Trump e il trumpismo di M.Vigli

Marcello Vigli
(CdB San Paolo – Roma)

I primi giorni di governo del Presidente Donald Trump evocano il triste passato degli anni ’50 del secolo scorso, quando la paura di “influenze comuniste” sulle istituzioni statunitensi generò quel clima di sospetto generalizzato e di interventi persecutori che fu detto maccartismo dal nome del senatore repubblicano John Mc Carty, il principale responsabile della sua creazione. Progressivamente si restrinsero gli spazi di libertà e si moltiplicarono i processi contro i sospettati di essere spie sovietiche, che inquinarono la vita politica negli Usa, finché l’inconsistenza di tali accuse non consentì alla maggioranza democratica del Senato di censurare la sua azione e di porre fin alla “caccia alle streghe” che aveva generato.

Con l’Immigration and nationality act del 1965, che ha vietato tutte le discriminazioni contro gli immigranti sulla base dell’origine nazionale, sostituendo il vecchio sistema pregiudiziale e dando a ciascun Paese una parte uguale nelle quote, sembrava chiusa quella stagione.

Oggi, invece, il neo Presidente vuole riaprirla contro il nuovo nemico da battere: il terrorismo di cui l’islamismo a suo avviso sarebbe il principale ispiratore. Per cominciare ha emesso un provvedimento per impedire, intanto nei prossimi quattro mesi, l’accesso negli Usa a chi, richiedente asilo, proviene da paesi a maggioranza islamica: Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen, anche se lavoratore con il permesso permanente.

L’assenza fra questi Paesi dell’Arabia saudita, da cui pure erano arrivati gli autori della strage delle Torri gemelle nel settembre 2001 e che da sempre ospita finanziatori occulti dei terroristi, lascia intendere che il petrolio vince la paura senza sminuire la pregiudiziale antislamica, del provvedimento confermata dalla ben più significativa esenzione dei cristiani dal divieto di ingresso.

Essere musulmano diventa colpa e «marchio» di pericolosità: motivo di esclusione.

Tale divieto assume valore perché, mentre legittima quanto, già da tempo, stanno facendo i signori dello stato islamico nei confronti di cristiani, ebrei, buddisti o di ogni altra tradizione e convinzione religiosa e filosofica, offre un criterio per valutare progetti e programmi del neo Presidente, anche se lui stesso, pressato dalle reazioni molteplici e differenziate di diversi settori della società statunitense, ha cercato di ridimensionarne il significato.

Altri suoi predecessori hanno decretato divieti analoghi, certo non così caratterizzanti, nei confronti di “stranieri” indesiderati, ma restano la tempestività e il contesto del suo atto a farne un criterio interpretativo delle parole del suo discorso d’insediamento: Noi che ci siamo riuniti qui oggi stiamo per imporre un nuovo ordine che verrà udito in ogni città, in ogni capitale straniera e in ogni aula del potere. D’ora in avanti, una nuova visione delle cose governerà la nostra terra. Da questo momento in poi, lo slogan sarà: prima l’America. Ci troviamo agli albori di un nuovo millennio, pronti a svelare i misteri dello spazio, a liberare la terra dalle miserie delle malattie e a governare a nostro vantaggio le energie, le industrie.

Già a dar senso a queste parole avevano contribuito: sia il primo atto di governo, la firma del decreto con il quale ha avviato lo smantellamento della riforma sanitaria promossa da Obama, sia, subito dopo, l’ordine esecutivo per la progettazione del muro di oltre 3000 chilometri per marcare il confine fra Usa e Messico.

Se non è facile definire possibilità e tempi per l’attuazione dei questi due progetti, è evidente, invece, il caos creato negli ultimi giorni di gennaio negli aeroporti delle città statunitensi dall’applicazione del terzo in concomitanza con l’arrivo, dai Paesi in esso incriminati, di passeggeri pur forniti di regolari documenti e permessi. In alcuni scali essi sono stati bloccati in stato di arresto, in altri sono riusciti a passare per l’intervento di avvocati e magistrati, che hanno denunciato l’incostituzionalità del provvedimento, favoriti dalla mobilitazione di migliaia di cittadini scesi in strada contro il Presidente Trump costringendolo, come si è detto, ad attenuare le conseguenze del suo intervento rendendolo non applicabile a possessori della green card (autorizzazione a risiedere negli Usa per un periodo illimitato) obbedendo all’ingiunzione di alcuni giudici, fra i quali una federale.

In verità la sua posizione si è confermata rigida – ha silurato Sally Yates ministro della giustizia ostile al suo provvedimento – nel mantenere ciò che aveva promesso in campagna elettorale, insensibile alla dura opposizione che più o meno esplicitamente si è sviluppata coinvolgendo nella condanna della sua politica autorità religiose, accademici, associazioni di diverso orientamento anche oltre i confini statunitensi.

In Inghilterra, ad esempio oltre un milione e mezzo di cittadini hanno firmato per chiedere al governo di annullare la imminente visita di Trump, programmata e confermata, però, dalla Primo ministro Theresa May sua grande ammiratrice.

Altri governi europei non hanno, invece, nascosto il loro disaccordo come pure diverse autorità religiose.

Alla richiesta di esprimere un giudizio su di lui papa Francesco ha mostrato cautela. Vedremo che cosa succede. Non mi piace anticipare i fatti né giudicare le persone in anticipo (…) Vedremo ciò che farà e valuteremo…

Ma poi, in una lettera che gli ha inviato, in occasione del suo insediamento alla Casa Bianca gli ha scritto : In un tempo nel quale la famiglia umana è assalita da gravi crisi umanitarie che richiedono risposte politiche lungimiranti e unite prego che le sue decisioni vengano guidate dai ricchi valori spirituali e etici che hanno formato la storia del popolo americano e l’impegno della sua nazione per l’avanzamento della dignità umana e della libertà in tutto il mondo.

Anche la Conferenza episcopale degli Stati Uniti si è dissociata dopo avere già dichiarato, bisogna costruire ponti, non muri, a commento della decisione di Trump di avviare la costruzione di un muro al confine tra Usa e Messico.

Ben più duro l’intervento di Angela Davis alla manifestazione a Washington nel giorno dell’insediamento di Trump: I prossimi 1459 giorni dell’amministrazione Trump saranno 1459 giorni di resistenza. Resistenza sulle strade, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, resistenza nella nostra arte e nella nostra musica. Questo è solo l’inizio e per dirlo con le parole dell’inimitabile Ella Baker “noi che crediamo nella libertà non possiamo riposarci fino a quando non arriverà”.

Anche fra i grandi statunitensi dell’economia, che pure ne hanno favorito l’elezione, molti dissentono da Trump impegnandosi a dare lavoro, soldi e case ai migranti anche islamici e mettendo gratuitamente fin d’ora a disposizione alloggi agli immigrati musulmani rimasti bloccati negli aeroporti a causa del suo decreto immediatamente esecutivo.

Più significativa la reazione, duramente negativa, della rete telematica contro la scelta di bandire gli immigrati, perché molti al suo interno ne hanno apertamente accreditato la responsabilità a Steve Bannon: ex capo di un giornale di ultra-destra accusato da anni di essere estremista, razzista e antisemita. Trump lo ha scelto come suo ispiratore e stratega nel ruolo molto importante di chief strategist, uno dei principali consiglieri del Presidente, suscitando critiche anche fra i repubblicani preoccupati per le istanze e proposte della destra estrema, di cui Bannon è interprete e portatore.

Proprio dalla conservazione e aumento della sua influenza e del suo ruolo all’interno dello studio ovale, emersi in questo intervento antislamico, saranno condizionate le future scelte politiche del nuovo Presidente generando il trumpismo.