Referendum o “giudizio di Dio”? di M. Di Schiena

da Adista Notizie n° 17 del 7 maggio 2016

Era facile prevedere che il referendum sulle trivelle non avrebbe avuto l’esito atteso dai promotori per l’estrema difficoltà di raggiungere il quorum dovuta a diversi fattori: dalla non agevole comprensibilità del tema oggetto della consultazione alla ostilità dei poteri forti, passando per la mancanza di un diretto interesse da parte dei cittadini di vaste e popolose aree geografiche del Paese. Renzi lo ha capito perfettamente e, per mettersi al sicuro, ha fatto ricorso all’invito all’astensione; invito inaccettabile sul piano democratico perché rivolto a utilizzare il disvalore della “non partecipazione” con l’intento di assicurare la vittoria della partita referendaria ad una maggioranza fittizia costituita dalla somma artificiosa dell’astensionismo di coloro che si opponevano al referendum con l’astensionismo cosiddetto fisiologico. Nel referendum abrogativo, per il quale è previsto dalla legge un quorum, l’appello all’astensione si pone contro la logica della normativa in materia correttamente interpretata ed è quindi illegittimo dal momento che, come ha ricordato il presidente della Consulta Paolo Grossi, l’art. 48 dello Statuto definisce il voto “un dovere civico”.

Il recente referendum, nonostante la sua invalidazione, non è stato comunque vano perché ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica e delle competenti autorità su un problema dalle molte zone d’ombra che dovrà essere affrontato e risolto. Ma è servito anche a mettere ulteriormente in evidenza il discutibile “modus operandi” del premier e il consistente indebolimento della sua popolarità. E questo è un buon viatico per l’impegno in vista del referendum sulle riforme costituzionali del prossimo ottobre che egli sta tentando di trasformare in un plebiscito sulla sua persona per vincere in fretta e in fretta avviarsi verso le elezioni politiche che lo dovrebbero “consacrare” come assoluto dominatore della politica italiana. Un traguardo da cui dovrebbe poi ripartire per fare l’ultimo tratto di strada verso un presidenzialismo (già annunciato dal ministro Boschi in un’intervista al quotidiano Avvenire nel luglio 2014) che gli consentirebbe di governare senza limiti e senza controlli.

Occorre allora lasciare che Renzi faccia come crede la sua campagna referendaria all’insegna del motto “se perdo il referendum vado a casa” e richiamare l’attenzione dei cittadini sull’oggetto proprio della consultazione e cioè il “sì” o il “no” ad una riforma che, col concorso della nuova legge elettorale, altera profondamente i connotati della nostra democrazia, verticalizza il potere e punta a introdurre una sorta di “principato elettivo”. Un sistema che porta alle estreme conseguenze la personalizzazione della politica, che mortifica il ruolo del Parlamento, che rende possibile il pieno controllo dell’Esecutivo sugli organi supremi di garanzia e che provoca una rischiosa frattura fra i principi indicati nella prima parte della Costituzione e gli strumenti operativi disciplinati nella seconda parte di essa. Ed è per questo che le riforme costituzionali renziane appaiono ineluttabilmente destinate a comportare ulteriori arretramenti delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti sociali più deboli. Un obiettivo, questo, perseguito dal capitalismo finanziario internazionale che chiede l’adeguamento delle Costituzioni di alcuni Paesi europei agli interessi del dominante neoliberismo. Ne è conferma il caso della società finanziaria globale J.P. Morgan che, con l’ormai noto documento del 28 maggio 2013, chiedeva la revisione delle Costituzioni dei Paesi dell’Europa meridionale (Portogallo, Spagna, Italia e Grecia) assumendo che esse, varate dopo la caduta delle dittature fasciste, presenterebbero una forte influenza di idee socialiste.

Occorre evitare l’errore di far apparire, come Renzi sembra interessato a fare, la prossima partita referendaria come la battaglia definitiva, una specie di “giudizio di Dio”, una sentenza senza appello. L’appuntamento referendario va pur sempre considerato una tappa di un lungo e difficile cammino che dovrà essere ripreso all’indomani dell’impegno referendario quale che sia il suo esito, dal momento che, anche nel caso di bocciatura delle riforme renziane, i guasti provocati in questi anni da politiche involutive sono tali da richiedere un lungo e faticoso lavoro per la costruzione di quella “democrazia costituzionale”, capace di generare un’autentica “democrazia economica”, faticosamente avviata nel primo trentennio repubblicano, ma poi contrastata dall’avvento del neoliberismo e quindi messa pesantemente in crisi dal ventennio berlusconiano e dal subentrato renzismo.

Michele Di Schiena è presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione