Comunità di vita, di pensieri e di affetti, aperte agli/alle altri/e. Sono l’ antidoto che ci vuole di N.Lisi

Nino Lisi
(CdB San Paolo – Roma)

L’1, il 2 ed il 3 settembre si è svolto a Roma un “triduo” di commemorazioni di Renato Biagetti. Nato nel 1980, Renato aveva fatto appena in tempo a laurearsi in ingegneria quando dieci anni fa, il 27 agosto del 2006, sulla spiaggia di Focene, un lembo della città di Roma dove si era recato per sentire un concerto, terminata la musica, alcune coltellate posero termine alla sua vita, a 26 anni.

“La politica non c’entra niente” decretarono alcuni media, accreditando la versione che l’uccisione sarebbe stata conseguenza di una rissa tra “balordi”. Ma la rissa non c’era stata; c’era stata un’ aggressione per motivi assurdamente insulsi, che il Tribunale avrebbe rubricato con l’aggravante di “futili”: due giovanissimi, di cui uno ancora minorenne e l’altro da poco compiuti i 18 anni, avevano ucciso Renato perché era una “zecca” e loro di zecche (cioè di comunisti) nel proprio quartiere non ne volevano.

Non riesco ad immaginare l’abisso di vuoto che i due aggressori si portavano dentro; vorrei almeno cercare di capire come e perché gli si era scavato dentro e finché non ci riuscirò non oserò esprimere opinioni sul loro conto. Ma su quello con cui avevano cercato di sostituire il niente che avevano nel cervello e nel cuore, su quello un giudizio posso, devo darlo, perché lo conosco anch’io, lo si conosce tutti: si chiama fascismo. Fascismo nella forma più subdola e pericolosa: come mentalità diffusa, fatta di risentimenti, odio, prepotenza e istinto di potenza; quella che sta attecchendo anzi ha attecchito in taluni strati sociali di Roma.

Attraverso essa, come spiega Leonardo Bianchi in un reportage pubblicato su Internazionale, “i neofascisti provano a prendersi le periferie romane”. E’ un fenomeno ignorato dai più e sottovalutato da altri; ma grave e preoccupante, tanto più preoccupante se si considerano le ondate di xenofobia che inquinano le società europee e si tiene conto dei movimenti di estrema destra che si vanno sviluppando un po’ ovunque. Correnti e movimenti tra loro diversi, ma tutti perniciosi.

C’è un antidoto per debellare questa infezione? Che si fa da noi per contrastarla?

E noi, noi cristiani e cristiane, i cui predecessori non restarono ad assistere imbelli ai disastri che nazisti e fascisti compivano, ma, dichiaratesi e dichiaratisi Ribelli per Amore, parteciparono attivamente alla Resistenza, che facciamo? Come ci opponiamo noi a questo fenomeno, da cristiani prima ancora che da democratici?

Altri/e lo fanno, che, se glielo si chiedesse, avrebbero difficoltà a dichiararsi cristiani o addirittura negherebbero di esserlo.

Lo si è visto nelle tre bellissime serate di commemorazioni, organizzate, come fa ogni anno, dal Centro Sociale Occupato ed Autogestito Acrobax: ogni serata è stata dedicata ad un tema diverso, ma connesso agli altri: lotta, condivisione, amore.

La prima sera la manifestazione si è svolta nella sede di Acrobax, lo spazio che un tempo fu del Cinodromo, e dove dieci anni prima si erano celebrati i funerali di Renato. Funerali laici, che erano durati 4 ore durante le quali dolore e rabbia, amore e speranza, lacrime e canti si erano fuse in una promessa: non dimenticare, perché non riaccada. Gli stessi sentimenti e la stessa volontà sono stati presenti quella sera e poi nelle altre due svoltesi, la seconda, nelle strade del vicino quartiere Garbatella, dove opera un altro storico Centro Sociale, La Strada, e, la terza, nel parco adiacente la Basilica di san Paolo.

Li ho visti e sentiti anch’io questi sentimenti l’ultimo giorno del triduo, mentre si allestiva lo spazio per la manifestazione. Un gran numero di giovani si davano da fare con perizia intorno ad un palco già montato, per mettere a punto l’impianto sonoro, disporre di fronte al palco alcune decine di tavoli e di panche per la cena, aprire in fila lungo il lato destro una cinquantina di gazebi, e stendere una rete per l’illuminazione dei gazebi e dei tavoli. Un pullulare di attività, senza confusione né chiasso; si percepiva un’atmosfera composta come di triste consapevolezza del senso di ciò che si stava per compiere.

Sarà per questa atmosfera, sarà perché di fronte alla fila dei gazebo si stagliava la mole della Basilica, via via che i lavori di allestimento proseguivano a me sembrava che lo spazio del parco lo si stesse organizzando come quello di una chiesa: al centro l’area delle panche sembrava fare da navata, il palco, sul fondo, da altare maggiore, e sulla destra i gazebi, in fila, da cappelle laterali. Mi sembrava quasi che ci si stesse preparando alla celebrazione di un rito all’area aperta, senza sfarzi, semplice, essenziale. Del resto, il tema della serata non era l’amore? E quello della sera precedente non era stata la condivisione?

Nei gazebi erano esposti libri, CD musicali, magliette, tutte cose che parlavano di Renato, di solidarietà, di amore ed ovviamente anche di rabbia e di preoccupazione. Pure di speranza. C’era anche da bere birra e torte da mangiare. Le torte erano di produzione delle “Madri per Roma Città Aperta”, un gruppo di madri-coraggio organizzatesi intorno alla mamma di Renato ed a quella di Dax, un’altra “zecca” uccisa da fascisti.

Una di loro aveva descritto così, qualche giorno prima, il perché delle tre serate: “aprite gli occhi, guardatevi intorno, scrollatevi di dosso questa polverina anestetica che ogni giorno viene sapientemente fatta calare sulle teste e che come una droga fa entrare in un limbo. Ciò che dieci anni fa è accaduto a Renato deve far riflettere tutti perché continua e continuerà ad accadere col benestare e l’indifferenza dei più”.

Ecco dunque l’antidoto. Viene da un gruppo di madri che hanno avuto il coraggio di non chiudersi nel proprio dolore, ma di trovare in esso la forza di lottare per aprire gli occhi agli altri e alle altre, perché l’infezione non si propaghi. E viene dai Centri Sociali, proprio dai Centri Sociali tanto vituperati dai ben pensanti. E si spiega.

I Centri Sociali sono luoghi dove l’espressione vivere insieme ha significato perché vi si costruiscono e si intrecciano relazioni non di potere bensì di solidarietà e di affetti, dove le inevitabili tensioni e gli eventuali conflitti non sono per interesse o per ragioni di potere. Luoghi di lotta, di condivisione e di amore, aperti ed accoglienti, dove la solidarietà non riguarda solo i vicini, ma chiunque stia nel bisogno.

Da Acrobax, per fare un esempio recente, il 24 agosto, appena saputo del terremoto, prima dell’alba sono partiti due giovani per le zone colpite. A primissima ora nell’ex Cinodromo già si sapeva di cosa i terremotati avevano bisogno; il giorno dopo i giovani del Centro Sociale erano già pronti ad un via della Protezione Civile a partire portando gli aiuti già raccolti ed imballati.
E’ così anche negli altri.

Un mio amico qualche mese fa ha partecipato ad un funerale che si è svolto in un altro Centro Sociale Occupato ed Autogestito, l’Ex Snia. Lo ha descritto così: “I compagni hanno ricordato, hanno letto poesie e cantato; ho visto una “comunità” vera, capace di solidarietà concreta, di antagonismo, ma anche di dolcezza. E quando polizia e vigili, tradizionalmente addetti agli sgomberi di posti come questi, hanno deviato il traffico per far passare il piccolo corteo, mi sono commosso “.

Ecco l’antidoto all’insinuarsi del fascismo nelle menti e nei cuori di tanti, troppi: costruire comunità di vita, vere, aperte ed accoglienti.

Mentre assistevo all’allestimento del parco e poi mentre me ne allontanavo prima che la manifestazione iniziasse, perché l’età avanzata non mi consentiva di trattenermi di più, una serie di domande e di ricordi mi si sono affollati nella mente: ma le parrocchie non dovrebbero essere delle comunità di fede, e quindi anch’esse delle vere comunità di vita? Lo sono? Ho avuto difficoltà a rispondermi: mi sono ricordato delle diatribe che c’erano a questo riguardo in Azione Cattolica, perché il termine “comunità” era guardato con molto sospetto, in quanto si riteneva, come era stato scritto non ricordo più da quale giornale, che tra “comunità, comunitarismo, comunismo, il passo è breve” e Giacomo Ghirardo, direttore del quotidiano di Napoli Il Mattino, chiamava quelli come noi “comunistelli di sacrestia”.

Mettendo in moto l’auto, lo sguardo mi è caduto sulla targa che recava il nome del parco. E’ intitolato al cardinale Shuster, arcivescovo di Milano. Mi sono ricordato così di un altro cardinale, Emmanuel Suard, arcivescovo di Parigi, che nel 1947 scrisse una celebre Lettera Pastorale che intitolò Agonia della Chiesa. Leggendola a quel tempo, iniziai ad interrogarmi sulla natura della Chiesa. Da allora non ho smesso di farlo.

Ma si stava facendo sera. Per non farmi sorprende dal buio alla guida della macchina dovevo affrettarmi. Allora mi sono concentrato sulla guida. Interrogativi e ricordi sono rimasti in sospeso.

Nino Lisi
(Cdb San Paolo – Roma)