Francesco apre ai preti sposati e chiude l’inferno di A.Guagliumi

Antonio Guagliumi
(Cdb San Paolo – Roma)

L’esortazione pontificia “Amoris laetitia” di cui tanto si è parlato durante il XXXVI incontro nazionale delle CdB contiene, come è stato detto, molte luci e alcune ombre profonde.

Riservandomi di  parlare di queste ultime in un prossimo ”Primo piano” vorrei qui evidenziare due punti molto interessanti che non sono stati – per quanto io sappia – rilevati dagli organi di informazione. Eppure i giornalisti, sempre attenti alle novità sui “punti sensibili”, suscettibili per di più di essere presentate in modo enfatico, avrebbero potuto in questa occasione fare un titolo del genere: “Il Papa apre ai preti sposati e chiude l’inferno”.

Un titolo siffatto, pur nella sua schematicità, troverebbe infatti un buon riscontro da una lettura attenta dei punti 202 e 296-297 del documento.Il primo (202) si preoccupa della pastorale familiare che, si dice, esige “una formazione più adeguata per i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, per i catechisti e per gli altri agenti di pastorale”. Le parole tra virgolette sono, come si vede da apposita nota, citazione di una delle proposizioni della “Relazione finale” del Sinodo. Orbene, ciò premesso, il paragrafo così prosegue: “Nelle risposte alle consultazioni inviate a tutto il mondo si è rilevato che ai ministri ordinati  [sottolineatura mia] manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei preti sposati”. Le parole qui virgolettate non hanno alcuna nota di rinvio alle proposizioni finali del sinodo e dunque si debbono ritenere un’osservazione propria del pontefice.

Ora, che la Chiesa cattolica apostolica romana, solita a rivendicare a sé la pienezza dei mezzi sacramentali e ministeriali rispetto a tutte le altre Chiese e tradizioni si scopra carente in un servizio pastorale nel quale la “tradizione orientale” (delle chiese latine di rito orientale e della Chiesa ortodossa) è più esperta, è un fatto a mio parere inaudito e che non può che avere come conseguenza l’abrogazione anche nella chiesa romana del celibato obbligatorio, introdotto del resto soltanto nel medioevo. In che altro modo infatti  si può far ricorso all’esperienza di questi “preti sposati”? Chiedendo loro come ci si comporta in determinati casi? Compulsando i loro repertori? Non ha senso. A ciò aggiungasi che, interpellato sull’argomento da un giornalista durante uno dei tanti viaggi aerei, il Papa ha risposto che “il celibato obbligatorio non è un dogma”. Ce n’è abbastanza per aspettarsi presto qualcosa di nuovo in merito.

Più difficile è parlare dei punti 296 e 297. Questi infatti a mio parere hanno una portata che va ben oltre il loro scopo contingente, che è quello di contrastare  coloro che avversano la comunione ai divorziati risposati sostenendo che costoro si trovano in una condizione di peccato oggettivo e quindi ineliminabile finché non si ricostituisce la coppia originaria. Il 296 recita: “La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno”. Il 297 ribadisce: “Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del vangelo. Non mi riferisco solo ai divorziati risposati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino”.

Si sente qui l’eco delle tesi contenute nel libretto  di don Cerreti “La Chiesa può rimettere tutti i peccati?” che si sapeva essere stato accolto positivamente dai vescovi progressisti. Ma l’affermazione del Papa, per sua stessa ammissione va al di là del fatto contingente, per toccare, sempre a mio avviso, la questione dell’eternità delle pene dell’inferno, sempre ribadita dalla Chiesa sia come questione di principio (vedi attuale catechismo, n. 1035) sia attraverso la condanna di chi la pensa diversamente, a cominciare da Origene nel IV secolo per finire (speriamo) ai nostri tempi con l’espulsione dall’insegnamento del  prof. Lombardi Vallauri e con le inascoltate profezie di Giovanni Franzoni (cfr. Il Diavolo mio fratello e il recentissimo Diavolo e Misericordia ed. Rubbettino).

E’ chiaro che qui mi muovo secondo una logica intraecclesiale, senza cioè imbarcarmi in discussioni teologiche e prendendo i vangeli così come ci sono stati tramandati. Prescindo anche da ogni statistica su quanto sia ancora diffusa la credenza nell’inferno, e su quanto valore simbolico essa ancora conservi. Sta di fatto che secondo il vangelo di Matteo, sul quale la Chiesa fonda l’essenza della sua struttura, a Pietro (cap. 16) e ai discepoli (cap. 18) Cristo ha concesso il potere di legare e sciogliere i peccati con la promessa che qualunque cosa sarà stata sciolta o legata in terra si considererà sciolta o legata nei cieli.

Ora, se la Chiesa annuncia solennemente che, per ciò che la riguarda, (nel suo piccolo, direi) non intende legare nulla in eterno sulla terra, sarà lei più misericordiosa del suo Capo che sta nei cieli? Quando l’invito di Gesù è invece: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro che sta nei cieli”.

Ma che succede se uno rimane  pervicacemente nel suo peccato? Sarà “salvato” contro la sua volontà? E lo stesso punto 297 a proporre una risposta: “Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa (…) ha di nuovo bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione.” In  eterno, se necessario,  e senza subire violenza. Se  Giordano Bruno e tanti altri inviati in paradiso prima del tempo e i loro aguzzini avessero potuto leggere questo punto della Amoris laetitia forse sarebbero stati tutti  un tantino più tranquilli.