Il potere e il vangelo

di Eugenio Scalfari
da www.repubblica.it

È dalla donazione di Costantino che la Chiesa si dibatte tra l’attuazione del messaggio di Cristo e la difesa del potere temporale

Molti specialisti di Vaticano e di Chiesa hanno commentato i cinque anni di pontificato di Benedetto XVI il cui anniversario è ricorso il 19 aprile. Io non sono uno specialista di questioni vaticane né ecclesiastiche. È tuttavia evidente che la storia di un’istituzione bimillenaria di dimensioni mondiali interessa tutti ed i laici in modo speciale. Perciò sono anch’io partecipe di questo interesse e mi varrò, per introdurre i miei ragionamenti, delle parole del cardinale Carlo Maria Martini, al quale mi sento da tempo legato da sentimenti di grande considerazione. Le pronunciò in un discorso all’Istituto delle Scuole Cristiane a Roma il 3 maggio del 2007. Disse così: “A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del Concilio di Trento, altri in quello del Concilio Vaticano I. Alcuni hanno bene assimilato il Concilio Vaticano II, altri molto meno, altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento”.

La diagnosi di Martini – uno dei principi della Chiesa la cui lealtà verso Benedetto XVI fu determinante nel Conclave che lo insediò al vertice della cattolicità – mi ha dato materia di ampia riflessione. La terapia proposta da Martini è “pazienza e discernimento”. Sono due parole generiche oppure contengono un profondo significato? Per comprenderne il senso m’è venuto alla mente il breve racconto che il cardinale mi fece in uno degli incontri che ho avuto con lui nel suo ritiro di Gallarate. Mi raccontò (l’ho già riferito a suo tempo) che nell’intervento da lui stesso pronunciato all’apertura del Conclave prima che le votazioni avessero inizio, ricordò ai suoi colleghi che compito del Conclave era l’elezione del Vescovo di Roma che in quanto tale avrebbe regnato sulla Chiesa come Pietro, vicario in terra del Signore. La prima e principale missione dei Vescovi della Chiesa apostolica è quella infatti di parlare alle genti proseguendo la predicazione evangelica e diffondendo la parola di Cristo. La missione pastorale. L’istituzione costituisce una sorta di guaina amministrativa, organizzativa, diplomatica, che custodisce il prezioso contenuto di quella predicazione. Detto più semplicemente: l’azione pastorale dei Vescovi è il fine, l’istituzione è il mezzo. Il fine deve sopravanzare il mezzo condizionandone l’azione e spetta al Vescovo di Roma mantenere la primazia del fine rispetto al mezzo.

Questa concezione tuttavia non ha quasi mai corrisposto alla realtà storica. La missione pastorale della Chiesa è sempre stata intensa e portatrice di frutti spirituali ed etici, ma la sopravvivenza e il rafforzamento dell’istituzione sono diventate, fin dai primi secoli, la preoccupazione dominante di quella che si chiamò la gerarchia ecclesiastica. “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre”, scrive Dante quando nella ‘Commedia’ affronta questo delicatissimo argomento. La donazione di Costantino fu il primo atto (vero o supposto importa poco) che dette base temporale al Papato e costituì il suo potere. Da allora la logica del potere è diventata il centro della Chiesa di Roma determinandone le scelte e relegando la missione pastorale in una posizione secondaria. Benedetto, Francesco d’Assisi, Gioacchino da Fiore, Antonio, Domenico e tutti i grandi santi che fondarono ordini mendicanti, concentrati nella predicazione o nella contemplazione e nella preghiera, conobbero le asperità di quel percorso e della convivenza con la gerarchia. I Papi furono innanzitutto i capi della gerarchia, i Vescovi si conformarono a quella prassi salvo casi sempre più rari.

Il Concilio tridentino dette forma moderna e funzionale alla Chiesa dentro la quale il brivido mistico diventò sempre più raro, la spinta verso la povertà sempre più sospetta, l’afflato comunitario sempre più fievole e i vizi propri del potere sempre più diffusi. Il Vaticano II ha rappresentato l’estremo tentativo di considerare il messaggio cristiano come un lievito da inserire nella cultura moderna, in una concezione pluralistica della società che preservasse la dignità della persona indipendentemente dalla sua fede religiosa. I diritti e i doveri della persona, la sua libertà, la sua responsabilità, la radice morale e l’amore del prossimo a confronto con l’egoismo e con la volontà di potenza. Questa visione metteva in discussione la gerarchia e il primato dell’istituzione. Perciò il Vaticano II fu dapprima frenato e poi reinterpretato; gli episcopati ricondotti entro la guida della gerarchia, gli equilibri ristabiliti all’insegna della continuità.

Il quinquennio di Benedetto XVI ha avuto finora questo significato. Lo scandalo dei preti pedofili è stato affrontato dal Papa con apprezzabile anche se tardiva severità; ma non ha inciso sul tema di fondo e non ha proposto la domanda decisiva: la Chiesa è il luogo dove si attua il messaggio di Cristo o dove si amministra in suo nome il potere della gerarchia?