Ecumenici per vincere secoli di divisioni

Paolo Ricca
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Cento anni or sono il cristianesimo ha, se così si può dire, inventato l’ecumenismo. È stato indotto a farlo dalla contraddizione nella quale viveva da secoli, dopo le due profonde fratture avvenute al suo interno: nel 1054 la cristianità latina e quella bizantina si erano separate (una frattura che dura da quasi 1.000 anni), e nel 1517, all’interno della cristianità latina, si sono divisi il protestantesimo e il cattolicesimo romano (una frattura che dura da quasi 500 anni). Queste divisioni, accompagnate da reciproche scomuniche e da secoli di dura polemica, contraddicono la natura stessa della Chiesa che, nel Credo di Nicea-Costantinopoli, condiviso da tutte le confessioni cristiane, si considera e proclama solennemente una. Dalla presa di coscienza della contraddizione di una Chiesa che si dice una, ma non lo è perché è divisa, e dalla volontà di superarla perché alla lunga essa mina la credibilità stessa del messaggio cristiano, è nato il movimento ecumenico, che prese le mosse dalla conferenza missionaria di Edimburgo del 1910.

Da allora molto cammino è stato percorso. Una tappa decisiva è stata la creazione, ad Amsterdam nel 1948, del Consiglio Ecumenico delle Chiese (World Council of Churches), con sede a Ginevra. Sorto in seno al protestantesimo, il movimento ecumenico ha progressivamente coinvolto il mondo ortodosso e, a partire dal Concilio Vaticano II, anche il cattolicesimo romano. Oggi si può dire che tutte le maggiori confessioni cristiane hanno fatto propria l’idea e la speranza ecumenica che è quella, appunto, di ricomporre l’unità della Chiesa, ristabilendo la comunione di fede e di culto tra tutti i cristiani. Ostili all’ecumenismo restano frange tradizionaliste come i lefebvriani in casa cattolica, gruppi fondamentalisti in casa evangelica e alcune comunità monastiche in casa ortodossa. Ma si tratta di minoranze. Le Chiese che hanno accolto l’istanza ecumenica, la considerano ormai una scelta irrevocabile.

Le due idee-guida che animano il movimento ecumenico e al tempo stesso ne costituiscono la meta sono la «diversità riconciliata» (finora la diversità cristiana, via via manifestatasi nella storia della Chiesa, è stata spesso scomunicata) e la «comunione conciliare» (le diverse chiese che si riconoscono reciprocamente come tali esprimono e suggellano la loro unità nel concilio ecumenico, come avveniva nei primi secoli della storia cristiana). Anche se questa meta è ancora lontana, il cammino per raggiungerla è stato imboccato.

Intanto però, grazie alla pratica ecumenica, è accaduto un fatto estremamente importante: il cristianesimo ha imparato a dialogare, a fare cioè del dialogo non un esercizio occasionale o, peggio, un passatempo, ma un modo di essere e di porsi nei confronti degli altri. Attraverso l’ecumenismo, il cristianesimo è diventato una religione in dialogo. Non risulta che movimenti della stessa portata esistano oggi nella altre grandi religioni.

Entrare in dialogo presuppone molte cose, ma la principale è l’abbandono dell’autosufficienza, nella consapevolezza che la verità è sempre più grande di noi ed è meglio cercarla insieme che da soli. Attraverso migliaia di dialoghi teologici, bilaterali e multilaterali, avvenuti negli ultimi decenni e sfociati in accordi di varia natura (convergenze, consensi, consensi differenziati), il movimento ecumenico ha sviluppato una metodologia del dialogo che, nata in casa cristiana, è perfettamente utilizzabile nel dialogo tra le religioni: i contenuti sono ovviamente diversi, ma il metodo e le regole cono le stesse. Così l’esistenza del movimento ecumenico cristiano si rivela doppiamente provvidenziale: lo è sul fronte interno perché promuove la pace tra le chiese e la loro comunione, e lo è sul fronte esterno come palestra per il dialogo interreligioso e interculturale, così necessario nel nostro tempo.

17 marzo e Unità d’Italia. La FCEI sarà in festa con degli striscioni

Presidente Aquilante: Il Risorgimento “mito fondativo” degli evangelici italiani
Da NEV 23 febbraio 2011

“Il processo risorgimentale che ha portato all’Unità d’Italia è per le chiese evangeliche del nostro paese un vero e proprio mito fondativo. Per questo sugli edifici di proprietà delle nostre chiese il 17 marzo prossimo, Festa dell’Unità d’Italia, affiggeremo degli striscioni che diranno ‘Questo palazzo è in festa’”. Non ha dubbi, il pastore Massimo Aquilante, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), illustrando in una nota diffusa lo scorso 18 febbraio la decisione del Consiglio FCEI: “Certo, è un gesto simbolico, ma ci sembra molto importante farlo. Con questa iniziativa come evangelici vogliamo esprimere la nostra convinzione sulla necessità di celebrare i 150 anni dall’Unità d’Italia”.

Il periodo risorgimentale riveste per gli evangelici di ieri e di oggi una particolare rilevanza. Spiega Aquilante: “Gli evangelici di un secolo e mezzo fa ravvisarono nella costruzione di uno Stato unitario la possibilità di dare un loro contributo per un obiettivo importante: la realizzazione della riforma religiosa nel nostro paese. Una riforma religiosa che sarebbe poi stata anche una riforma morale e civile, e che avrebbe finalmente allineato anche l’Italia alle civiltà del centro e nord europeo che già erano passate per l’esperienza della Riforma protestante. Con l’Unità d’Italia gli evangelici dell’epoca credettero nella possibilità di spendere la propria predicazione dell’Evangelo di Gesù Cristo e la testimonianza del Regno di Dio al servizio e al riscatto del popolo italiano. L’immagine che più veniva impiegata era quella dell”Italia nuova’”.

E oggi? “A 150 anni da quegli avvenimenti – prosegue Aquilante – come evangelici ci chiediamo come mai sia stato possibile assistere ad un tale polemica pubblica e politica intorno all’opportunità di festeggiare il 17 marzo. Dobbiamo interrogarci sul perché in Italia manchi una ‘religione civile’ in grado di tenere insieme in un quadro democratico tutte le diverse posizioni culturali e religiose in un unico orizzonte, che è quello del paese a cui si appartiene. Ecco un terreno di lavoro importantissimo per le nostre chiese, e per tutte le comunità di fede”.