dalla rivista dei gesuiti La Civiltà cattolica

  • Padre Schickendantz, che cosa significa oggi affrontare una riforma della Chiesa?

«Prima di tutto si tratta di riconoscere che la credibilità della Chiesa dipende da come essa è strutturata e non solo da come si comportano i singoli cristiani. La Chiesa deve essere un segno esemplare anche nel modo in cui si organizza, attua le proprie procedure e tratta le persone. Ciò oggi esige un processo di riforma che renda la Chiesa un’istituzione adeguata agli standard del nostro tempo.
La novità dell’ultimo triennio, dopo l’elezione di papa Francesco, consiste nel fatto che il tema della riforma è finalmente ai vertici dell’agenda ecclesiale. Una riforma è sempre un ritorno al Vangelo, che si traduce in uno stile di vita testimoniale per gli altri. Francesco la incarna con la sua austerità, semplicità, vicinanza, misericordia. Però, come diceva Yves Congar, per essere davvero tale una riforma deve trasformare la struttura anche sul piano giuridico. La riforma spirituale deve coniugarsi con quella organizzativa».

  •  Quali sono le riforme più urgenti ma anche le più attuabili?

«Data la struttura piramidale che ha oggi la Chiesa cattolica, è assolutamente necessario riformare l’esercizio e la concezione del ministero petrino. E può farlo solo il papa, anche tenendo conto dell’aspetto ecumenico. Ciò implica una rivalutazione dei vescovi, con la loro autonomia e le loro conferenze episcopali, e un coinvolgimento del laicato nei processi decisionali. La Curia romana va quindi non solo riorganizzata a livello amministrativo, come sta facendo il Consiglio dei 9 cardinali, ma anche ripensata sul piano teologico, affinché non risponda solo al papa, ma anche all’episcopato mondiale – anch’esso soggetto di governo della Chiesa – magari attraverso un organismo rappresentativo dei vescovi.
In un mondo globalizzato, in cui sono sempre più rilevanti i contesti culturali, bisogna creare i presupposti affinché ogni regione ecclesiale faccia la propria strada senza intaccare l’unità fondamentale».

Collegialità e decentramento

  • La via per coniugare unità e decentramento nella Chiesa è quella di istituire una sorta di senato formato da rappresentanti dei vescovi delle diverse regioni del mondo che affianchi il papa?

«Non ci sono ricette o soluzioni facili. La proposta di un organismo rappresentativo dell’episcopato mondiale, composto da una quindicina di vescovi, suona in linea di principio molto bene, perché allarga la collegialità, favorisce la consultazione, coinvolge persone che vivono nei diversi continenti; però rafforza anche l’idea di un centro di governo mondiale.
A mio avviso la Chiesa deve essere quello che è: il vescovo di Roma deve tornare a occuparsi prima di tutto della sua diocesi, poi, naturalmente, questo ruolo comprende un servizio di unità alle Chiese; ma l’idea di un centro di governo mondiale non appartiene alla teologia cattolica del I millennio, è un’invenzione storico-culturale del II, per di più inammissibile per le altre Chiese, per cui senza futuro sul piano ecumenico.
Roma non può pensarsi come primo livello di governo, ma come ultimo. Per esempio, oggi è la Curia romana a dare ai professori delle facoltà di teologia l’autorizzazione a insegnare. Invece tutto dovrebbe risolversi prima a livello diocesano, poi con la Chiesa della regione e Roma dovrebbe essere la terza istanza.
L’idea che il papa nomini i vescovi di tutto il mondo va abbandonata, per quanto possibile. Egli dev’essere inserito con un ruolo fondamentale in un processo che però include diversi gradi di discernimento. Si tratta, come sottolinea p. Hervé Legrand, di far maturare concezioni ecclesiologiche e non semplicemente mutuare le idee sociopolitiche del momento (cf. anche Regno-att. 12,2014,419)».

  • Nella Evangelii gaudium (n. 32) s’afferma che bisogna riconoscere alle conferenze episcopali «una qualche autentica autorità dottrinale». In che modo?

«L’esortazione mostra una sensibilità differente da quella prevalente nell’ultimo quarto di secolo. Solo dicendo che abbiamo fatto poco sul terreno del decentramento, che comprende anche il tema dell’autorità dottrinale delle conferenze episcopali, il papa ha riaperto una questione che era chiusa, così come sulla questione della possibile riammissione dei divorziati risposati all’eucaristia: il papa è disposto a compiere passi avanti.
Il decentramento si collega ai processi d’inculturazione, cioè al discernimento attuato da chi vive le situazioni concrete e locali. Inoltre Francesco ha esplicitamente parlato della necessità di “istanze intermedie”, un’espressione tecnica che era stata bandita perché nella dottrina prevalente finora c’erano solo il papa e il singolo vescovo, senza nulla di veramente rilevante in mezzo».

  • In quali ambiti l’autorità dottrinale delle conferenze episcopali potrebbe esercitarsi?

«Nei più diversi. Ad esempio il tema lasciato aperto dal Sinodo sulla famiglia dell’accompagnamento dei divorziati risposati: si possono sviluppare discipline differenti nelle diverse regioni. Lo stesso potrebbe valere sui ministeri: se, per esempio, la Chiesa tedesca arrivasse, dopo un processo di discernimento, a ritenere di poter ordinare donne al diaconato, glielo si dovrebbe permettere, senza però che altre Chiese locali siano costrette a fare lo stesso. La fedeltà alla tradizione non implica minimizzare la capacità creativa della Chiesa».

  • Però la Comunione anglicana, che ha scelto questa strada, vive tensioni molto forti…

«Ecco perché è essenziale il servizio del vescovo di Roma, che in ultima istanza deve disporre di capacità esecutiva. Anche vedendo la situazione delle altre Chiese, la riforma della Chiesa cattolica non deve implicare a rinunciare alla figura del vescovo di Roma, che costituisce una ricchezza.
Inoltre quando si dà maggior rilievo alle conferenze episcopali, potrebbe sorgere il pericolo del nazionalismo o il rischio che quelle piccole siano dipendenti dai governi. L’esperienza anglicana deve insegnarci che non ci sono soluzioni facili. Ovviamente, poi, non si risolve il problema della fede nel mondo contemporaneo ordinando le donne o sopprimendo l’obbligo del celibato per i sacerdoti.
È una questione da affrontare. Infatti, la Chiesa evangelica tedesca ha gli stessi problemi di quella cattolica: chiese vuote, vissuto di fede inadeguato al tempo ecc. L’importante è che il papato, come è avvenuto con Giovanni XXIII nella I sessione del concilio Vaticano II e ora con Francesco nei Sinodi sulla famiglia, diventi garante di un dialogo nella libertà, per cui sia possibile un discernimento comunitario senza soluzioni predeterminate».

Laici, e soprattutto donne

  • Non pensa che all’interno del ruolo del laicato vi sia una «questione donna»?

«Decisamente sì. Saltava agli occhi nei recenti Sinodi il paradosso che a discutere di famiglia fosse un gruppo di soli maschi, celibi e per lo più anziani. Questa situazione da un lato al mondo risulta ormai incomprensibile e dall’altro, entro lo stile della sinodalità, spinge a valorizzare il sensum fidei dei credenti, la partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa e ai suoi processi decisionali.
In specifico la “questione donna” secondo alcuni costituisce il primo problema da affrontare per la Chiesa se vuole risultare credibile e coerente con i valori evangelici che annuncia. Credo che, senza negare la possibilità di ulteriori aperture, già l’attuale magistero offra molte opportunità non utilizzate. Lo stesso Sinodo dei vescovi potrebbe avere una struttura più flessibile, che incorpori le donne – e in generale i laici – nei processi decisionali, specie sui temi che li riguardano.
Alcuni suggeriscono d’introdurre l’ordinazione diaconale delle donne, una possibilità che la Commissione teologica internazionale ha lasciato aperta. Anche questo avrebbe però controindicazioni, perché farebbe entrare le donne nell’attuale ministero, che invece andrebbe riformato, come sta mostrando Francesco. La soluzione non sta nell’immettere donne in una struttura clericale, perché anche quest’ultima va cambiata. È urgente fare qualcosa, perché la Chiesa ha una cultura fortemente maschilista; e d’altro canto occorre accogliere le proposte delle donne stesse».

  • Quindi – come si lascia adombrare nel n. 104 della Evangelii gaudium – si potrebbero avere ruoli di governo senza essere ordinati?

«C’è indubbiamente un punto teorico da chiarire, ma già ora si potrebbero introdurre molte novità perché il problema non sta nel fatto che alla fine sia una sola persona (il papa o un vescovo) a decidere – anche nella democrazia, per esempio, è il presidente della Repubblica che firma una legge affinché entri in vigore – ma nel come le persone partecipano al processo decisionale. E questo è un tema irrisolto per la Chiesa: come garantire giuridicamente – perché gli stati moderni non lasciano questo all’arbitrio di chi presiede – l’attivazione di processi di consultazione? Qui c’è una rottura tra la teologia del Vaticano II e il diritto canonico: si afferma la necessità di una Chiesa più sinodale e partecipativa, ma come tradurlo in norme?».

  • Quale contributo può dare l’esperienza della Chiesa latinoamericana a questo movimento di riforma?

«Francesco porta a Roma il metodo “vedere-giudicare-agire” della Gaudium et spes. Nel postconcilio esso è stato particolarmente sviluppato in America latina, mentre in Germania non è stato accolto nella stessa misura. Però il metodo induttivo riconosce alla storia un valore teologico e permette di pensare un mondo pluralista. È un elemento tipico della tradizione latinoamericana, da cui è nata l’opzione per i poveri.
Altri contributi importanti sono quelli della giustizia, del pensare a partire dalle periferie, degli stili di vita semplici, della religiosità popolare. Tuttavia anche l’America latina ha molti punti deboli, come il maschilismo nella società e nella Chiesa, o l’attuale fragilità delle comunità ecclesiali di base: ancora una volta, non si tratta di esportare un modello. All’interno di alcune linee di fondo comuni, ciascuno deve trovare la propria misura laddove vive».