SANTA CRISI, VATICANO AL VERDE

di Luca Kocci
da il manifesto, 8 agosto 2010

Senza l’aiuto dello Ior e le offerte dei fedeli, i bilanci vaticani virano verso la bancarotta. A trascinarli a fondo i costi della Santa sede e i conti in rosso dell’«Osservatore romano» e di Radio Vaticana

Santo Ior e benedetti fedeli. Perché senza la robusta stampella messa a disposizione dalla banca vaticana e le cospicue offerte provenienti dai cattolici di tutto il mondo, il Vaticano potrebbe dichiarare bancarotta. I bilanci di Oltretevere, infatti, per il terzo anno consecutivo sono in rosso. Un passivo meno consistente di quello del 2008, quando il saldo negativo complessivo era stato di 16 milioni di euro (l’anno precedente, invece, il buco fu di 2 milioni e 300 mila euro), ma ugualmente pesante: perdite per 12 milioni di euro, però abbondantemente sanate da una donazione dello Ior di 50 milioni, dal sostegno arrivato dalle diocesi cattoliche e dalle offerte dei fedeli per il cosiddetto Obolo di San Pietro che rimettono in sesto tutti i conti e consentono alle finanze del papa di godere di ottima salute.

I bilanci ufficiali dell’anno 2009 sono stati resi noti pochi giorni fa, a conclusione della riunione a porte chiuse del Consiglio dei cardinali per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede, presieduta dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e di cui fanno parte, fra gli altri, l’arcivescovo opusdeista di Lima Juan Luis Cipriani e gli ultraconservatori Antonio Maria Rouco Varela, arcivescovo di Madrid e principale animatore dei family day in salsa spagnola contro le politiche laiche di Zapatero, George Pell (arcivescovo di Sidney) e il neo prefetto della Congregazione per i vescovi, il canadese Marc Ouellet, arcivescovo di Québec.

La situazione peggiore riguarda la Santa Sede, cioè il governo centrale della Chiesa cattolica mondiale, che conta 2.762 dipendenti – di cui 1.652 laici – e che comprende tutti i dicasteri e gli organismi della Curia romana, l’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede (l’Apsa, che controlla l’enorme quantità di beni mobili e immobili di proprietà vaticana) e i mezzi di comunicazione. Nel corso del 2009 ci sono state entrate per poco più di 250 milioni di euro e uscite per oltre 254 milioni, con un disavanzo quindi di poco superiore ai 4 milioni di euro, mentre lo scorso anno le perdite erano state di soli 911mila euro. Ad incidere negativamente, oltre alle spese ordinarie e straordinarie della Curia, sono stati i costi per mantenere in piedi L’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede, e soprattutto Radio Vaticana, da qualche giorno di nuovo sotto accusa perché, secondo la perizia dell’Istituto tumori di Milano ordinata dal Gip Stefano Pesci titolare dell’inchiesta, le onde elettromagnetiche rilasciate dalle sue potentissime antenne nella zona a nord di Roma sarebbero la causa dell’insorgenza di leucemie nei cittadini che abitano nei dintorni.

Giornale ed emittente radiofonica perdono circa 15 milioni di euro l’anno, compensati solo in minima parte dalla pubblicità commerciale delle grandi aziende – dall’Enel, all’Eni, fino all’Alitalia – che dall’estate scorsa viene trasmessa sulle frequenze della radio del papa. Sono invece in attivo di circa 2 milioni il Centro televisivo vaticano (Ctv) – il centro di produzione che riprende in esclusiva le immagini video del papa e degli eventi in Vaticano e le vende alle tv di tutto il mondo – e la Libreria editrice vaticana (Lev), unica proprietaria «in perpetuo e per tutto il mondo» dei diritti d’autore sui discorsi e sugli scritti dei papi dell’ultimo cinquantennio e dei vari dicasteri della Santa sede.

Un copyright rigidissimo, regolato da un apposito decreto pontificio, che nel caso di papa Ratzinger è stato allargato anche a tutte «le opere e gli scritti redatti dallo stesso pontefice prima della sua elevazione alla Cattedra di Pietro»: all’editore Baldini & Castoldi, per fare un solo esempio, è stato chiesto il 15% del prezzo di copertina per ogni copia venduta del Dizionario di papa Ratzinger, una guida al pontificato di Benedetto XVI curata dal vaticanista della Stampa Marco Tosatti, il quale per la redazione di quattro voci del libro aveva utilizzato 50 righe dell’omelia Pro eligendo pontifice, pronunciata in apertura di Conclave dall’ancora cardinal Ratzinger, e dell’omelia della prima celebrazione eucaristica presieduta da papa Benedetto XVI.

Male anche i conti del Governatorato della Città del Vaticano, cioè l’erede del vecchio Stato pontificio, l’organo a cui il papa – che secondo la costituzione vaticana rimane il sovrano assoluto – ha affidato l’esercizio del potere esecutivo: con nove direzioni, sei uffici centrali e 1.891 dipendenti quasi tutti laici e maschi amministra il territorio statale, controlla le istituzioni e gestisce i servizi, i musei, la gendarmeria e le finanze, tranne lo Ior, che invece è autonomo e saldamente in attivo.

Nel 2009 il bilancio dello Stato vaticano ha chiuso con un passivo di quasi 8 milioni di euro (ma l’anno precedente le perdite furono quasi il doppio) per gli «effetti della crisi economico-finanziaria internazionale», ossia per operazioni speculative e investimenti andati male, ha spiegato monsignor Velasio De Paolis, presidente della Prefettura degli affari economici della Santa Sede e da pochissimi giorni anche “delegato pontificio”, ovvero “commissario”, della Congregazione dei Legionari di Cristo, pesantemente coinvolta nello scandalo pedofilia per gli abusi sessuali compiuti direttamente per almeno 50 anni dal fondatore, padre Marcial Maciel Degollado, solo nel 2006 sospeso a divinis dal successore di Ratzinger alla guida della Congregazione per la dottrina della fede, cioè l’ex Sant’Uffizio, e poi morto nel 2008.

Fra Santa Sede e Stato Città del Vaticano una perdita complessiva, quindi, di 12 milioni di euro totalmente coperta dall’Istituto opere di religione – lo Ior, la banca vaticana, di nuovo al centro delle inchieste della magistratura sulla “cricca” dell’ex gentiluomo del papa Angelo Balducci & co – e, soprattutto, dai portafogli dei fedeli, che insieme hanno donato più di dieci volte tanto.

Dallo Ior del neo governatore Ettore Gotti Tedeschi, filo-ciellino e assai vicino all’Opus Dei nonché grande amico del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, sono arrivati in Vaticano 50 milioni di euro per imprecisate «attività di religione del Santo Padre». E poi ci sono le offerte dei fedeli, sia indirette che dirette. Fra le prime quelle delle diocesi di tutto il mondo che hanno versato alla Santa Sede contributi per 31 milioni e 500 mila dollari (25 milioni di euro), in obbedienza a quanto previsto dal Codice di diritto canonico: «I vescovi, in ragione del vincolo di unità e di carità, secondo le disponibilità della propria diocesi, contribuiscano a procurare i mezzi di cui la Sede Apostolica secondo le condizioni dei tempi necessita, per essere in grado di prestare in modo appropriato il suo servizio alla Chiesa universale».

I più generosi sono stati i vescovi degli Stati Uniti e della Germania, di manica assai larga da quando in Vaticano c’è un papa tedesco. Infine le offerte dirette dei cattolici per l’Obolo di San Pietro, «l’aiuto economico che i fedeli offrono al Santo padre come segno di adesione alla sollecitudine del successore di Pietro per le molteplici necessità della Chiesa universale e per le opere di carità». Una tradizione di origine medievale, formalizzata da Pio IX in un’enciclica del 1871 all’indomani della breccia di Porta Pia, che nel 2009 ha portato nelle casse del papa quasi 82 milioni e 500mila dollari, pari a 65 milioni e 500 mila euro.

Offerte in crescita di 11 milioni di euro rispetto all’anno precedente, ma va detto che quando i fedeli hanno messo mano al portafoglio lo scandalo pedofilia non era ancora esploso a livello internazionale, per cui, secondo diversi analisti vaticani dal prossimo anno il volume delle offerte potrebbe precipitare. E i conti della Santa Sede scricchiolare.

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LA FUGA DEI CONTRIBUENTI
di Luca Kocci

L’8 per mille fa flop: 100 mila sottoscrittori in meno. E la Santa Sede si dà alla finanza. Collassano le entrate vaticane, calano anche le sottoscrizioni volontarie.

Il Vaticano prevede un crollo ancora più pesante per i prossimi anni e accantona una parte degli introiti. Nel frattempo si dà alla finanza e a partite di giro immobiliari per risparmiare sulle tasse

La prima volta potrebbe essere stato un caso, la seconda una conferma, ma se il prossimo anno si realizzasse il proverbio del “non c’è due senza tre” sarebbe il segnale di una crisi forse irreversibile. Si tratta dell’otto per mille alla Chiesa cattolica: diminuisce sensibilmente, per il secondo anno consecutivo, il numero dei contribuenti che scelgono di destinarlo alla Conferenza episcopale italiana. Inoltre continuano a calare le offerte volontarie per il sostentamento del clero, che in realtà si riducono da quindici anni, ma quest’anno la flessione è particolarmente forte. E aumenta, di rimbalzo, la preoccupazione dei vescovi che non sanno più cosa inventarsi per riconquistare la fiducia dei fedeli e tentare di raddrizzare la situazione se non operazioni di borsa, speculazioni finanziare e partite di giro immobiliari per risparmiare qualche milione di euro di tasse.

Gli ultimi dati – relativi alle quote dell’otto per mille incassate nel 2010, sulla base però delle dichiarazione dei redditi del 2007 – dicono che la Chiesa cattolica ha perso quasi 100 mila contribuenti, che hanno scelto di destinare il loro otto per mille allo Stato oppure ad un’altra confessione religiosa, per lo più ai valdesi. In termini percentuali si tratta di un calo di poco superiore all’1%, a cui va aggiunto il – 4% dello scorso anno. Una flessione che allarma i vescovi: «Dobbiamo registrare con preoccupazione, per il secondo anno consecutivo, un calo percentuale delle firme», lamenta il segretario generale Cei, monsignor Mariano Crociata. «Alla Chiesa cattolica – prosegue – sono andate 14.839.143 adesioni, 95.104 in meno rispetto all’anno precedente: le scelte sono purtroppo diminuite sia in termini percentuali, sia in valore assoluto».

Un calo di consensi che però, almeno quest’anno, non produce una diminuzione degli introiti (come lo scorso anno, quando la Chiesa perse 35 milioni di euro), che anzi aumentano di 100 milioni, raggiungendo la cifra complessiva di 1.067 milioni di euro. Questo grazie alla crescita del gettito fiscale e, soprattutto, al diabolico meccanismo della ripartizione dell’otto per mille. La normativa prevede infatti che le quote non espresse – quelle cioè dei contribuenti che non fanno nessuna scelta e che sono la maggioranza: circa il 56% – non rimangano all’erario ma vengano ripartite fra le confessioni religiose e lo Stato in base alle percentuali ottenute. La Chiesa cattolica, quindi, che raggiunge l’85% delle firme di coloro che scelgono una destinazione dell’otto per mille, ottiene anche l’85% delle quote di coloro che non fanno nessuna opzione: pertanto 15 milioni scarsi di contribuenti che firmano per la Chiesa (pari al 35% di tutti coloro che pagano le tasse) le consentono di incassare l’85% dell’otto per mille. A cui andrebbero aggiunti anche i milioni, circa 30 nel 2009, che, seppure destinati dai cittadini allo Stato, vengono poi dirottati nelle casse della Cei come contributo per il restauro di immobili ecclesiastici considerati “beni culturali”.

«Con l’otto per mille alla Chiesa cattolica avete fatto molto, per tanti», «In Italia e nel Terzo Mondo, il tuo aiuto arriverà dove c’è bisogno di aiuto» proclamano i martellanti spot radiotelevisivi e le inserzioni su quotidiani e riviste per invitare i contribuenti a destinare alla Chiesa l’otto per mille (una campagna pubblicitaria che lo scorso anno è costata alla Cei oltre 20 milioni). Andando però ad analizzare i rendiconti della ripartizione dei fondi, si scopre che anche quest’anno agli «interventi caritativi» è andato solo un quinto del miliardo di euro abbondante incassato, mentre tutto il resto, quasi 850 milioni, è stato spero per culto, pastorale e sostentamento del clero. Nel dettaglio, su un totale di 1.067 milioni di euro, alle «esigenze di culto e pastorale» vanno 452 milioni, al «sostentamento del clero» 357 milioni e agli «interventi caritativi» 227 milioni. Trenta milioni di euro, poi, sono stati accantonati «a futura destinazione», per tamponare il prevedibile ulteriore calo delle firme dei prossimi anni, quando nelle dichiarazioni dei redditi si faranno sentire gli effetti dei numerosi scandali ecclesiastici di questi mesi – dalla pedofilia alle proprietà immobiliari di Propaganda Fide – che raffredderanno ancora di più la propensione dei contribuenti verso la Chiesa cattolica.

Oltre all’otto per mille, a crollare inesorabilmente sono anche le offerte deducibili volontarie per il sostentamento del clero, che fra l’altro possono essere versate in sette conti correnti aperti presso le principali “banche armate” italiane come Bnl, Intesa-San Paolo e Unicredit. Un trend negativo che va avanti dal 1994, ma che quest’anno ha raggiunto l’apice, con un calo del 10%, passando dai 16 milioni e mezzo del 2008 ai 15 scarsi del 2009.

Sembrano quindi del tutto fallite le contromisure che la Cei aveva messo in campo alla fine del 2008, per tamponare l’emorragia di consensi e quattrini: una lettera-appello sia ai preti che ai fedeli per tentare di recuperare le perdite e un rigido sistema di controllo delle parrocchie per premiare quelle che si fossero maggiormente impegnate per la raccolta delle offerte deducibili. Ed è per questo, forse, che i vescovi hanno deciso di cambiare strada, puntando esclusivamente su operazioni finanziarie e immobiliari per fare cassa.

Il complesso di via Aurelia 796 (dove hanno sede alcuni organismi collegati alla Cei come la Caritas e Fondazione Migrantes, oltre a Tv2000 e a Radio InBlu), attualmente di proprietà dell’Immobiliare Aurelia Sostentamento srl (Ias) – organismo lucrativo controllato dall’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero – passerà alla Fondazione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena, gestita direttamente dalla Cei e proprietaria anche della maggioranza del quotidiano Avvenire. E dal momento che la Fondazione è ente ecclesiastico senza scopo di lucro, questo consentirà un notevole risparmio fiscale, grazie alle varie esenzioni di cui godono gli enti ecclesiastici. «Il passaggio di proprietà – spiega Crociata all’agenzia di stampa Asca – risponde alla necessità di incardinare in un ente ecclesiastico senza scopo di lucro, quale appunto la Fondazione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena, controllata al 100% dalla Cei», in «coerenza con i permessi autorizzativi e di destinazione d’uso rilasciati dal Comune di Roma». «Mantenere in vita la Ias – aggiunge il segretario della Cei – che è per natura una società commerciale, comporterebbe oneri aggiuntivi dell’ordine di oltre 1,5 milioni di euro di tasse sul reddito prodotto per ciascun esercizio annuale, in aggiunta all’applicazione dell’Iva sulle locazioni, che, in capo ad attività di fatto sostenute dalla Cei, determinerebbe un ulteriore aggravio di 1,2 milioni di euro all’anno». Un’operazione, quindi, che farà restare nelle casse della Cei 2 milioni e 700mila euro di tasse da non pagare più.

E poi acceleratore premuto su nuove operazioni e speculazioni finanziarie, le uniche ad andare bene, come ammette lo stesso Crociata: quest’anno c’è stata la «migliore performance dagli ultimi sette anni», grazie a una gestione «caratterizzata da una coerente e attenta strategia di investimento» che «ha saputo monetizzare il forte rimbalzo dei corsi finanziari sopravvenuto alla grande crisi dei mercati del 2008, pur in presenza di un quadro macroeconomico di grande incertezza».