TEMA DI RIFLESSIONE: LA TRINITA’

da www.chiesavaldese.org

La dottrina trinitaria costituisce l’elemento caratterizzante della fede cristiana e non a caso è stato al centro del dibattito teologico nel corso della storia. Fondamentale per la fede cristiana matura è pertanto una riflessione adeguata di questo tema. Sul settimanale Riforma si è aperto un interessante dibattito che sottolinea l’attualità del problema e la sua importanza per una posizione di fede evangelica corretta. Il dibattito ha preso inizio da un articolo del prof. Paolo Ricca, a cui hanno fatto seguito la riflessione di Alessandro Esposito e quella di Agostino Garufi.

DIALOGHI CON PAOLO RICCA
Si può essere cristiani senza credere nella trinità?
da Riforma, 26 febbraio 2010

Come credente intendo essere una persona in ricerca, non però conformandosi ai dati acquisiti, che spesso hanno il sostegno dei dogmi, ma non quello delle indagini storico-esegetiche. Uno dei quesiti, tra i tanti, che desidero sollevare è quello relativo alla Trinità. Fonti mi dicono che la Chiesa valdese, nella sua confessione di fede del 1655, ha dato il proprio pieno assenso alla formula trinitaria, mentre in precedenza apparteneva alle Chiese Unitariane. Ora, nel Nuovo Testamento ci sono – è vero – formule trinitarie con la menzione esplicita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ma non vi si legge una sola parola a favore dell’unità delle tre «persone» menzionate: manca insomma l’affermazione che queste tre «persone» costituiscono un’unità. E nessuno finora è riuscito a spiegarmi questa figura di tre in uno o uno in tre. La mia domanda è questa: può essere cristiano a pieno titolo chi non abbraccia la confessione di fede trinitaria? Non è forse vero che nel primo periodo del cristianesimo questo problema non sussisteva? Giovanni Verbena – Torino

Il problema sussisteva, eccome! È esistito fin dagli albori del cristianesimo. Il problema era: come accordare la divinità di Gesù, creduta e confessata dai cristiani, con la divinità dell’unico Dio della fede ebraica? E come accordare la divinità di Gesù e del Padre con l’esperienza dello Spirito a Pentecoste, vissuta in tutto e per tutto come un’autentica esperienza di Dio? Per dipanare questo problema ci sono voluti più di tre secoli di discussioni accese e scontri teologici anche violenti, fino a che, nel concilio di Nicea del 325 fu stabilito come dogma, cioè come articolo di fede, la dottrina di Dio uno e trino insieme, nei termini seguenti: «Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. Ed in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato dal Padre, unigenito, della stessa sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre… E [crediamo] nello Spirito Santo…». Il concilio di Costantinopoli del 381 fece alcune aggiunte; la più importante riguarda l’articolo sullo Spirito Santo, che ora suona così: «[Crediamo] nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita, che procede dal Padre, e insieme al Padre e al Figlio dev’essere adorato e glorificato, che ha parlato per mezzo dei profeti». Il dogma trinitario venne imposto a tutta la cristianità come legge statale dall’imperatore Teodosio con un editto del 28 febbraio 380, nel quale si dichiara che «secondo la disciplina apostolica e la dottrina evangelica noi crediamo un’unica Divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in uguale maestà e pia trinità». Coloro che non credono nel Dio trinitario sono giudicati nell’editto stesso «dementi e pazzi», porteranno l’infamia dell’ «eresia», i loro locali di culto «non potranno chiamarsi chiese» e su di loro cadrà non solo la «vendetta divina», ma anche la «punizione» dell’imperatore. Così, da quell’anno, non credere nella Trinità divenne non solo una posizione eterodossa, ma un crimine politico di prima grandezza, punito con la pena di morte. Negare la Trinità equivaleva a negare proprio il Dio cristiano, la cui tipica fisionomia trinitaria lo differenziava nettamente dal monoteismo ebraico e, a partire dal VII secolo, da quello musulmano.

Nella chiesa antica e in quella medievale il dogma trinitario non sembra essere stato messo seriamente in discussione, tranne che da alcuni mistici presso i quali la Trinità resta in ombra, pur senza essere negata. Lo fu invece apertamente nel Cinquecento da una folta schiera di «antitrinitari» (un nome per tutti: Michele Serveto, bruciato a Ginevra nel 1553); molti erano italiani, e tra questi i senesi Lelio e Fausto Socini (o Sozzini) che, in Polonia, diedero vita a una vera e propria Chiesa Unitariana, ma, dopo una fioritura durata alcuni decenni, dovettero soccombere al potere dei gesuiti, che nel 1658 ne ottennero l’espulsione. Benché perseguitato, il «socinianesimo» si diffuse, come diaspora, in vari paesi d’Europa e negli Stati Uniti, dove esiste tuttora una Chiesa Unitariana, che nel 1961 s’è unita alla «Chiesa Universalista d’America» dando vita a una «Associazione Unitaria Universalista» che conta circa 200.000 membri. Il nostro lettore sostiene che certe fonti attesterebbero che anche i valdesi sarebbero stati, all’origine «unitari». A me questo non risulta. La «Professione di fede» di Valdo, per quanto può valere, è trinitaria.

Ma veniamo ai quesiti che il nostro lettore pone. Sono tre: il primo è se la dottrina trinitaria sia biblica oppure no; il secondo è se sia o non sia possibile essere cristiani senza credere nella Trinità; il terzo è se sia o non sia possibile spiegare in qualche modo questa dottrina.

1. È un fatto che la dottrina della Trinità non si ritrova tale e quale nella Sacra Scrittura. La parola «trinità» nella Bibbia non c’è. Il primo teologo cristiano che l’ha adoperata, anzi – a quanto pare – creata è Tertulliano (ca. 155 – ca. 225). Ma soprattutto, la categoria-chiave della dottrina trinitaria, cioè «sostanza» (il Figlio e lo Spirito sono dichiarati «della stessa sostanza» del Padre), non è una categoria biblica. Quanto all’altra categoria ricorrente quando si parla di Trinità, e cioè «persona» («un Dio in tre persone»), è fuorviante perché ha oggi un significato ben diverso da quello che aveva nel IV secolo. Allora significava la maschera che l’attore portava sul volto per interpretare un personaggio. Oggi invece significa un individuo, un soggetto unico e irriducibile ad altro. Perciò, dire oggi «un Dio in tre persone» fa pensare a tre divinità, una accanto all’altra, introducendo così una forma larvata di politeismo. Questa infatti fu una delle accuse rivolte al cristianesimo da illustri pensatori pagani: di avere, con la dottrina trinitaria, fatto rientrare dalla finestra quel politeismo che aveva cacciato dalla porta. Perciò la teologia tende oggi, a proposito di Trinità, a sostituire il termine «persona» con «modi di essere». Concludo dicendo che il linguaggio tradizionale della dottrina trinitaria lascia effettivamente a desiderare e dovrebbe essere ripensato; il suo contenuto però è assolutamente conforme al messaggio cristiano. La dottrina trinitaria è biblica nella sostanza, se non nella forma, anzi è il modo migliore, a mio giudizio, di rendere conto e confessare il Dio della rivelazione ebraico-cristiana nella sua inconfondibile originalità.

2. Al secondo quesito – se sia o non sia possibile essere cristiani se non si crede nella Trinità – risponderei tendenzialmente di no. Non vorrei però ridurre l’essere o il non essere cristiano all’accettazione o meno di una dottrina, sia pure centrale come quella trinitaria. Perciò sospendo la risposta e al nostro lettore, che – così almeno sembra – non crede nel Dio trinitario, chiedo in quale Dio crede, quale Dio confessa. «Nessuno ha mai visto Dio –dice l’evangelista Giovanni –; l’unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, è quello che lo ha fatto conoscere» (1, 18). È fondamentale che il Dio creduto e confessato dai cristiani sia quello rivelato da Gesù, e non un altro. Essere cristiani significa credere alla testimonianza di Gesù su Dio: chiamando Dio suo «Padre», si è rivelato come Figlio e come tale, al battesimo, ha ricevuto lo Spirito, che si è «fermato» su di lui (Giovanni 1, 32): il battesimo di Gesù, come ce lo descrivono gli evangeli, è stato un evento trinitario. È stato proprio Gesù a svelare con molta naturalezza, cioè senza forzature e senza minimamente rinnegare il suo monoteismo ebraico, la natura trinitaria di Dio, che non traspare solo dalle pagine del Nuovo Testamento, ma anche da quelle dell’Antico. Il Dio d’Israele, in tanti passi, è, per così dire, affiancato dall’«angelo dell’Eterno» (Esodo 3, 2!), che è il suo alter ego; in altri passi si parla addirittura di «un uomo» (Genesi 32, 24-32), che lotta con Giacobbe come controfigura di Dio, anzi come Dio stesso (v. 28!). E nell’Antico Testamento ci sono dei passi sullo Spirito Santo altrettanto «pentecostali» quanto quelli del Nuovo. Il monoteismo biblico è, per così dire, popolato da molte presenze e per quanto mi riguarda non conosco una dottrina di Dio più bella, più profonda, più accattivante e convincente della dottrina trinitaria. Ma essere cristiani, cioè credere in Gesù, significa anche, come lui, fare la volontà di Dio. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore! Entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matteo 7, 21). I cristiani si riconoscono dai frutti più che dalle dottrine. Non saremo giudicati sulla base delle dottrine, ma su quella della fede e delle opere. Concludo dicendo che la fede cristiana è trinitaria, ma che, come insegna Matteo (25, 31-46), si può fare la volontà di Dio anche senza credere nella Trinità.

3. È possibile, o no, spiegare questa dottrina, che nessuno ha mai spiegato al nostre lettore? Spiegare forse no, ma illustrare forse sì. Ci provo. Ciascuno di noi è, al tempo stesso molte cose, pur essendo e restando una singola persona. A esempio, posso essere, al tempo stesso, figlio, padre e zio. Oppure piemontese, italiano ed europeo. O ancora credente (o non credente), cittadino (o immigrato), operaio (o contadino). E così via. Siamo, pur essendo uno, tante cose secondo le tante relazioni che compongono la trama della nostra vita. Ciascuno di noi è, al tempo stesso, uno e molteplice. Questo non compromette l’unità della persona, anzi l’arricchisce. Così Dio è uno e tre: Padre, Figlio e Spirito Santo, tre modi diversi di essere l’unico Dio. Non c’è separazione, né confusione, né contraddizione. C’è invece comunione. La dottrina trinitaria, in fin dei conti, vuol dire proprio questo: che Dio è comunione. E questa – mi sembra – è una buona notizia.
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La complessità della questione trinitaria
di Alessandro Esposito
da Riforma, 12 marzo 2010

Ci si può dire cristiani anche se si hanno riserve sul dogma trinitario. Bisogna considerare seriamente che «Gesù è il Figlio e non il Padre», come afferma il teologo Jon Sobrino

Ho letto con grande interesse e profitto la risposta che il professor Ricca ha fornito agli interrogativi del signor Giovanni Verbena circa l’annosa e complessa «questione trinitaria». Vorrei soffermarmi sui contenuti di tale intervento, sottolineandone gli aspetti indubbiamente apprezzabili così come le affermazioni che credo possano essere ritenute opinabili. Anzitutto, dunque, le considerazioni positive circa la consueta ponderatezza e profondità con cui il professor Ricca affronta l’argomento.

La genesi del dogma

In primo luogo, il professor Ricca ripercorre con estrema capacità di sintesi e onestà intellettuale la genesi storica del dogma trinitario, rimarcando senza tentennamenti il fatto che esso «venne imposto (…) come legge statale dall’imperatore». Per quanto, difatti, la disputa sia da considerare di natura teologica, la sua soluzione contemplò anche aspetti socio-politici: al punto che, come opportunamente ricorda Ricca, «non credere nella trinità divenne non solo una posizione eterodossa, ma un crimine politico». Credo si tratti di una sottolineatura fondamentale al fine di evitare impropri riferimenti alla «verità» stabilita dal dogma: parola, questa, che sarebbe opportuno utilizzare con più cautela, dal momento che le decisioni dei primi concili determinarono l’affermazione di un’interpretazione delle Scritture rispetto ad altre, non la sua incontestabile veridicità.

Un linguaggio da ripensare

In seconda istanza, il professor Ricca riconosce con schiettezza la necessità che «il linguaggio tradizionale della dottrina trinitaria (…) [venga] ripensato», tenendo in debito conto il fatto che «il suo contenuto, però, è assolutamente conforme al messaggio cristiano». Si tratta, in entrambe i casi, di affermazioni del tutto condivisibili: a patto che la conformità della dottrina trinitaria al messaggio neotestamentario non si traduca in una piena coincidenza che rivendica assolutezza.
Con l’umiltà che lo contraddistingue, poi, il professor Ricca afferma che, pur essendo personalmente dell’idea che non sia possibile dirsi cristiani senza credere nella trinità, non intende comunque «ridurre l’essere o il non essere cristiano all’accettazione o meno di una dottrina», giacché, come dice più avanti, «i cristiani si riconoscono dai frutti più che dalle dottrine». Trovo che questo sia un atteggiamento che, più di ogni altro, consente il dialogo, accoglie il dissenso quand’esso si riveli argomentato ed evita lo sterile arroccamento su posizioni contrapposte.
Vengo dunque ai punti che, a mio giudizio, potrebbero essere più attentamente discussi e approfonditi.

L’alba del cristianesimo

Che il problema della divinità di Gesù (non ancora la sua articolazione nella dottrina trinitaria), come sostiene il professor Ricca, sia stato sollevato sin dall’inizio della storia del cristianesimo, è senz’altro vero: questo rende necessario che non si trascuri la sua natura, per l’appunto, problematica. Ovverosia: è palese che, trattandosi di una vexata quaestio, di una questione controversa, la quale richiese addirittura la convocazione di diversi concili atti a dirimerla, il dubbio sussisteva. E sussisteva, chiaramente, in seno al cristianesimo primitivo, non al di fuori di esso. Ragion per cui sembra lecito supporre che almeno una parte del cristianesimo delle origini, in conformità alle sue radici ebraiche, non confessò Gesù come Dio. Questa posizione, inizialmente legittima, fu dichiarata eterodossa soltanto in seguito, giacché l’ortodossia venne configurandosi e definendosi progressivamente, nell’evolversi di un processo articolato, spesso conflittuale e, in ogni caso, tutt’altro che lineare. Pertanto risulta plausibile immaginare che, originariamente, vi fu una parte del movimento cristiano che non riconobbe la divinità di Gesù: non, almeno, nei termini stabiliti, successivamente, dai consessi conciliari, le cui decisioni, come abbiamo accennato, non furono determinate da ragioni esclusivamente teologiche.

Confessare Gesù come Dio?

Ecco perché ritengo, a differenza di quanto sostiene il professor Ricca, che sia possibile dirsi cristiani anche astenendosi dallo sposare senza riserve la prospettiva trinitaria, così come essa è stata formulata e codificata nell’arco dei primi concili. Pur essendo pienamente d’accordo circa il fatto che sia «fondamentale che il Dio creduto e confessato dai cristiani sia quello rivelato da Gesù», sono altresì persuaso che ciò non significhi, necessariamente, confessare Gesù come Dio. Al fine di chiarire tale affermazione, lascio che a prestarmi le parole sia il teologo cattolico salvadoregno Jon Sobrino, di recente sollevato dall’incarico di docente di Teologia sistematica proprio a motivo delle sue affermazioni cristologiche, giudicate non conformi all’ortodossia: «Bisogna considerare seriamente – sostiene Sobrino – il fatto che Gesù è il Figlio e non il Padre» [da: J. Sobrino, Cristologia desde America Latina, México, 1977, p. 296 – traduzione mia].

I due Testamenti

Vengo così all’ultimo rilievo critico: credo che sia piuttosto discutibile sostenere, come fa il professor Ricca, che «la natura trinitaria di Dio non traspare solo dalle pagine del Nuovo Testamento, ma anche da quelle dell’Antico». Ritengo che si tratti di una tesi piuttosto forzata, che rischia per alcuni versi di compromettere l’auspicabile educazione, in ambito cristiano, a una sensibilità progressivamente più attenta all’interpretazione ebraica delle pagine veterotestamentarie. Forse potrebbe rivelarsi più opportuno cogliere in tutte le Scritture il carattere eminentemente relazionale dell’unico Dio: ciò che consentirebbe, credo, di evitare l’appiattimento identitario proprio di una certa lettura del dogma trinitario, secondo la quale confessare che Gesù è il figlio di Dio (Mc 1, 1) coincide con l’affermare che egli sia il Dio-figlio.
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La divinità di Cristo non è controversa
di Agostino Garufi
da Riforma, 2 aprile 2010

Avevo già letto l’ottimo articolo del professore Paolo Ricca nei suoi «Dialoghi» sul n. 8 di Riforma dal titolo: «Si può essere cristiani senza credere nella Trinità?», che ho molto apprezzato e condiviso pienamente. Ora leggo sul n. 10 l’articolo del pastore Alessandro Esposito dal titolo: «La complessità della questione trinitaria», in cui questi, riferendosi al suddetto articolo del professore Ricca, innanzitutto si sofferma «sui contenuti», «sottolineandone gli aspetti indubbiamente apprezzabili»; poi rileva le altre affermazioni che egli ritiene «opinabili». Tralascio gli apprezzamenti che tutti condividiamo e vengo a quelli che a suo giudizio sono «i punti che potrebbero essere più attentamente discussi e approfonditi».

Innanzitutto la vexata quaestio della divinità di Gesù, che egli ritiene «controversa chiaramente in seno al cristianesimo primitivo, non al di fuori di esso», supponendo «che almeno una parte del cristianesimo delle origini, in conformità alle sue radici ebraiche, non confessò Gesù come Dio». Non so da quali documenti originali egli abbia potuto trarre questa deduzione che, stando allo stesso termine da lui usato («supporre»), è una pura supposizione. Infatti i più antichi documenti cristiani che abbiamo, cioè gli scritti del Nuovo Testamento, attestano esattamente il contrario. Per non dilungarmi, non posso trascrivere qui tutti quei testi in cui è affermata la divinità di Gesù, veramente e pienamente uomo, nel quale la Parola creatrice di Dio, che era nel principio ed era Dio, si è incarnata, ma invito fraternamente questo collega e i lettori a voler riprendere in attento esame i seguenti passi dei documenti neotestamentari, appartenenti tutti al primo secolo dell’era cristiana. Anche e se si vogliono tralasciare i primi due capitoli di Matteo e Luca, cito Giovanni 1, 1-4. 14 [cfr. Ebr. 1, 1-4; Col. 1, 15-20 e 2, 9]; ancora Giovanni 8, 57-59; 10, 30-31. 38; 14, 6-11; 20, 28; e Giovanni 8, 24. 28. 58, dove Gesù si definisce «Io sono», cioè con lo stesso nome con cui Dio si è rivelato a Mosè (Esodo 3, 13-14). Inoltre i testi paolinici di Romani 9, 5 e Filippesi 2, 5-11.

In quest’ultimo, in sintonia con Giov. 1, 1-4 e 14, è detto che Gesù, prima di venire nel mondo, «era in forma di Dio» ed era «uguale a Dio» e che dopo il suo abbassamento fino alla morte in croce, risuscitandolo, Dio lo ha innalzato dandogli un nome che è al di sopra di ogni nome, perché ogni lingua lo confessasse quale Signore, nome che corrisponde ad Adonai, che gli ebrei usavano in sostituzione del nome di Dio, Jahweh, che non osavano pronunciare per puro timore riverenziale. E proprio una delle più antiche confessioni di fede cristiane è appunto: «Gesù Cristo è il Signore» (I Corinzi 12, 3). Aggiungo poi che non mi sembra trascurabile il fatto che Gesù è stato «adorato» (sic!) non solo dai Magi (Matteo 2, 2. 8. 11), ma anche da alcune discepole dopo la sua risurrezione (Matteo 28, 9), nell’epistola agli Ebrei (1, 6) dagli angeli e nell’Apocalisse (5, 6-10) da diverse creature celesti. Perciò, se Egli non è partecipe della natura divina, questi atti di adorazione sono atti di idolatria.

Certamente la parola «Trinità» non esiste in tutta la Bibbia – anche se Padre, Figlio e Spirito Santo sono associati nel Nuovo Testamento (Matteo 28, 19; II Corinzi 13, 13) – ed è vero che è stata coniata solo nella riflessione teologica posteriore, che ha cercato di definire, con il linguaggio del suo tempo, l’insondabile realtà dell’unico vero Dio che si è rivelato pienamente incarnandosi in Gesù Cristo, realtà che ci viene ampiamente attestata dagli scritti del Nuovo Testamento.

Circa poi l’affermazione del teologo salvadoregno Jon Sobrino che «bisogna considerare seriamente che Gesù è il Figlio non il Padre», che Esposito cita e fa sua, non capisco il perché della rilevazione di tale ovvietà presente non solo nel Nuovo Testamento ma anche nelle stesse formulazioni conciliari di cui sopra, nelle quali non è detto affatto che il Figlio è il Padre, ma che è «distinto» dal Padre, pur essendo confessato come unito al Padre e in questo senso «consustanziale» con Lui.

Concludo infine dicendo – ovviamente secondo me – che se Dio stesso non fosse venuto a visitarci concretamente, incarnandosi effettivamente nell’uomo Gesù, per essere veramente e pienamente l’Emmanuele, cioè «Dio con noi», noi saremmo ancora letteralmente «atei», cioè «senza Dio nel mondo» (Efes. 2, 12), nonostante l’accettazione dei suoi sublimi insegnamenti, perché in lui avremmo soltanto un grande Maestro e non il vero Salvatore, che lui può essere solo se è il Signore.