Il papa e i muri

di Enrico Campofreda
da www.aprileonline.info

I muri sono stati il simbolo del viaggio di Benedetto XVI in Israele e Palestina. Quelli trovati, quelli da abbattere, quelli creati. Il raccoglimento del papa in preghiera davanti al sacro e simbolico Muro del Pianto ha rappresentato il suo avvicinamento religioso all’ebraismo, come le visite al memoriale della Shoah e al museo Yad Vashem sono stati momenti di riconoscimento storico e politico dello strazio subìto sett’anni or sono da questo popolo. Tutto per spazzare via i dubbi di antisemitismo che vescovi negazionisti alla Williamson hanno seminato in seno alla Chiesa cattolica. Ma nella visita a Betlemme Ratzinger non ha potuto fare a meno di ricordare quel Muro voluto da Sharon e un po’ da tutto l’establishment israeliano che sta soffocando le vite degli abitanti della Cisgiordania. Separandoli fra loro, creando quella condizione di apartheid di cui con pervicacia Israele nega l’esistenza. Come l’immagine dell’uomo in bianco che infila la supplica fra le pietre millenarie ha fatto il giro del mondo anche la sua marcia sotto gli otto metri di cemento e torrette sono finite sui media internazionali. E le parole contro quell’assurda, umiliante divisione che impedisce il processo di pace.

Per questo i governanti israeliani col premier Netanyahu in testa, che per uscire dall’isolamento diplomatico avevano perorato la visita, ora alzano un ulteriore muro verso la mediazione del papa cattolico. Nell’incontro di commiato dall’illustre ospite, inframmezzato a un viaggio a Charm el Sheikh e un colloquio con Abdullah II, il capo del governo di Gerusalemme pur fra sorrisi ha lanciato un esplicito segnale di chiusura verso il processo dei due Stati. Col “Non vogliamo accanto una nazione terrorista” Netanyahu taglia qualsiasi concessione a riconoscimenti paritari verso l’autodeterminazione palestinese. La posizione di chiusura dovrà essere ripetuta lunedì davanti al presidente statunitense Obama che lo attende alla Casa Bianca, vedremo se in quest’occasione la linea s’ammorbidirà attuando la solita tattica israeliana del finto accordo disatteso nel tempo. Certo è che con l’Iran capace di stupire gli ex nemici americani e liberare la Saberi e un Libano dove nelle elezioni delle prossime settimane si potrebbe riscontrare l’avanzata politica di Hezbollah l’intransigenza assoluta abbozzata da Netanyahu non potrà che subire censure oltreoceano.

Eppure a commento del viaggio papale anche i media più aperti d’Israele hanno rilanciato posizioni a tesi mescolando il volgare negazionismo col richiamo alla giustizia mostrato, pur con toni decisi, da voci vaticane come quella del cardinale Martino. Il suo richiamo al “grande campo di concentramento” che è diventato Gaza veniva contestato e definito una menzogna antisemita alla stregua delle posizioni di Williamson. Il Jerusalem Post, ad esempio, ha marchiato come indecenti falsità le affermazioni di Martino ricordando che in dieci anni i gazesi sono aumentati del 40% e chiedendosi se questa sia una comunità vittima di genocidio. Si è anche domandato quale oppressore facesse giungere acqua, viveri e medicinali ai propri “detenuti”. Domanda retorica ed essa stessa lontana dalla realtà visto che a quattro mesi dai massacri di ‘Piombo fuso’ un embargo lungo tre anni sta proseguendo, come proseguono gli ostacoli quotidiani al trasporto di generi di prima necessità che le organizzazioni umanitarie veicolano verso la Striscia e Tsahal puntualmente blocca.

Manipolazioni o lenti oscurate da parte di questo media come la storia d’un apartheid a suo dire inesistente perché in Israele “gli arabi non sono esclusi da ristoranti, cinema o piscine e sono al contrario rappresentati alla Knesset e nella Corte Suprema”. Peccato non si tenga conto del ‘patto di fedeltà’ lanciato e mai smentito dall’attuale ministro degli esteri Lieberman con cui si vorrebbe piegare la comunità araba d’Israele ai voleri del sionismo pena l’espulsione nei Territori occupati o nei campi profughi d’altri Paesi. Né si fa cenno alle condizioni di segregazione che i palestinesi vivono non solo a Gaza ma in ogni angolo della Cisgiordania sottoposto a controllo dell’esercito, a terreni recintanti e incoltivabili, vie di comunicazioni interdette, case demolite, quartieri spezzati dalle cento Ma’ale Adummim della speculazione edilizia e politica come a Gerusalemme est. Prigionieri a Hebron, dove settemila coloni facinorosi e armati giunti trent’anni fa e spalleggiati da migliaia di soldati, provocano ogni giorno centoventimila arabi residenti da generazioni in quei luoghi. Se il dialogo fra sordi continuerà su questi toni lunedì Obama avrà un compito improbo, ma Israele nella sua cecità può rischiare di perdere i contatti con la politica reale.