Papa Francesco sulla tomba di don Mazzolari e don Milani di CdBIsolotto

Comunità dell’Isolotto

Oggi, 20 giugno 2017 Papa Francesco sarà a Bozzolo (Mantova) e poi a Barbiana per
una preghiera in forma privata sulla tomba di don Mazzolari e don Milani.
Come Comunità abbiamo riflettuto, in queste settimane, su questo gesto. Qui di
seguito la nostra riflessione e un testo di Enzo Mazzi su don Milani.

Una nostra riflessione

Guardiamo ai gesti che compie Papa Francesco con attenzione; spesso ne apprezziamo
il coraggio, la coerenza, la capacità di osare, di sottrarsi, quando può, ai vincoli stretti
delle istituzioni di potere.

La scelta di papa Francesco di recarsi nei luoghi dell’esilio di don Mazzolari e don
Milani non ci lascia indifferenti.

Tante sono state, e sono ancora molte le esperienze che hanno contribuito a
percorrere cammini positivi nel grande processo conciliare di cambiamento della
Chiesa; sono esperienze che la nostra comunità spesso ha conosciuto e con le quali si è
confrontata intrecciando impegno e ricerca evangelica; e non possiamo non ricordare
che spesso sono state esperienze negate, umiliate, emarginate.

Per questo pensiamo che andare a Bozzolo e a Barbiana sia un gesto significativo,
che possa rendere ragione alle molte sofferenze, alle testimonianze e alle scelte di vita
ispirate a valori umani ed evangelici profondi, ai cammini di fede e alle tante storie
di emarginazione di ieri e di oggi.

In atteggiamento critico nei confronti di una cultura che educa ad una visione della
storia come protagonismo di soli personaggi illustri, padri e maestri, tante esperienze
di comunità cristiane hanno fatto la scelta di dare parola ed autorevolezza alle piccole
storie, alle persone semplici, alle esperienze e ai cammini comunitari, al “popolo di
Dio”, che certamente sono parziali ma che, secondo noi, hanno la forza dirompente del
protagonismo delle donne e degli uomini di buona volontà.

Ci piacerebbe che queste realtà precarie ma vive e creative, questo “popolo di Dio”,
che riscoprendo i valori del Vangelo ha riscoperto anche la propria cultura di base, il
proprio valore, la propria autorevolezza, dignità, autodeterminazione, venissero
valorizzate nella memoria collettiva e non fossero oscurate privilegiando i soli leaders,
seppure meritevoli protagonisti delle tante storie di liberazione. Perché, come
scriveva Enzo Mazzi: “Non si rispetta … don Milani enfatizzando l’attenzione sulla sua
persona. Si valorizza solo vedendolo inserito nel processo storico di riscatto e di
emersione delle culture popolari da secoli di negazione e di demonizzazione”.

Crediamo che questo sia il senso più completo della narrazione evangelica che, oltre il
miracolistico, mostra, oggi come più di duemila anni fa, una via utopisticamente
concreta per la creazione di una “Umanità nuova che si fa insieme”, nel rispetto e nella
ricchezza delle diversità. Siamo convinti che i progetti di cambiamento non sono
sempre facili, o assolutamente realizzabili o necessariamente vadano in una direzione
migliore, spesso producono anche contraddizioni e dunque desideriamo accompagnare
anche questo evento con la consapevolezza che:

ha senso sostenerci reciprocamente e valorizzare tutti gli sforzi e gli sforzi di
tutti coloro che condividono valori e impegno volti a realizzare una società, dove gli
“ultimi saranno i primi”, dove “le pietre scartate possano essere testate d’angolo”,
dove i molti che ancora oggi non hanno voce possano acquisire diritti, consapevolezza,
dignità; dove “Non si giudicherà secondo le apparenze, non si deciderà per sentito
dire. Si renderà giustizia ai poveri e si difenderanno i diritti degli oppressi” (Is,11).

In questo grande cammino dell’umanità ciascuno/a di noi ha un suo contributo da
donare, con le proprie risorse ed anche con i propri limiti: tutti abbiamo la
responsabilità e l’impegno di coinvolgere il nostro ”io” nella costruzione del ”noi”.
stare insieme e fare comunità non è omologazione nel pensiero unico ma convivere
con le differenze e le particolarità. Non sempre ci riconosciamo nelle riflessioni, nei
linguaggi o nelle scelte gli uni/e degli/delle altri/e, confrontarci per crescere insieme
è importante ma anche rispettare le diversità e le differenze, continuando comunque
a camminare insieme.

Esiste e sta crescendo una nuova umanità aperta, generosa, disponibile, che sta
costruendo un orizzonte in cui “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello … e il bambino
potrà stendere la mana sulla tana dell’aspide”.

L’esperienza ha mostrato che è stato possibile resistere anche in tempi bui,
l’interrogativo ora è se questo è ancora possibile, perché, come, con chi.
Ci piace credere che un giorno, le future generazioni di ogni varia umanità,
intrecceranno le loro vite felicemente e non avranno più da impegnarsi contro
razzismi, esclusioni, conflitti, emarginazioni.

Si potrà arrivare a raggiungere tali obbiettivi solo maturando la consapevolezza
che le orme di tante donne ed uomini, comprese le nostre, hanno lasciato tracce
ed hanno contribuito a trasformare positivamente le relazioni e a costruire
una migliore civiltà. Questo è secondo noi il senso ed il valore della memoria
e delle tante memorie. Dall’esperienza una nuova sapienza.

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Enzo Mazzi: Appunti per la presentazione del libro “Lorenzo Milani, gli anni del privilegio”
Casa del Popolo di San Quirico a Legnaia – Firenze 11 febbraio 2005

L’oscuramento dei poveri

A quasi quarant’anni dalla morte (scomparve nel 1967), don Lorenzo Milani è più vivo
che mai. C’è una grande attenzione verso le sue esperienze, il suo messaggio, la sua
figura. Fioriscono pubblicazioni su di lui, si moltiplicano convegni, si aprono dibattiti
sui media e si alza perfino il sipario del grande schermo.
Ma è ambigua questa attenzione. Ripropone l’eterno problema della
mitizzazione. Centrare tutta la luce sulla sua persona oscura ancora una
volta i poveri, la gente umile. Era questo che voleva il priore di Barbiana?

No di certo, anzi era il contrario. Semmai l’oscuramento dei poveri lo
voleva proprio chi condannò le esperienze pastorali fatte a Calenzano
e chi tentò di seppellire vivo don Lorenzo nel deserto di Barbiana.

Il prete inquieto fu punito proprio perché osava dare luce, nella Chiesa e nella società,
alle culture e alle aspirazioni popolari che erano state sempre negate e tali dovevano
rimanere; perché scopriva e dava visibilità ai valori umani ed evangelici di quelli che
venivano considerati atei e scomunicati.

Fu colpito come era stato colpito don Mazzolari e come saranno
colpiti padre Balducci, il cardinale Lercaro, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, don
Rosadoni, dom Franzoni e mille altri. La società, la cultura, la politica, l’economia, la
Chiesa dovevano restare blindate rispetto a ogni possibile infiltrazione degli operai e
contadini. E chi osava gettar ponti doveva essere bloccato con ogni mezzo.

L’emersione delle culture popolari

Non si rispetta dunque don Milani enfatizzando l’attenzione sulla sua persona. Si
valorizza solo vedendolo inserito nel processo storico di riscatto e di emersione delle
culture popolari da secoli di negazione e di demonizzazione; emersione che avviene, in
questo immenso crogiolo che è la nostra epoca, grazie a un intreccio e a una fusione
con le culture, tradizionalmente separate, di élites in crisi di identità.

Insomma la grande intuizione di don Milani è che la borghesia come classe separata
e dominante doveva farsi da parte e doveva invece porre il suo sapere al servizio
della emersione delle classi popolari. Da questo intreccio fra intellettuali e popolo
sarebbe nata una sintesi nuova di vita e di società. E’ quello che lui tentò di fare prima
a Calenzano e poi a Barbiana.

L’ansia dei “lontani”

Già in seminario Lorenzo si distingueva per la sua attenzione verso i cosiddetti lontani.
Seminarista anomalo, rispetto a noi che venivamo da un lavaggio del cervello iniziato
per molti già all’età di undici anni, “il Milani” metteva a disposizione strumenti
culturali più aperti, per cercare fra le pieghe della storia di quel tempo i passaggi che
ci consentissero di appagare il nostro bisogno di superare la frattura che si era creata
fra la Chiesa e i poveri.

Il Vangelo stava rischiando di diventar merce nel mercato capitalista: non poteva più
essere annunziato in maniera credibile dal vecchio pretefeudatario
ma nemmeno dalla emergente figura del prete-funzionario, manager,
salvatore dei poveri con le elargizioni dei ricchi.

Negli interminabili pomeriggi di una scuola teologica che chiedeva solo di imparare
a memoria dispense e testi vecchi di oltre mezzo secolo, scoprimmo i valori evangelici
testimoniati dalla gente del popolo, dai cosiddetti lontani, dagli scomunicati.
Fu una scoperta a tavolino, sulla base di esperienze e letture più o meno proibite o sospette,
come gli scritti di don Mazzolari o le pubblicazioni di teologia teorica e pratica che venivano d’Oltralpe.

Si traduceva ad esempio con passione il libro di un parroco francese intitolato
“Parrocchia, comunità missionaria”. La tesi di fondo del libro e dell’esperienza
pastorale ivi descritta era che la classe operaia avrebbe in sé, nei suoi valori umani, la
forza di cambiare il mondo ingiusto solo che potesse coniugare tali valori col Vangelo e
con la fede cristiana. E’ in fondo la tesi dell'”Umanesimo integrale” di Maritain.

Invece, dice il libro, la pastorale normale si attarda in pontificali, elargizioni
benefiche e divertimenti. E così i poveri, privi della Parola, sono attratti dall’ideologia
comunista. La Francia è scristianizzata, è terra di missione. Per il libro è angoscioso
costatarlo ma è così. Ridiamo ai poveri la Parola. Potranno così avvicinarsi al Vangelo. E
questo intreccio fra valori umani espressi dai poveri e Vangelo raddrizzerà il mondo
ingiusto. Con un tale desiderio di incarnazione nel “mondo dei poveri”, uno dopo l’altro
uscimmo di seminario e ci inserimmo nella vita.

Giovani preti nel crogiolo

Ci trovammo immersi in un crogiolo che andava ben oltre la nostra immaginazione e i
nostri progetti. Il boom della industrializzazione, l’inurbamento e lo sviluppo dei
media avevano rotto i compartimenti stagno e creato le premesse per un generale
rimescolamento delle carte. Si preparava la metafora di uno di quei magici tempi della
evoluzione della specie in cui nasce un essere nuovo.

Eravamo ingenui, ma non stupidi; idealisti, ma non privi di quel realismo autentico che è
la dote di chi non ha altra scelta che tentare l’inesplorato.

Non sapevamo che il mondo operaio e contadino era agli sgoccioli. Ma non eravamo
neppure in attesa della sua messianica vittoria. Ci premeva l’affermazione e la
penetrazione dei valori umani ed evangelici dei poveri. Quei valori, fra l’altro, che
alcuni di noi, provenienti, a differenza del Milani, da famiglie proletarie di sinistra,
avevano succhiato col latte materno e che poi entrando in seminario avevano
abbandonato non senza un senso di rottura e quasi di tradimento. Ora si trattava di
immergersi di nuovo in quella realtà dalla quale si proveniva. Con un tale desiderio di
incarnazione nel “mondo dei poveri”, uno dopo l’altro uscimmo di seminario.

Tutti però eravamo ossessionati dal senso di colpa. Nel fondo, forse nell’inconscio,
restava l’intento di salvare il mondo dal dominio del peccato. L’angoscia del peccato e
la paura della privazione di Dio, temporale e soprattutto eterna, alimentavano una
obbedienza assoluta verso il potere ecclesiastico, che noi stessi del resto incarnavamo
nei confronti dei fedeli. Al confessore affidavamo anche quotidianamente il nostro
peccato. Egli era la nostra ancora di salvezza “definitiva”. Oltre di lui l’angoscia.

Eravamo preparati a disubbidire e a educare alla disobbedienza verso il potere civile
ingiusto; ma non verso il potere ecclesiastico ingiusto. Questo aveva le chiavi della
nostra salvezza eterna. Don Milani non si liberò mai totalmente da tale distruttiva
angoscia del peccato e del perdono. Forse lì sta anche il segreto della sua conversione
al cattolicesimo. Il rapporto diretto col biblico Dio, giusto, onnipresente e
onniveggente, è capace di procurare un’angoscia insostenibile: “chi vede Dio muore”
dice la Bibbia.

La mediazione della Chiesa che può dare il perdono e lavare il peccato,
attenua l’angoscia e rende più accessibile il confronto con Dio. Si può protestare
anche duramente contro il potere ecclesiastico ma alla fine, davanti al potere delle
chiavi della salvezza totale e del perdono, non si può fare a meno di piegare il capo.
Altri di noi impararono dalla gente e con la gente a guardare con più serenità al giusto
senso del peccato e del perdono e soprattutto a sganciarlo dalla mediazione esclusiva
del potere ecclesiastico.

La posta in gioco era molto alta perché quel crogiolo aveva due possibili sbocchi. Uno
sbocco, che ritenevamo senza ombra di dubbio drammaticamente distruttivo, era
quello del consolidamento della unificazione del mondo sotto il dominio della borghesia,
nel segno del prepotere della tecnica, del danaro, della competizione di tutti contro
tutti, della violenza, del terrore; l’altro sbocco, che giudicavamo positivo e per il quale
ci dovevamo impegnare, era l’unificazione del mondo nel segno dei poveri, non come
autarchia delle classi popolari, ma come intreccio e incarnazione delle migliori energie
umane, culturali e religiose, nel mondo dei poveri.

Ci accorgemmo ben presto, già alle prime esperienze di pratica pastorale, che non si
trattava solo di una questione di preti, di Chiesa o di Vangelo. La società intera era
investita da una trasformazione profonda e ambigua. Proprio per questo però
l’opportunità che si apriva per il Vangelo e per la Chiesa era di incalcolabile valore.
Bisognava scommettere la vita intera e la stessa fede.

Ed è quello che tentammo di fare, giovanissimi preti, realizzando esperienze
che insieme a tante altre analoghe avrebbero preparato e alimentato la rivoluzione
copernicana del Concilio, al centro della chiesa il Popolo di Dio, e la rivoluzione culturale e sociale del ’68.

Don Milani, il Concilio, il ’68, le comunità di base

E’ vero, don Milani era lontano dal Concilio e forse non avrebbe apprezzato il ’68. “La
religione consiste solo nell’osservare i dieci comandamenti e confessarsi presto
quando non si sono osservati – egli diceva -. Tutto il resto o sono balle o appartiene a
un livello che non è per me e che certo non serve ai poveri”. Non l’abbiamo mai avuto
vicino quando alimentavamo, ispiravamo e sostenevamo la battaglia dei padri conciliari,
tipo il cardinale Lercaro o dom Franzoni, per la Chiesa povera e dei poveri.

Questo significa che lui non ha dato il suo contributo? Ma niente affatto. Egli non ha certo
sostenuto il conservatorismo ecclesiastico, al contrario ha dato e dà sostanziale
sostegno a tanti di noi nella nostra esperienza conciliare. Senza contare l’ispirazione
che ha offerto e offre a tante sperimentazioni di rinnovamento della educazione e
della scuola, a cominciare dal grande movimento delle scuole popolari che nacque negli
anni sessanta ed esplose dopo il ’68.

Don Milani era lontano da esperienze come quelle delle comunità di base. Esse sono
caratterizzate nell’opinione comune come antiistituzionali, contro la gerarchia. Ma
non è vero. L’impegno delle comunità di base è per creare una circolarità di vita
cristiana, per fondare la comunità cristiana su di un rapporto fra persone uguali
quanto a diritti, dignità e potere. All’interno della circolarità comunitaria hanno posto
i ministeri che sono un servizio e non un potere.

Tutto questo non è che l’attuazione coerente del Concilio che ha tolto dal centro della Chiesa
la Gerarchia e vi ha posto il Popolo di Dio, operando una vera e propria rivoluzione copernicana.
Don Milani non aveva interesse per queste riforme conciliari. Anche se talvolta ne discuteva con i
ragazzi della scuola, subendo non di rado le loro critiche e contestazioni. E’ una delle
sue contraddizioni. Perché l’emergere delle culture popolari richiede oggettivamente
il superamento del sistema fondato sulla centralità della Gerarchia in favore di un
ordinamento comunitario: la Chiesa comunità di comunità.

Mentre in questo don Lorenzo è fermo al pre-Concilio. Solo il prete ha il potere di
sciogliere e di legare: la parola, le coscienze e la sorte eterna. Il vero maestro, per lui,
non può che essere il prete perché egli solo ha la Parola capace di rendere autentiche tutte le altre parole.

E al tempo stesso il vero prete non può che essere maestro. Perché il possesso della
parola umana è la chiave per aprire l’accesso alla Parola divina, e quindi il prete può
annunciare il Vangelo solo dopo che ha insegnato la lingua in cui la Parola è incarnata.

L’identificazione prete-maestro è adombrata anche dall’ideale di vita che Lettera a
una professoressa propone a tutti gli insegnanti: “la scuola a tempo pieno presume una
famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che
avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti senza orario…. L’altra soluzione è il
celibato…

Per i preti la Chiesa l’ha capita circa mille anni dopo la morte del Signore”.
Il priore di Barbiana non era in sintonia con le comunità di base eppure la comunità di
vita e di studio a cui ha dato vita era molto simile a una comunità di base, non nelle
intenzioni ma certamente nella pratica: una pratica (fortunatamente) contraddittoria
come lo è sempre la realtà della vita.

E’ per questo che io sento vivo Lorenzo, lo sento attuale, perché è vivo e attuale il
processo storico di umanizzazione sociale dal basso al quale egli ha dato il suo prezioso
contributo.

(per un approfondimento: www.comunitaisolotto.org)