IL MODELLO VALDESE

di Paolo Bonetti
da www.italialaica.it

Il rapporto fra religione e libertà della coscienza individuale è fondamentale per l’avvenire delle società cristiane, ma, più in generale, per tutte le società e le culture nelle quali la religione continua e presumibilmente continuerà a esercitare un ruolo pubblico rilevante. La laicità, in questo contesto, non è altro che il giusto e sempre difficile rapporto fra istituzioni religiose, istituzioni civili e libertà dei cittadini. Giustamente è stato detto da pensatori (Hegel, Croce) profondamente inseriti nella tradizione del cristianesimo occidentale, che il cristianesimo è la religione della libertà, poiché conferisce un valore primario alla soggettività del credente, lo libera dalla superstizione e dal ritualismo. Se questo è vero, va però subito aggiunto che occorre distinguere fra il cristianesimo della coscienza e il cristianesimo del dogma. A maggior ragione questa distinzione deve valere nei confronti di un’organizzazione ecclesiastica duramente gerarchica. C’è un fossato spirituale incolmabile fra il Dio che si coglie “in interiore homine” e il Dio che, per rivelarsi, ha bisogno di una mediazione ecclesiastica che trasforma l’incontro col divino che è nell’uomo, in ogni uomo, nel monopolio di una casta sacerdotale.

La piccola Chiesa valdese, di ascendenza calvinista, può essere per noi italiani, di prevalente per non dire esclusiva educazione cattolica, perfino quando ci dichiariamo atei, un esempio probante di come la fede religiosa possa pienamente conciliarsi con le istituzioni liberali. Quella dei valdesi è una fede che sgorga dall’interiorità, senza per questo chiudersi in se stessa, ma aprendosi invece a tutte le responsabilità della vita civile. In questo modo la religione diventa una grande energia morale al servizio dell’intera comunità e si fa sostenitrice del progressivo allargamento dei diritti umani, che non sono sanciti da una qualche legge di natura, ma nascono e sopravvivono soltanto per volontà di una coscienza religiosamente ed eticamente formata. In questo senso ogni battaglia per la laicità (e i valdesi stanno lì a ricordarcelo con il loro quotidiano impegno per le libertà civili in ogni settore della vita individuale e sociale) è una lotta che rafforza il sentimento religioso della vita, la consapevolezza che nessun uomo può restare chiuso nella ristretta cerchia dei pur legittimi interessi individuali. Combattere per i diritti degli altri, anche di coloro di cui non condividiamo le convinzioni e i costumi, è un’apertura verso quella religiosità che sta su un piano diverso e più alto rispetto a ogni scelta politica o partitica.

Contrariamente a quello che molti pensano, sviati da un’educazione religiosa esteriore e meccanica, essere religiosi non significa essere obbedienti e remissivi nei confronti di un’autorità esterna alla nostra coscienza, che si presenta con le stigmate apparenti e teatrali del sacro e fa calare dall’alto i suoi dogmi e i suoi precetti, proteggendoli magari con l’intervento del potere civile. La grande rivoluzione che la Riforma ha portato nel cristianesimo è stata l’abolizione di ogni mediazione ecclesiastica fra Dio e la coscienza individuale, l’interiorizzazione della fede anche attraverso la sobrietà del culto. Che poi le Chiese riformate abbiano spesso tradito questa radicale novità, non ne diminuisce l’importanza nella storia del cristianesimo. Su questo annuncio di autonomia della coscienza individuale nel rapporto con Dio, si è costruita (per opera di spiriti religiosi che si sono ribellati anche all’autoritarismo luterano e calvinista) la civiltà liberale e democratica nella quale ancora, seppure faticosamente, viviamo, in esso stanno le radici della buona modernità. Ogni arretramento su questo terreno, ogni negazione del primato della coscienza in nome di una verità autoritariamente imposta per sconfiggere il cosiddetto relativismo, non comporta soltanto il rischio di minare le fondamenta morali della società liberale, ma è una ferita immedicabile al cristianesimo come “religione della libertà”.

Coloro che temono la libertà individuale e parlano di relativismo e nichilismo sono, forse, uomini di poca fede, perché il messaggio cristiano non è fatto per i pigri e per i pavidi, ma per coloro (pochi o molti che siano) che affrontano il rischio mortale di una fede che combatte nel presente e guarda con speranza al futuro. Non si tratta di ostentare un fatuo ottimismo antropologico, contro il quale la migliore tradizione cristiana giustamente ci mette in guardia, ma di essere consapevoli che se si spegne negli uomini il lume della libertà (che può anche indurci all’errore) si spegne lo stesso sentimento religioso e la vita si irrigidisce in un piatto e sterile naturalismo. È davvero strano che le gerarchie cattoliche non facciano che parlarci di natura e ragione; ma esse non sono state chiamate a diffondere un rinnovato aristotelismo, ma la parola di Cristo, nuda e semplice, seppure diversamente modulata in duemila anni di storia. Forse dimenticano che, mentre Aristotele e Tommaso possono essere confutati dalle nuove scienze, come lo sono già stati più volte in passato, il Vangelo non teme queste smentite, perché le sue parole non si misurano con qualche paradigma scientifico. Come ha scritto Gianni Vattimo nel suo ultimo libro, “Addio alla verità”, il linguaggio del Vangelo non ci comunica qualcosa che “è dato nel mondo esterno”, qualcosa che “pretende di essere interpretato realisticamente”, ma parla a ciascuno di noi, e ciascuno di noi creativamente raccoglie e interpreta questa parola, di ciò che appartiene al significato intrinseco della nostra esistenza.