Il Vaticano II è stato solo una svolta sopravvalutata dai cattolici

di Kurt Flasch, filosofo e medievalista tedesco
in “Le Monde” del 22 febbraio 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

Nei paesi di lingua tedesca, e anche altrove, regna l’indignazione. Particolarmente in Germania
molti deplorano che proprio un papa tedesco sia stato colui che ha aperto le porte della sua Chiesa al
ritorno di un negazionista notorio. Ciò ha addirittura risvegliato il sospetto di un possibile
antisemitismo del papa stesso. Ma la vera questione non è quella, e ne nasconde altre, ben più
importanti.
È chiaro come l’acqua di sorgente che il papa non ha niente a che vedere con il razzismo né con
l’antisemitismo. Lo ha riaffermato lui stesso e questa certezza era acquisita da tempo. Lo si deduce
tanto dalle sue convinzioni filosofiche che politiche. Rimettere sul tappeto questo problema è sia
sciocco che controproducente.
Tuttavia ciò non significa che non sia successo nulla. Lo scandalo c’è e come. Dei cristiani di base
sono in rivolta, aumentano i credenti che lasciano la Chiesa cattolica; il malcontento ha raggiunto
perfino i prelati tedeschi ordinariamente docili. L’indignazione è ancora più forte rispetto a quella
suscitata dall’infelice discorso di Ratisbona. Allora, il papa, convinto del carattere razionale della
sua fede, intendeva fare un’offerta di dialogo all’islam e a tutti gli uomini di buona volontà. Ma da
professore che ha in mente un riferimento originale e cerca di proporlo ad ogni costo, si è affrettato
a lasciare da parte la proposta per presentare la sua sintesi, cioè l’elogio di una sterile ragione di stile
“greco” – che del resto non è mai esistita e si oppone alla maggior parte dei pensatori cristiani che,
fin da Duns Scoto (1268-1308), operano una separazione netta tra filosofia e teologia.
I musulmani si sono sentiti feriti dalla citazione offensiva nei loro confronti, espressa verso il 1400
da un imperatore bizantino! Dei protestanti attenti si sono considerati esclusi dal cristianesimo
autentico; la modernità nel suo insieme era votata al disprezzo. La costernazione è stata generale.
Anche chi concedeva al Santo Padre il beneficio della buona intenzione ha visto i disastri ovunque.
Anche con gli integralisti, le intenzioni del papa erano eccellenti. Lui stesso e i suoi difensori
affermano che, revocando le scomuniche dei quattro vescovi della Fraternità San Pio X, aveva in
vista esclusivamente la restaurazione dell’unità della Chiesa. Invece, anche in questo caso, tale
riabilitazione lascia l’unità della Chiesa in uno stato più pietoso di prima. Il papa si sente
sufficientemente rassicurato dalle sue buone intenzioni e dalla sua competenza di teologo: del
mondo a cui si rivolge ha solo una visione imprecisa, che nessuno rettifica per lui. È circondato da
una gigantesca amministrazione che non gli serve a niente.
Né lascia che la curia gli si avvicini, né tanto meno i suoi esperti riescono ad impedire al loro capo
di gettarsi nella bocca del lupo. Ieri, a Ratisbona, non ha riflettuto né sul senso né sull’effetto del suo
attacco a Maometto. Oggi, non si è preoccupato un istante di sapere chi fossero i quattro integralisti
per i quali revocava il decreto di scomunica. Il risultato è disastroso.
Gli amici e gli zelanti servitori del papa scaricano tutta la colpa sul cardinale Tarcisio Bertone,
segretario di stato della curia romana o, ancor più, sul cardinal Dario Castrillon-Hoyos, incaricato
delle relazioni con gli integralisti. Ma lui ha almeno domandato la loro opinione? Che Richard
Williamson neghi l’olocausto era un fatto conosciuto da tempo. Da anni. Il 22 gennaio si è diffuso a
mezzo stampa; ed è il 24 gennaio che è stata resa pubblica la decisione papale. Quindi c’era stato
tutto il tempo, l’agio e l’opportunità di soppesare nei minimi particolari il pensiero di Richard
Williamson. ma sarebbe rimasto a lungo nell’ombra se il papa non avesse avuto l’idea di testare le
sue virtù di riconciliazione proprio su questo individuo! Ma il personaggio principale del dramma è
Ratzinger, non Williamson, e ancor meno la curia.
Certo, la difesa e la dimostrazione dell’unità della Chiesa rientrano nel dovere del suo pontificato.
Ma qual è il concetto di unità che sta alla base di questa corrente? È qui che sta il problema. È un
concetto ecclesiastico tradizionale, romanocentrico. L’unità con i cristiani d’Africa, con gli adepti
della teologia della liberazione e con i non-conformisti tedeschi preoccupa molto meno il papa della
riconciliazione con gli integralisti. Per questo spera di contare su dei solidi fondamenti che
nemmeno il Vaticano II ha eroso: la condanna, incessantemente avanzata, del relativismo, che cos’è
se non un altro modo di proclamare che fuori dalla sua Chiesa non c’è salvezza? Questo spiega
perché le sue offerte di “dialogo” siano immediatamente destinate a fallire.
Sì, Ratzinger prende le distanze dall’antisemitismo come dal tradizionale antigiudaismo della
Chiesa, ma mette avanti da sempre la sua rivendicazione di esclusività, come la Fraternità San Pio
X e come coloro che l’hanno preceduto. In questo si ricollega anche lui ad una lunghissima
tradizione antiliberale propria del cattolicesimo romano – che loro chiamano antirelativismo -, ad
una concezione del peccato, del battesimo e dell’unicità della Chiesa autentica. Da qui la prossimità
con gli integralisti. Da qui l’interesse che lui vede nell’avvicinarsi a loro.
Benedetto XVI, all’unisono con i suoi predecessori, afferma che l’infallibilità papale non si esercita
solo in circostanze straordinarie in occasione di decisioni riguardanti dei punti dottrinali, in altre
parole nel contesto ufficiale e fastoso della proclamazione di dogmi, ma anche nell’insegnamento
ordinario.
Cosa dice la formula? Ai cattolici, l’obbedienza in materia di fede è richiesta in tutto “ciò che, in
virtù della dottrina generale e abituale, è richiesto di credere come a un dogma rivelato da Dio”.
Al vescovo di Roma, il cattolico deve “l’obbedienza della volontà e della ragione”, anche quando
non parla ex-cathedra. Ne derivano l’esclusione teologica dell’ebraismo e dell’islam, la secolare
liturgia della messa in latino, nonché la credenza nel regno del demonio sulla terra, la concezione
agostiniana del peccato originale, e molte altre cose ancora.
Il teologo Ratzinger sa che, su tutti questi punti dottrinali, è molto più vicino agli integralisti che ai
suoi confratelli che ornano retrospettivamente il concilio Vaticano II di tutte le virtù. Certo, il
Vaticano II ha portato del nuovo per quanto riguarda la libertà religiosa e l’esegesi biblica, ma senza
nulla togliere al primato del vescovo di Roma né al primato della giurisdizione del papa.
Per il Collegio episcopale, il concilio ha realizzato delle svolte di poca importanza, teologicocosmetiche
insomma, senza dei veri effetti sul diritto canonico. Un’enorme propaganda unita ad una
messa in scena spettacolare hanno fatto apparire il Vaticano II più rivoluzionario di quanto non sia
stato in realtà, e la centrale romana lotta da decenni contro questa percezione che è piuttosto
autopersuasione.
È precisamente in questo contesto che sopraggiunge la molto unilaterale riconciliazione con gli
integralisti. Anche senza il vescovo Williamson, il ritorno della Fraternità nel grembo della Chiesa
avrebbe irritato e disgustato. Anche se il papa non era a conoscenza del negazionismo di un
Williamson, non poteva al contrario sfuggirgli che avrebbe colpito molti cattolici nella loro
sopravvalutazione spesso confusa dell’ultimo concilio. Questo lo ha deliberatamente considerato.
Il papa voleva assicurare l’unità della sua Chiesa, ma una unità forgiata sulla concezi
one
tradizionalista che è la sua. Lo stupore del mondo, l’irritazione dei cattolici riformisti, la collera
degli ebrei e le opinioni ed esternazioni di un signor Williamson erano per lui una cosa trascurabile.
Ed è per questo che ha trattato tutto ciò con disprezzo. Non si tratta quindi solo di un incidente di
percorso dovuto alla cattiva gestione dell’amministrazione romana. Il vescovo di Roma è proprio
rimasto fedele alla sua linea generale.