La solitudine del papa

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 13 marzo 2009

Persino per l’esperto direttore della sala stampa vaticana la lettera del Papa a proposito della
remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani “è un documento davvero inconsueto”.
Anche solo per questo, per essere una delle rare cose inconsuete (un’altra è stata ieri l’attacco
dell’Osservatore romano) provenienti da un’istituzione che ha la sua forza nella secolare
consuetudine, è degno della massima attenzione. Indirizzata ai vescovi della chiesa cattolica, questa
lettera papale si potrebbe definire una mini enciclica.
E se si aggiunge citando sempre padre Lombardi che “non vi è dubbio che la lettera sia sua dalla
prima parola all’ultima” il documento assume un valore su cui davvero vale la pena riflettere. Quale
sia stato l’obiettivo del papa nel redigerlo, lo dice egli stesso: “contribuire alla pace nella chiesa”.
Preso atto che nella chiesa la pace è turbata, il papa intende ristabilirla. Nessun dubbio che il
turbamento deve essere molto grande per spingere il papa a un passo così “inconsueto”, e io
aggiungerei clamoroso (non ricordo un documento analogo in tempi recenti). Ma di chi è la colpa
del turbamento della pace della chiesa? Il papa l’attribuisce a tre soggetti, a tre gruppi di “cattivi”: 1)
i lefebvriani; 2) i funzionari vaticani che non l’hanno informato del negazionismo di monsignor
Williamson; 3) quei cattolici che hanno protestato “con un’ostilità pronta all’attacco”.
Il primo gruppo di “cattivi” in verità rimane sullo sfondo: si sapeva già che lo erano, e anzi il senso
dell’iniziativa papale nel togliere la scomunica era precisamente quello di contribuire al loro ritorno
nella grande chiesa facendo loro accettare finalmente il Vaticano II. Il secondo gruppo di “cattivi”
sono quei dirigenti vaticani che hanno dimenticato di informare il papa su come stavano le cose
riguardo a mons. Williamson: “una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso
Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica”. Il papa riconosce che bastava
consultare internet per chiarirsi le idee (“seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante
l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema”) e
aggiunge “ne traggo la lezione che in futuro nella Santa sede dovremo prestar più attenzione a
quella fonte di notizie”. Benedetto XVI ammette inoltre un secondo errore della macchina vaticana
scrivendo che “la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in
modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione”. Egli vede quindi due errori,
uno di merito e l’altro di forma, della curia romana. La conseguenza è che l’organismo che avrebbe
dovuto dargli le informazioni necessarie e che invece non gliele ha date (il cui nome è Ecclesia Dei)
viene declassato e posto in diretta dipendenza dalla Congregazione per la dottrina della fede. Ma
anche per questo secondo gruppo di “cattivi” all’origine della “evidente sofferenza” papale non
sarebbe stato necessario scrivere una mini-enciclica: i panni sporchi, soprattutto in Vaticano, si
usano lavare in casa.
Eccoci dunque al terzo gruppo di “cattivi” all’origine del turbamento della pace della Chiesa e che, a
mio avviso, sono la causa vera e propria della lettera di Benedetto XVI: quei cattolici che hanno
protestato “con un’ostilità pronta all’attacco”. Il vero bersaglio della lettera papale sono quindi i
“protestanti” cattolici, cioè quei cattolici che in tutto il mondo hanno protestato per la revoca della
scomunica a monsignor Williamson. Ma il papa sa bene, e lo scrive con la consueta chiarezza che
contraddistingue da sempre la teologia di Joseph Ratzinger, che la protesta “rivelava ferite risalenti
al di là del momento”. La valanga di proteste di proporzioni mondiali che ha portato Benedetto XVI
a una “evidente sofferenza” (per citare ancora padre Lombardi) è sì partita a seguito del caso
Williamson, ma la neve che la costituiva si era accumulata da molto tempo prima. Qui non c’è la
possibilità di approfondire il discorso ma in conclusione vorrei sottolineare almeno due cose: 1)
Come ricorda lo stesso papa, la polemica intraecclesiale risale già ai tempi del Nuovo Testamento,
anzi io aggiungo che venne esercitata in prima persona da Gesù: il che significa che la polemica e la
franca discussione non sono un male in sé, se si svolgono in modo aperto, con argomenti precisi e il
più possibile razionali, esponendo se stessi col proprio nome e cognome, lottando sempre per la
verità e soprattutto senza astio personale. Io penso che occorre tornare alla franchezza di rapporti e
di parola (“parresia”) tipica della Chiesa apostolica, e che solo così la Chiesa tornerà a essere
affascinante per gli uomini d’oggi, i quali possono rinunciare a tutto ma non al pensare con la loro
testa. Certo, come dice il papa vi è il rischio di una “libertà mal interpretata”, ma è un rischio che
non si può evitare se si vuole avere a che fare con il nostro tempo. Ciò che dimostrerà se la libertà
sia stata bene o male interpretata sarà la capacità di generare bene, giustizia e unità.
2) Fa bene il papa a preoccuparsi di ricucire lo strappo con la comunità lefebvriana, ma allo stesso
modo mi permetto di chiedere se non dovrebbe volgere le sue attenzioni anche allo “scisma
sommerso” che riguarda milioni e milioni di laici. Se qualche migliaia di religiosi lefebvriani hanno
tale importanza ai suoi occhi, quanto più ne dovrebbero avere gli innumerevoli laici cristiani che si
sentono lontani da una Chiesa spesso troppo rigida e fredda (si pensi per fare solo un esempio ai
divorziati risposati cui vengono negati i sacramenti). E poi perché tanta comprensione per i
lefebvriani, e insieme tanta durezza e intransigenza per quei vescovi, quei preti e quei teologi che
cercano di conciliare il Vangelo con le esigenze della postmodernità?
Concludo dicendo che la lettera di Benedetto XVI ha dei punti magnifici, come quando afferma il
primato della spiritualità col dire che per la Chiesa “la priorità al di sopra di tutte è rendere Dio
presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio”; oppure quando loda l’ecumenismo,
il dialogo interreligioso, la dimensione sociale della fede. È questo il papa di cui abbiamo bisogno e
lui non deve temere quei cattolici che protestano con franchezza e onestà intellettuale contro alcune
decisioni, perché così dimostrano di amare ancora la Chiesa. Il giorno in cui non protestassero più,
sarebbe solo indifferenza.