Il “Vicariato di Roma” – Riflessioni e proposte per il dopo-Vallini di CdBSanPaolo

Comunità cristiana di base di san Paolo
Roma, 9 aprile 2017

L’inatteso invito di papa Francesco – che il 10 marzo ha chiesto ai 36 parroci prefetti di Roma, e poi anche ai presbìteri e ai laici della diocesi, di indicare il profilo del suo nuovo vicario generale, ed eventualmente anche il nome – ci ha rallegrati perché, in prospettiva, riapre un problema e un iter cruciali per la Chiesa cattolica.

Una riflessione adeguata sull’episcopato, biblicamente e storicamente fondata, aprirebbe temi decisivi, perché noi – con altre Comunità cristiane di base e con cenacoli teologici – riteniamo che, in merito, sia necessario un confronto inesausto con il pensiero e la prassi del “laico” Gesù, che mai ipotizzò “sacerdoti” per la sua comunità. E questa, nei primissimi tempi, si organizzò – come testimonia il Nuovo Testamento – sulla base di “ministeri” e di carismi vari, ma senza “sacerdoti”. Tuttavia, lasciando sullo sfondo tale problema dirimente per una riforma evangelica della Chiesa romana, qui ci limitiamo a porci delle domande su un aspetto più ristretto, ma anch’esso di peso: “chi” sceglie i ministri della comunità, e con quale metodo?

L’interrogativo non è nuovo; esso si presentò fin dall’origine della Chiesa, proprio nella Comunità di Gerusalemme. Gli Atti degli apostoli (1,12-26) narrano, infatti, che Pietro sollecitò la Comunità nascente (erano circa 120 persone, precisano, con alcune donne e con Maria la madre di Gesù e i suoi fratelli) a indicare una persona che sostituisse Giuda. La Comunità – tutta la Comunità – scelse due “candidati”, pregò, e poi gettò le sorti: uscì il nome di Mattia, che fu associato agli Undici apostoli. Una procedura che, certo, non può essere, oggi, ripresa automaticamente, ma che, rimasta a lungo vigente nella sua essenza (la scelta deferita all’assemblea dei credenti), e poi purtroppo abbandonata, potrebbe tornare ad essere un modello di riferimento anche ai nostri tempi.Il primo esempio, riferito dagli stessi Atti, ci viene proprio dalle esigenze delle chiese locali nate nella diaspora giudaica e accoglienti molte persone provenienti dal paganesimo ellenistico (6, 3-5); altri esempi dell’uso generalizzato della prassi elettiva alla fine del primo secolo sono documentati dalla Didachè o insegnamento dei dodici apostoli (15, 1) e dalla Prima lettera di Clemente ai Corinti (44,3).

Di fatto, per secoli fu prassi normale che in ogni diocesi, cioè in ogni Chiesa locale, la gente – clero e popolo – scegliesse il proprio pastore, senza nessunissima interferenza di Roma. O, talora, avevano peso anche i vescovi delle diocesi viciniori, o il titolare della metropolia. Ciò non significa che tutto fosse sempre tranquillo: infatti, ogni tanto vi furono, qua e là, aspri conflitti tra fazioni contrapposte per la scelta di questo o quel candidato. In sé, però, la prassi era sana, teologicamente e pastoralmente ben fondata. Essa, in radice, si basava sul principio: “Quod omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet” (Ciò che tocca tutti, da tutti deve essere discusso e approvato).
Ma a poco a poco il popolo fu estromesso, e la sua parte se l’assunse la nobiltà locale. Quindi – e siamo agli inizi del secondo millennio – lo scontro per la scelta dei vescovi fu tra imperatore germanico e papa. Poi, in alcuni paesi “cattolici” i sovrani mantennero, per un certo tempo, il “privilegio” di nominare i vescovi. Infine, salvo rare eccezioni, nella Chiesa latina i pastori delle diocesi furono scelti dalla Curia romana.

Se ogni parvenza di partecipazione della “base” nella scelta dei vescovi di fatto disparve, essa rimase però viva nei grandi ordini religiosi: dai benedettini ai francescani e ai domenicani e, dopo il Concilio Tridentino, dai gesuiti a tutte le congregazioni moderne (maschili e femminili) la scelta del superiore supremo, o dell’abbadessa, fu sempre una decisione autonoma dell’istituto stesso, e non demandata alla Curia. Un “segnale” purtroppo abbandonato nella vita delle Chiese locali.

Al Vaticano II molto si è discusso sul ruolo pastorale dei vescovi; si è evitato, però, di approfondire a chi spetti, di norma, sceglierli. Tuttavia, la centralità del “popolo di Dio” affermata dalla Lumen gentium, la costituzione sulla Chiesa, ha posto – indirettamente – le basi per una rinnovata riflessione sul problema, al fine di trarre conclusioni operative da quel principio solenne.

Perciò nel post-Concilio sono maturate qua e là, pur tra diffidenze e resistenze, nuove consapevolezze ecclesiali; sempre più risulta insostenibile la prassi in atto: il nunzio – previa consultazione segreta con il metropolita della provincia o con esponenti del capitolo della cattedrale e, “se lo ritiene opportuno, con laici distinti per saggezza” nella diocesi interessata – prepara una terna di nomi da inviare alla Curia romana. Qui la Congregazione per i vescovi la esamina, e magari la modifica; infine presenta le sue conclusioni al papa, che decide liberamente. Nella sostanza, dunque, il “popolo di Dio” è escluso; in particolare, manca un parere decisivo del Consiglio pastorale e presbiterale della diocesi interessata che, se scelti democraticamente, rappresenterebbero un inizio di partecipazione davvero popolare. Questo in casi “normali”: infatti, ove il potere politico impedisse alla Chiesa la piena libertà di organizzarsi, potrebbe rendersi necessario, per il bene della diocesi, un intervento risolutivo di Roma.
In tale sfaccettato contesto – qui rapidamente riassunto – arriva la proposta di Francesco di coinvolgere in qualche modo la gente per la scelta del suo “vicario”. Essa appare felicemente innovativa rispetto allo “status quo”, ma pur sempre conforme alla prassi delle prime Comunità.

Qualche dubbio v’è piuttosto da sollevare sulla necessità intrinseca di una figura come quella del “Vicario generale di Sua Santità” che tra l’altro, per decisione di Paolo IV (1558), è sempre un cardinale. E’ comprensibile che il vescovo di Roma, assorbito in tantissimi compiti, tanto pastorali che diplomatici legati al papato, si faccia aiutare dai cosiddetti “vescovi di zona” cui sono affidate le grandi aree in cui è suddivisa la capitale. Ma perché interporre tra lui e costoro un “vicario”? Questa figura, a parte la confusione che può ingenerare tra la gente semplice che sente parlare di un “vicario di Cristo” e di un “vicario del vicario”, è un diaframma che può ostacolare il rapporto diretto tra i vescovi ausiliari di zona e il papa. Del resto, la cancellazione del “vicario” sarebbe pienamente coerente con la linea portante di Francesco che, il giorno della sua elezione, si presentò come “vescovo di Roma”.

A proposito poi della persona concreta del futuro candidato noi, nella situazione data, non abbiamo proposte precise per indicare il successore del cardinal Vallini. Tuttavia, delineando un identikit auspicabile, rispetto ai desiderati carismi del prescelto, pensiamo che egli dovrebbe aver già dimostrato, nella sua attività pastorale, mitezza, voglia di “sinodalità”, capacità di ascolto a 360 gradi, gusto e pratica della povertà, solidarietà con gli ultimi della società, coraggio di dire la sua opinione anche quando è spiacente all’establishment ecclesiastico, profonda conoscenza delle Scritture e rispetto del lavoro di biblisti e teologi (uomini e donne), sensibilità alla necessità di dare finalmente “cibo solido” ai fedeli (I Cor 3, 1-2), accoglienza della pluralità ecclesiale. E, infine, sarebbe bello se avesse quella carica di humour che sa ridere bonariamente anche di se stessi e che è essenziale per non smarrirsi nei meandri del mondo ecclesiale romano.

Ci auguriamo che l’intera Chiesa romana viva questo momento di attesa, insieme a Francesco – che ha appena lietamente doppiato il quarto anniversario della sua elezione a vescovo di Roma – con lo spirito che animava i cristiani di questa città quando giunse loro la lettera dell’apostolo Paolo, nella quale si riconosceva che donne e uomini già poco dopo la prima metà del I secolo avevano reso illustre quella Chiesa.