Antigiudaismo? La Chiesa non ha fatto i conti con la modernità

di Guido Caldiron
da Liberazione, 16 aprile 2010

Prima padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, ha parlato di un clima che ricorda il peggiore antisemitismo a proposito delle critiche verso il Papa per lo scandalo dei preti pedofili. Poi il vescovo emerito di Grosseto, mons. Giacomo Babini, intervenendo sullo stesso argomento ha sostenuto che contro la Chiesa è stato lanciato un “attacco sionista”: «Non vogliono la Chiesa, ne sono nemici naturali, in fondo, storicamente parlando, i giudei sono deicidi», oltre che, più o meno, responsabili della Seconda guerra mondiale. Nell’arco di pochi giorni il dibattito sul dramma della pedofilia nella Chiesa ha così lasciato il campo a un ritorno dei temi antiebraici che hanno per lungo tempo caratterizzato il mondo cattolico. A Piero Stefani, docente di Filosofia della religione all’Università di Ferrara e Direttore scientifico della Fondazione del Museo Nazionale dell’ebraismo Italiano e della Shoah, sempre a Ferrara, nonché autore di molte opere dedicate a questo tema e alla storia di cristianesimo e ebraismo – tra cui Tradimento fedele. La tradizione ebraica provocazione per il cristiano (Edb, 1983), Il nome e la domanda. Dodici volti dell’ebraismo (Morcelliana, 1988), L’Antigiudaismo. Storia di un’idea (Laterza, 2004) e Le radici bibliche della cultura occidentale (Bruno Mondadori, 2004) – abbiamo chiesto di aiutarci a capire cosa sta succedendo.

Le dichiarazioni di alcuni sacerdoti hanno riproposto negli ultimi giorni alcuni dei temi che hanno caratterizzato per gran parte della sua storia l’antigiudaismo della Chiesa, come se le aperture operate dal Concilio Vaticano II a metà degli anni Sessanta non fossero poi sentite così profondamente. E’ così?

Per rispondere appieno a questa domanda si devono considerare le cose su più livelli. In linea di massima direi che la svolta rappresentata dal Concilio Vaticano II è stata recepita soprattutto rispetto a un rapporto “esterno” con il mondo ebraico: il dialogo con gli ebrei ha preso il posto dei pregiudizi e delle chiusure precedenti per la gran parte della Chiesa, compresi anche i protagonisti degli “infortuni” di questi giorni, e con la sola eccezione dei lefebvriani e di componenti del genere. Se però si esamina dall'”interno” il modo in cui, sulla scorta di un retaggio secolare, la Chiesa ha sempre concepito se stessa come il nuovo Israele e ha definito la propria identità rispetto agli ebrei, le cose sono più complicate: ci sono dei residui del passato che si sono sedimentati e che anche senza accorgersene possono riemergere. Infine, per spiegare quanto accaduto in questi giorni credo si debba anche tener conto del fatto che la Chiesa non sembra avere consapevolezza del modo in cui simili affermazioni sono percepite dai media e dall’opinione pubblica internazionale.

Proprio le affermazioni fatte da alcuni sacerdoti in questi giorni sembrano però mettere insieme il vecchio antigiudaismo di matrice religiosa con le invenzioni dell’antisemitismo moderno: si parla di complotto sionista per attaccare l’ebraismo. Non le sembra un salto di qualità?

No, non mi sembra un salto di qualità. Nel senso che questa sovrapposizione di modelli, l’antisemitismo di retaggio moderno e l’antigiudaismo antico, ha in realtà una lunga storia alle spalle che inizia perlomeno alla fine dell’Ottocento. Già in quell’epoca l’evocazione della “congiura massonica” o di quella “bolscevica” erano presenti nei giornali antisemiti come sulla rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica . Perciò non si tratta né di una novità né di una cosa recente. Tutti i pontificati dell’Ottocento, anche all’epoca di Pio IX, sono stati segnati da quest’idea del “complotto ebraico”: gli ebrei che avevano preso parte al Risorgimento e alla fine dello Stato Pontificio. Citare oggi il sionismo rappresenta perciò solo una variazione più recente di un retaggio storico ben presente nella storia della Chiesa. Credo si tratti però di una sorta di retaggio involontario, ma il fatto che sia un’espressione non consapevole non rende le cose meno gravi, anzi, le aggrava.

Queste dichiarazioni si inseriscono nel clima all’insegna di una certa revisione degli esiti del Concilio Vaticano II che ha fin qui contraddistinto il pontificato di Benedetto XVI. Dopo che con Giovanni Paolo II la Chiesa si era aperta alla globalizzazione e all’ecumenismo oggi tutti gli sforzi sembrano concentrarsi sul ritorno alla dottrina. Un contesto che rende tutto possibile?

Indubbiamente c’è una linea di moderazione che si va affermando. Non si tratta tanto di un cambio di dottrina, quanto piuttosto di un equilibrio diverso tra dottrina e prassi. Al di là del suo profilo dottrinale, Giovanni Paolo II era capace di compiere dei gesti straordinari che andavano al di là della sua stessa teologia, basti pensare alla preghiera di Assisi del 1986 (svolta insieme ai rappresentanti di tutte le grandi religioni mondiali, ndr). Ratzinger, al contrario, non riesce a fare dei gesti che scavalchino la sua concezione teologica che non è né particolarmente “progressista”, né “conservatrice”: tutto resta fissato sulla dottrina. Così il precedente pontificato è diventato globale, anche perché ha assunto un ruolo crescente rispetto ai media, mentre oggi si assiste a una vera difficoltà nel comunicare che rende ancora più visibile il riemergere di alcuni antichi retaggi della storia della Chiesa. Solo per citare un dato che segnala questa difficoltà: l’ex direttore della sala stampa vaticana Navarro Valls non ha mai dovuto fare una sola smentita, mentre invece il portavoce dell’attuale Papa, Padre Lombardi, sì.

Una notevole difficoltà comunicativa caratterizza anche un altro punto caldo dell’attuale pontificato, quello legato all’esame storico del rapporto tra la Chiesa e il fascismo e in particolare ai “silenzi” di Pio XII sulla Shoah. Anche in quel caso i toni usati non sono sembrati segnalare una particolare apertura all’esterno, non crede?

A chi denuncia “i silenzi” di PIo XII sulla Shoah la Chiesa risponde che però dal punto di vista pratico ci fu sostegno e aiuto agli ebrei. Quanto alla dottrina, certamente più Pio XI, ma anche Pio XII almeno in parte, condannarono il razzismo e il totalitarismo. Quanto ai rapporti istituzionali tra Santa Sede e Stati totalitari, la politica concordataria di per sé legittimava invece lo Stato fascista. Non la natura della Chiesa, ma quella di soggetto internazionale propria della Santa Sede, ha probabilmente rappresentato un impaccio fondamentale a che fosse adottato all’epoca un linguaggio più duro e di maggiore denuncia. Detto questo, se Benedetto XVI prima di prendere in esame la causa di beatificazione di Pio XII avesse annunciato l’apertura degli archivi vaticani, forse molte polemiche si sarebbero potute evitare.

In conclusione, possiamo tornare a interrogarci su quanto abbia pesato nella storia della Chiesa l’antigiudaismo e quanto sia cambiato da questo punto di vista con il Concilio Vaticano II?

Ha pesato in maniera notevole, perché non si è trattato, per così dire, solo di definire il rapporto con una realtà esterna come l’ebraismo, quanto piuttosto di una delle linee lungo le quali la Chiesa ha costruito la propria identità. Una tradizione religiosa che si innesta su un’altra tradizione religiosa precedente, ha bisogno di legarvisi e di confutarla allo stesso tempo: il pendolo dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei può andare dalla simpatia all’ostilità ma non può mai limitarsi a una forma di indifferenza. Il Concilio Vaticano II ha prodotto una svolta nettissima rispetto a tutto questo, ma non si può pensare che in pochi anni si rielabori una visione totalmente diversa se da questa dipende la propria identità. Perciò nei prossimi anni credo si continuerà ad osservare un’oscillazione come quella a cui assistiamo oggi. Del resto, la Chiesa cattolica non ha ancora fatto fino in fondo i conti con la modernità.