Cattolicesimo senza concilio

intervista ad Alberto Melloni
in “Liberazione” del 27 gennaio 2009

Per alcuni è stata la grande occasione perduta, la rivoluzione fallita. Per altri, soltanto uno sbuffo di
Satana insinuatosi nella Chiesa per qualche fessura, un cedimento alla modernità, un atto di
apostasia. Il Concilio Vaticano II ha messo paura, ne mette ancora, tanto che la Chiesa continua a
dibattere se gli accenti vadano messi sul carattere di evento e di discontinuità di quella svolta
oppure sulla continuità con la Tradizione. Lo stesso pontificato di Benedetto XVI ha riaperto, più
che risolto, l’inquietudine della Chiesa postconciliare. La revoca della scomunica a quattro vescovi
lefebvriani di pochi giorni fa non chiude il discorso. Ma l’occasione è di quelle buone per tracciare
un bilancio sul rapporto di questo Papa con la svolta conciliare e sulla linea interpretativa adottata.
E’ ancora immaginabile che questo sarà il Pontefice in grado di realizzare l’unità nel pluralismo
interno alla Chiesa? Cosa resta delle aspettative che suscitò all’inizio del suo pontificato quando
ricevette a Castelgandolfo tanto Bernard Fellay – il successore di Lefebvre a capo della comunità di
Econe – quanto il teologo conciliare Hans Küng? Non molto a giudicare dai passi fin qui compiuti
in direzione dei tradizionalisti. Non è solo la riabilitazione dei lefebvriani in gioco, ma anche
l’accettazione di pratiche care agli anticonciliaristi, dal ritorno in auge di liturgie del passato e della
messa in latino alla ricollocazione del Concilio in un continuismo senza storia a tutto svantaggio
delle cesure e delle svolte che esso rappresentò.
Chi ha paura del Vaticano II? titola un volume di diversi autori, curato da Alberto Melloni e
Giuseppe Ruggieri, il primo docente di storia del Cristianesimo all’università di Modena-Reggio
Emilia e direttore della Fondazione Giovanni XXIII di Bologna, il secondo docente di teologia
fondamentale nello Studio teologico di Catania, nonché direttore della rivista “Cristianesimo nella
storia”. Il libro (Carocci, pp. 152, euro 16,50) dà prova di grande attualità, non solo per il
cinquantenario dalla convocazione del concilio, ma anche per la coincidenza con la revoca della
scomunica ai lefebvriani – atto, anche questo, legato alla ricorrenza. La tesi centrale è che il concilio
non sia né un’occasione perduta, né un evento chiuso nel suo passato. «E’ stata ed è una realtà
dinamica, come accade ai grandi concili e ai concili che proprio per questo si qualificano come
maggiori: perché sfuggono alle categorie tese ad afferrarli», scrive Alberto Melloni al quale
abbiamo chiesto di commentare le scelte di Benedetto XVI.
Agli inizi del suo pontificato Benedetto XVI invitava il teologo conciliare Hans Küng. Ora,
invece, revoca la scomunica ai lefebvriani. Torna il primato della tradizione a svantaggio della
rottura del Concilio? E’ un giudizio troppo netto?
Le posizioni di Ratzinger sul Vaticano II sono stabili ormai da tanto tempo, fondamentalmente dalla
fine del concilio. Nel discorso alla Curia del 2005 che fece tanto rumore, Benedetto XVI sollevò
una polemica sullo svolgimento del post-concilio. Ma non era una novità. E’ un rapporto tormentato
col tema dell’ermeneutica conciliare, cioè col problema di come si leggono le novità fattuali del
concilio rispetto a un’idea ecclesiologica – per lui molto importante – della permanenza e
dell’immutabilità del soggetto-chiesa. E’ chiaro che la questione è molto più facile dalla prospettiva
di uno storico che non da quello di un teologo. Dal punto di vista storico in ogni evento, figurarsi in
un concilio, esistono elementi di continuità e di discontinuità. Il vero problema dopo questo atto di
revoca della scomunica di pochi giorni fa è di (cogliere) dove il desiderio di chiudere lo scisma con
i lefebvriani sta portando la Chiesa di Roma. Dal sostegno molto condizionato che monsignor
Fellay e i suoi seguaci hanno offerto al Papa si ha come l’impressione che si voglia mettere tra
parentesi il Vaticano II, che si dica che il cattolicesimo può essere tale anche senza il concilio.
Secondo me questa è una prospettiva nella quale difficilmente la Chiesa si può riconoscere.
Prevale la linea “continuista” con tanto di annacquamento delle cesure. D’altra parte, anche
questa rottura con la Tradizione di cui i lefebvriani hanno accusato i conciliaristi, viene
articolata nel libro. E’ proprio netto il taglio con la tradizione nel Vaticano II?
Il motivo interessante contenuto nel volume è l’affermazione di un dato molto noto dal punto di
vista storico e teologico. Vale la pena ricordarlo. Ogni volta che nella Chiesa si consuma una svolta,
questa è fatta per essere fedeli alla Tradizione, non per allontanarsene. E’ curioso, perché in fondo
l’accusa di “continuismo” era ai tempi del concilio di Trento l’accusa regina dei protestanti. Ai
cattolici si rimproverava di aver fatto un concilio ma per riproporre la stessa zuppa. La polemica dei
protestanti stava nel dire che la Chiesa cattolica non era capace di una riforma nella permanenza del
suo soggetto. Invece lo sforzo di Trento e del Vaticano II è stato esattamente il contrario, cioè di fare
i cambiamenti che erano necessari perché la Chiesa conservasse e migliorasse la sua fedeltà al
Vangelo e all’atto di fede. Qui si collocano le cose che oggi vediamo con preoccupazione,
soprattutto che in questo atto di grazia compiuto dal Papa si possa nascondere – non credo da parte
(di chi lo opera), ma da parte di chi lo riceve – un tentativo di legittimare cose inaccettabili come il
rifiuto della libertà religiosa e, addirittura, l’antisemitismo.
Il concilio aveva a che fare con il suo tempo, con gli anni ’60. In questo senso appartiene al
passato. Voi, autori del libro, ne sostenete l’attualità. Cosa può insegnare alla Chiesa,
soprattutto riguardo al suo rapporto con la modernità?
Bisogna smetterla con la favola che gli anni Sessanta erano facili. La calce del Muro di Berlino era
ancora fresca, la decolonizzazione rappresentava il motivo principale delle guerre in quel momento
combattute, in Vietnam cominciava il conflitto e la minaccia nucleare incombeva sul mondo. Non è
che noi siamo proprio la generazione più sfortunata negli ultimi due secoli. L’aspetto più rilevante
del concilio, secondo me, non è questo o quel tema che riguardasse la modernizzazione dei
linguaggi o della dottrina, ma il fatto che la Chiesa si rendesse conto che dentro la sfida della
modernità ci sono una quantità di rischi e pericoli da essa ritenuti inaccettabili, ma anche grandi
occasioni. In quel tempo venivano avanti la richiesta di indipendenza dei paesi sotto dominio
coloniale, le aspirazioni dei giovani, l’emancipazione delle donne e così via. Ci si rende conto che
in questo grande cesto della modernità che la Chiesa riteneva fino ad allora pieno di cose impure,
c’erano anche tante altre cose che corroboravano l’aspirazione alla pace del Vangelo. E’ l’aspetto
che più d’ogni altro ha restituito alla Chiesa cattolica del secondo Novecento un’autorevolezza e
una credibilità che vanno ben oltre i suoi confini. Questo le ha permesso in vari momenti – l’ultimo,
l’opposizione di Wojtyla alla guerra di Bush – di parlare a milioni di persone in tutto il mondo al di
là di tutti i confini culturali e religiosi possibili.
La Chiesa conciliare faceva un investimento sul proprio tempo. Lo viveva non solo come
foriero di minacce, ma anche come carico di energie creative. Nel pontificato di Benedetto
XVI pare, invece, che prevalga una dimensione catastrofica come se la modernità,
abbandonata a se stessa, no
n lasciasse spazio a speranze. E’ giusto?
C’è sempre una tentazione che in Italia, per ragioni di prossimità, è più forte che in altri paesi, cioè
l’immaginare che Chiesa e Papa coincidano. Come se gli stati d’animo del Papa costituissero tutto
ciò che la Chiesa è. Fra i due poli, fra la vastità del cattolicesimo – gerarchico e non gerarchico,
vescovi e laici inclusi, da un lato, e il centro del suo governo romano, dall’altro, esistono sempre e
comunque scambi e tensioni. Nel pontificato di Benedetto XVI ci sono senz’altro elementi di
durezza rispetto alla modernità, ma ci sono anche elementi di grande indulgenza nei confronti di
essa. A me colpisce la differenza con Paolo VI il quale si trovò in molte circostanze in un mondo le
cui tendenze progressiste o rivoluzionarie avevano un grande credito pubblico. Per questo dovette
varie volte agire in contropiede rispetto alla realtà culturale. Il pontificato di Benedetto XVI, invece,
si è aperto in un mondo in cui prevale il conservatorismo. Molti suoi atteggiamenti vanno nel senso
di una condiscendenza con il clima del mondo contemporaneo. Nella messa in Vaticano con il
presidente Bush che al momento era l’uomo più potente – l’uomo che aveva mancato di rispetto al
suo predecessore Giovanni Paolo II – il comportamento di Benedetto XVI è stato molto
condiscendente, dovuto a una sintonia culturale e politica tra i due.
Il concilio Vaticano II resta ancora aperto nonostante quel che possa pensarne Benedetto
XVI?
E’ avvenuto anche per i grandi concili del passato le cui conseguenze decisive continuavano a
essere ignorate anche a decenni di distanza. Non mi meraviglia che oggi il Vaticano II sia oggetto di
discussione. E’ un segno che la sua fecondità dura nel tempo e durerà finché un altro concilio non
richiamerà la comunità della Chiesa a riflettere su stessa. La sua vitalità non è tanto quella di un
ipotetico seme che deve germogliare, ma quella di un lievito che oggi fermenta la pasta della
Chiesa. Paradossalmente quando i lefebvriani oggi vengono riammessi, usano un primato della
misericordia che è esattamente un portato del Vaticano II. Nella Chiesa che loro rimpiangono
sarebbero stati polverizzati. Sono come gli antidemocratici che si godono la democrazia.