Ma la verità è Cristo

di Jean-Jacques Peyronel
in “Riforma” – Settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste Metodiste e Valdesi

Se, come credo, l’intenzione di Benedetto XVI era di fare una rivisitazione delle «tre virtù
teologali», fede, speranza e carità (I Corinzi 13,13) all’inizio di questo terzo millennio, mi aspettavo
molto di più, per questa terza puntata della trilogia, da questo «papa teologo», come lo chiama quo-
tidianamente un noto vaticanista. Anche in questa, beninteso, ci sono spunti molto belli e
ampiamente condivisibili, come il passo sulla Trinità e sulla centralità della relazione nella vita
cristiana.

Eppure, anche in questa, manca, a mio parere, un certo afflato teologico. Già nella prima,
Deus caritas est, il famoso «inno all’agape» di I Corinzi 13 veniva citato, quasi di sfuggita, soltanto
verso la fine di un’enciclica che avrebbe dovuto invece essere imperniata attorno ad esso. In questa
ultima, dopo aver letto le 127 pagine che dall’inizio alla fine parlano di «carità nella verità», viene
da chiedersi: «Che cos’è la verità?» per il papa. Questa domanda, che è quella che Pilato fece a
Gesù prima della crocifissione, mi sembra l’unica domanda seria che l’essere umano, credente o no,
possa e debba fare. E la risposta che dà il papa non mi convince. Non che la risposta evangelica non
ci sia, c’è fin dalla fine del primo paragrafo («Egli stesso, infatti, è la Verità», cfr Gv 14,6), ma poi,
per tutto il resto dell’enciclica, al posto della Verità che è Cristo, viene messa la Chiesa, il suo Magi-
stero, il suo corpo di dottrine e di morale («naturale»), il suo capo supremo, «infallibile» appunto.
Insomma, anziché affermare con forza la centralità di Cristo, si afferma, ancora una volta, la
centralità della Chiesa nello «spazio pubblico» e anche nella «politica».

E tutto ciò per esporre, senza mai citarlo esplicitamente, un «umanesimo integrale» che, com’è noto,
è il titolo dell’opera più nota del famoso filosofo francese Jacques Maritain, nato in una famiglia
protestante e laica, e convertitosi al cattolicesimo all’età di 24 anni per poi diventare un fervente
militante della famigerata «Action française» di Charles Maurras che fu duramente condannata da
papa Pio XI nel 1926. Solo che quando uscì, dieci anni dopo, Humanisme intégral, Maritain aveva
ormai rinnegato la sua precedente scelta reazionaria e integralista e aveva dato al suo pensiero, sulla
scia di una lettura approfondita di Tommaso d’Aquino, una svolta decisamente progressista, tant’è
vero che questo libro viene generalmente considerato come antesignano del Concilio Vaticano II.

Com’è noto, Maritain fu, insieme a Emmanuel Mounier, uno dei principali esponenti del
«personalismo comunitario» che, come dice il nome, poneva al centro la persona umana nella sua
unità di corpo e spirito (un pensiero, questo, limpidamente cristico). Ma per attuare questo
«umanesimo integrale» che doveva segnare un ritorno a un «umanesimo teocentrico» opposto
all’«umanesimo antropocentrico» della cultura moderna, Maritain proponeva di istituire una
«cristianità profana» e non più «sacrale» come quella medievale, distinguendo tomisticamente tra
spirituale e temporale, e dando a Cesare quello che è di Cesare, e cioè riconoscendo la piena laicità
dello Stato. E proprio in quel libro Maritain faceva la nota distinzione tra l’agire «in quanto
cristiani» e l’agire «da cristiani», come sono chiamati a fare i laici credenti impegnati nella sfera
politico-istituzionale. Sbaglierò, ma a me Benedetto XVI dà l’impressione di avere una visione
molto più integralista rispetto a quella di Maritain.

Ma la questione della «verità», sulla quale insiste tanto il papa, mi ha indotto a rileggere un sermone
di Paul Tillich che mi aveva molto colpito, intitolato «Che cos’è la verità?» (in Il nuovo essere,
Ubaldini editore, 1967), nel quale il grande teologo tedesco-americano affermava tra l’altro: «Gesù
non è la verità perché sono veri i Suoi insegnamenti. Ma i Suoi insegnamenti sono veri perché
esprimono la verità che Egli è», e ancora: «La verità che ci rende liberi non è né l’insegnamento di
Gesù né l’insegnamento su Gesù. Quelli che hanno chiamato l’insegnamento di Gesù “la verità”
hanno sottomesso gli uomini alla schiavitù della legge». Ora, «anche le parole di Gesù, se prese
come una legge, non sono la verità che ci fa liberi. E non dovrebbero essere impiegate come tali dai
nostri studiosi e predicatori e maestri di religione». Parole che probabilmente né Maritain né
Benedetto XVI condividerebbero.

È che, a differenza di Maritain, Tillich rimase protestante e lesse la Bibbia con occhiali protestanti.
Come lo era Jacques Monod, Nobel per la medicina nel 1965 (più
volte evocato nell’enciclica, ma mai esplicitamente nominato, come lo fu invece nel famoso
discorso di Ratisbona e in quello fatto nella conferenza di Quaresima a Notre-Dame di Parigi l’8
aprile 2001, discorso fortemente cristologico, sotto molti aspetti molto più convincente di quelli
successivi). È di Monod infatti, rampollo di una grande «tribù» ugonotta francese, il famoso best
seller del 1970 Il caso e la necessità, che sostiene scientificamente tesi agli antipodi di qualsiasi
visione creazionista, compresa quella moderna del «disegno intelligente» che il papa, nell’enciclica,
chiama «progetto intelligente».

Jacques Monod, a differenza di molti suoi zii e cugini, non era pastore né figlio di pastore
ma da laico qual’era assunse fino in fondo e laicamente la sua
responsabilità di scienziato, come aveva fatto prima di lui l'(ex) anglicano Darwin. Ambedue furono
eminenti esponenti di quella «cristianità profana» di cui parlava Maritain che, pur avendo fra i suoi
bersagli il «relativismo», aveva una visione pluralistica della «città cristiana». Ora, quella proposta
da questa enciclica per il millennio della «post modernità», basata sulla visione molto discutibile
che Ratzinger ha del rapporto fede-ragione, mi sembra un ritorno a una visione medievale, e cioè
pre-Riforma, della Chiesa e della cristianità.