Da “Il conto dell’ultima cena” di Moni Ovadia

“Moshele è seduto sotto un arancio e ne mangia avidamente i frutti succosi. Arriva il proprietario, lo sorprende a rubare e lo maledice citando i dieci comandamenti. – Che meraviglia! – sorride Moshele – Oh, com’è bella il tera santo. Tu lo siedi nel ombra di uno albero, lo mangi il fruti del tera e in più qvalcuno lo insegna per te uno capitolo del Torah!”

LA MORALE VIEN MANGIANDO
da www.famigliacristiana.it

Un viaggio fra storielle gastronomiche, tradizioni, ricette della cultura ebraica: con ironia e saggezza, l’autore italiano di origini sefardite ci conduce alla ricerca di un’etica del cibo. Qui anticipiamo il capitolo “Khad gadià, un capretto”.

Khad gadià (Un capretto) è una delle più celebri canzoni ebraiche. Si esegue da tempo immemorabile alla fine della cena pasquale (…) Forse nella sua lingua originale l’avrà ascoltata anche Gesù, visto che il Cristo parlava e predicava in aramaico. Nel 1976 il cantautore Angelo Branduardi ne ha realizzato una trasposizione in italiano intitolata Alla fiera dell’Est, ottenendo un clamoroso successo popolare: malgrado ciò, solo in pochi hanno riflettuto sul significato di quella che appare ai più come un’ingenua filastrocca.

Stando all’interpretazione allegorica della canzone, il capretto è il popolo di Israele che il Santo Benedetto acquista al “mercato” dei popoli pagandolo due zuzim. Ed ecco che arriva l’Assiria (il gatto) e conquista Israele, ma Babilonia (il cane) vince l’Assiria. Poi è il turno della Persia (il bastone) che abbatte Babilonia, ma la grande Grecia (il fuoco) ha ragione della Persia, finché arriva la possente Roma (l’acqua) e doma la Grecia. Dopodiché l’islam (il bove) schiaccia Roma, tuttavia sopraggiungono i crociati (il macellaio) ad aggredirlo, e in ultimo le nazioni europee (l’angelo della morte), conquistatrici del dominio mondiale. Chiude la catena il Santo Benedetto, che punisce le nazioni malvagie e redime il proprio popolo, Israele.

Se abbandoniamo il piano allegorico, si aprono altre interpretazioni. Il testo dice che il gatto mangia un capretto, ma un gatto non può compiere una simile impresa se il capretto è vivo. Dovendo rappresentare una belva che scanna e divora una vittima sacrificale, sarebbe stato forse più coerente scegliere un lupo. Invece qui abbiamo un gatto, animale che può mangiare un capretto solo a patto che questo sia già morto e possibilmente in pezzi. Ma qualcuno in pezzi lo ha ridotto, ed è stato con tutta probabilità l’uomo che lo ha comprato al mercato.

Il circolo perverso della violenza

La canzone pare suggerire che la macellazione dell’innocente capretto (perché serva da cibo) inneschi il circuito della violenza. Un circolo perverso che richiede l’intervento risolutivo del Santo Benedetto per far cessare la spirale della morte. Il Santo Benedetto, infatti, scanna l’angelo della morte: senza il grande falciatore, la morte è sconfitta. E se il Santo Benedetto è colui che ferma la morte, ciò significa che il Santo Benedetto è la vita. Tuttavia, in contraddizione con questa luminosa verità che entusiasma i credenti, il Padrone dell’universo compie un atto violento per porre fine alla violenza della morte. La violenza è dunque attributo del Divino? Decisamente no. Lo è forse il pathos per le umane vicende, come suggeriscono i profeti di Israele. Perché allora la violenza?

L’essere umano è stato creato libero. Il Santo Benedetto può suggerire i propri moniti etici, ma non può imporli. Raccomanda all’uomo di preferire il bene e la vita, ma gli lascia ampia facoltà di scegliere con relativa assunzione di responsabilità. I patti che Dio stipula con l’essere umano si basano sull’amore per il prossimo, lo straniero e il debole, sull’interdizione a uccidere e la giustizia sociale, ma sempre nel quadro di una piena libertà. Se l’uomo sceglie la violenza, il Santo Benedetto può decidere di celare il proprio volto e di abbandonare l’uomo ai suoi più brutali istinti; oppure può assumere su di sé il linguaggio scelto dall’uomo per mostrargli fin dove porta la perversione di quel linguaggio, e utilizzarlo come strumento di “redenzione”.

Libertà, arma a doppio taglio

Uno degli episodi più significativi di questa assunzione su di sé della violenza da parte dell’Eterno è lo scatenamento delle dieci piaghe contro l’Egitto (…) L’insistenza sulla propria esclusiva responsabilità in quell’atroce decisione serve a mostrare quanto siano inconciliabili la libertà che redime l’uomo dalla schiavitù e l’idolatria che ne fa invece un oggetto e produce morte (…) E forse anche a stimolare gli ebrei a concentrarsi sul vero scopo della rivoluzione mosaica: il raggiungimento della libertà, della giustizia sociale, dell’uguaglianza e della fratellanza universale. La violenza non va considerata come una possibilità a loro disposizione.

Moni Ovadia

‘‘Un giorno al mercato per due soldi un capretto mio padre comprò / venne il gatto e si mangiò il capretto che mio padre per due soldi al mercato comprò / e venne il cane che morsicò il gatto che si mangiò il capretto che al mercato per due soldi mio padre comprò / e venne il bastone che bastonò il cane che morsicò il gatto che si mangiò il capretto che mio padre per due soldi al mercato comprò / e venne il fuoco che abbruciò il bastone che bastonò il cane che morsicò il gatto che si mangiò il capretto che mio padre per due soldi al mercato comprò / e venne l acqua che spense il fuoco che abbruciò il bastone che bastonò il cane che morsicò il gatto che si mangiò il capretto che mio padre per due soldi al mercato comprò / e venne il bove che bevve l acqua che spense il fuoco che abbruciò il bastone che bastonò il cane che morsicò il gatto che si mangiò il capretto che mio padre per due soldi al mercato comprò / e venne il shokhet che scannò il bove che bevve l acqua che spense il fuoco che abbruciò il bastone che bastonò il cane che morsicò il gatto che si mangiò il capretto che mio padre per due soldi al mercato comprò / e venne il ma-lakh-ha-mavet che scannò il shokhet che scannò il bove che bevve l acqua che spense il fuoco che abbruciò il bastone che bastonò il cane che morsicò il gatto che si mangiò il capretto che mio padre per due soldi al mercato comprò / e venne Koddosh Borukhù che scannò il ma-lakh-ha-mavet che scannò il shokhet che scannò il bove che bevve l acqua che spense il fuoco che abbruciò il bastone che bastonò il cane che morsicò il gatto che si mangiò il capretto che mio padre per due soldi al mercato comprò’’.

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Da: il conto dell’ultima cena di Moni Ovadia, Einaudi.   L’autore e l’editore consentono la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purchè non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta.

Dunque, dopo alcune settimane che il pontefice romano si era insediato, una delegazione della comunità ebraica di Roma guidata dal rabbino capo si recava a San Pietro portando un’antichissima pergamena sigillata. Il papa, impassibile, riceveva la delegazione, il rabbino capo gli porgeva la pergamena con un sopracciglio alzato e il piglio interrogativo, e il sommo pontefice faceva spallucce, alzando sdegnosamente la mano a significare che non ci pensava nemmeno di accettare quel vetusto documento. A quel punto la delegazione ebraica lasciava il Vaticano.

A ogni nuovo papa la scena si è ripetuta uguale per secoli. Fin quando è asceso al soglio di Pietro un porporato di indole assai curiosa – non ne faremo il nome per rispetto della segretezza – il quale ha attivato la propria diplomazia per concordare con l’allora rabbino capo di Roma un seguito, coperto dalla più assoluta riservatezza, da porre in atto al termine del solito rituale. Così il segretario di Stato del Vaticano e il presidente della comunità ebraica si sono accordati in gran segreto perchè a cerimonia conclusa  il rabbino capo rientrasse da una porticina nascosta, al fine di appartarsi col papa in uno studiolo e quindi a procedere a dissigillare la pergamena senza danneggiare il sigillo. Con lo scopo di conoscere, finalmente, il segretissimo contenuto dell’antico scritto.

Per compiere con il vapore la delicata operazione ci vollero parecchi minuti….poi, con grande trepidazione, srotolarono la preziosa pergamena e, con la voce rotta dall’emozione, cominciarono a leggere l’intestazione:”Conto dell’Ultima Cena”.

Non sono in grado di informare il lettore sull’ammontare dell’importo richiesto per quel celebre pasto a Gesù e agli apostoli. Essi, per risapute ragioni, non riuscirono a onorare il debito. Però sono in grado di riferire alcune cose riguardo a quella cena: Gesù e gli apostoli scelsero di sicuro una locanda nota per il suo rispetto delle leggi della Torah.

….. L’oste aveva di certo ripulito minuziosamente il locale da ogni minima traccia di cibo lievitato e di bevanda o condimenti fermentati, così come prescrivono i precetti del Pesakh. Quindi tutti avranno cominciato il rito con le benedizioni, a partire dal quaddesh, la consacrazione della festa in cui si recita il kiddush (la benedizione del vino), poi avranno bevuto il primo bicchiere di vino – un vino intenso e ricco dei profumi del sole e della santità, anche se enologicamente non “corretto” – e si saranno seduti comodamente e persino stravaccati (perchè l’uomo liberato dalla schiavitù non ha più costriziono). Avranno fatto l’urkhas, il lavaggio delle mani, senza recitare la benedizione, ed eseguito il carpas, l’atto di intingere del sedano, del prezzemolo o un pezzo di patata nell’aceto o nell’acqua salata recitando la preghiera:”Benedetto tu, o Signore, D-o nostro, Re del mondo, creatore del frutto della terra”.

A quel punto Gesù avrà compuito la cerimonia del jahaz, preso dal piatto rituale tre azzime sovrapposte (nel piatto è necessario che siano presenti tre azzime coperte da un panno, la zampa anteriore di un agnello arrosto, della lattuga, del sedano, un uovo e del kharoset, una sorta di “fango” dolcissimo) ed estratto l’azzima di mezzo, poi l’avrà spezzata chiedendo che una delle due metà fosse nascosta. Fatto questo, avrà riempito il secondo bicchiere di vino e dato principio alla lettura della haggadah del Pesakh.

La haggadah è il racconto della schiavitù d’Egitto, dell’oppressione degli ebrei e della loro liberazione a opera di prodigi e miracoli. Gesù avrà partecipato alla lettura, prestato attenzione alle quattro domande sul senso intimo della festa poste dal più piccolo partecipante al seder (con questa parola ebraica che significa “ordine” si definisce la cena pasquale), avrà ascoltato e ripetuto l’elenco delle piaghe mandate per domare la crudele caparbietà tirannica del faraone. Gesù avrà meditato con tremore sul passaggio con cui il Santo Benedetto si assume la piena e diretta responsabilità dell’uccisione dei primogeniti egizi, di uomini e animali, ne avrà di sicuro capito gli abissi e il significato intrinseco, avrà cantato i magnifici salmi e le commoventi melodie paraliturgiche.

Chissà che voce aveva, Gesù. Era intonato o stonato come il patriarca Abramo? Faccio un’ipotesi: Gesù forse non aveva una voce bella, ma di certo un’espressività perturbante e gioiosa come quella di Louis  Armstrong. Nel momento in cui, con ogni probabilità, intonò il Betzel Israel (all’uscita dall’Egitto), il salmo dalla melodia più intensa, gli apostoli forse ammutolirono e ascoltarono a bocca aperta.

Nel corso del racconto tutti avranno bevuto gli altri due bicchieri di vino prescritti, tranne gli astemi, che avranno bevuto del succo d’uva. Poi il pasto sarà cominciato con il rohzah, il secondo lavaggio delle mani seguito dalle parole: “Benedetto tu sia, o Signore nostro, Re del mondo, colui che ci ha comandato la lavanda” , e della sequenza dei “bocconi rituali” accompagnati dalle relative benedizioni: il motzì matzà, quando il capofamiglia solleva dal piatto rituale la prima matzà e la matzà di mezzo spezzata. Sulla prima azzima recita:” Benedetto tu sia, nostro Signore, Re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra”. Sulla seconda invece pronuncia:” Benedetto tu sia, o Signore nostro D-o, Re del mondo, colui che ci ha santificato e ci ha comandato di mangiare azzima”. Poi distribuisce un pezzetto di ciascuna delle due azzime a ogni convitato, che lo intinge nel sale e ripete la benedizione.

La matzà è il pane della libertà, dell’identità universalista del monoteismo, non lievitato e non salato, perchè non ci fu tempo di aspettare la lievitazione. Gesù ne avrà gustato il delizioso sapore di cartone al forno. Sì, delizioso, perchè è per antonomasia il cibo dell’uscita dalla schiavitù, e come lui noi lo apprezziamo durante la festa del Pesakh, perchè dobbiamo conquistare la liberazione anno dopo anno a ogni generazione.

Dpo il motzì motzà si mangia il maror, l’erba amara, per ricordare l’amarezza della schiavitù e insieme per esprimere lutto per la morte degli Egizi annegati nelle acque di Yam Suf, il Mare dei Giunchi. Gli ebrei non attraversarono mai il Mar Rosso, se non nei marchiani errori di pessime traduzioni. Le acque di Yam Suf si richiusero sopra gli Egizi dopo il passaggio degli ebrei, provocandone la morte. Poi si intinge del prezzemolo o del sedano nel kharoset, uno straordinario impasto dolce e denso come un fango fatto con fichi, datteri, mandorle, essenza di arancio e vino liquoroso, per ricordare il fango con cui gli ebrei erano costretti a impastare i mattoni, e si dice:” Benedetto tu sia, o Signore D-o nostro, Re del mondo, colui che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha comandato di mangiare l’erba amara”. E da ultimo, in ricordo del santuario, dopo averlo distribuito ai commensali si mangia il korekh, preparato con un pezzo della terza azzima avvolta in erba amara e intinta nel kharoset, e si recita:” In memoria del santuario, come faceva Hillel il vecchio che avvolgeva (azzima ed erba amara e  kharoset) per osservare letteralmente la prescrizione del testo ( Esodo,12,8). Con azzime ed erbe amare lo mangeranno (l’agnello pasquale)”.

Alla fine di questi passaggi ha inizio la cena vera e propria. Gesù quella sera avrà mangiato delle uova, simbolo dell’integrità della vita; inevitabilmente l’agnello o il capretto, in ricordo della terribile notte in cui furono uccisi i primogeniti egizi mentre le case ebraiche venivano “saltate”, perchè come ordinato da Mosè gli ebrei avevano segnato gli stipiti delle porte con sangue di agnello. Saranno stati messi a tavola cibi a base di legumi e verdure, piatti come il hommus, la tahina, il ful medammes, tutti avranno bevuto vino in abbondanza e accompagnato le pietanze con azzime, avranno forse assaporato, al modo di noi ebrei sefarditi, i burmuelos, pezzi di azzima immersi nell’acqua, strizzati, poi passati nell’uovo sbattuto, fritti nell’olio e da ultimo immersi nel miele, e altri dolci. Pensate cosa si può fare con la frutta secca, la farina di azzime e il miele.

Alla fine del pasto tutti avranno recitato la birkhat ha mazon, la benedizione sulle pietanze; quindi, per chiudere definitivamente la cena, avranno mangiato un pezzetto della mezza azzima nascosta e “rubata”  per ricavarne un compenso dal più piccino dei commensali. La metà nascosta della seconda azzima si chiama afikoman. La parola afikoman viene dal greco epikomen o epikomion, che significa “ciò che viene dopo” o anche “dessert”, quindi da essere consumato alla fine del pasto in ricordo del sacrificio pasquale praticato nel tempio. La mishnà di pessahim spiega che l’afikoman è un sostituto del korban Pesakh, il sacrificio pasquale, ed era l’ultima cosa mangiata nel seder di Pesakh, la cena pasquale, nell’era del primo e del secondo tempio e all’epoca del mishkàn ( il tabernacolo). La ghemarà insegna che è proibito mangiare altro cibo dopo l’afikoman, così da mantenere nella bocca il gusto della matzà, che è il sapore della liberazione dalla schiavitù.

La nottata sarà proseguita in allegria con i bellissimi canti di festa. E se Gesù non fosse stato arrestato dai Romani, si sarebbe attardato fino all’alba a interpretare con sottilissimi commentari l’uscita dall’Egitto.

Ecco ciò che con tutta probabilità fece l’ebreo Gesù quella sera. Credo che sia giunta l’ora di smettere di ripetere a pappagallo che Gesù fu ed è ebreo, e cominciare a dirlo con cognizione di causa spiegando cosa fa un ebreo qualsiasi nelle ricorrenze ebraiche quotidiane e festive. Certo Gesù, il cui autentico nome ebraico era Iehoshua, non fu un ebreo qualsiasi, ma dall’alto della sua umiltà e semplicità nei confronti della Torah, di sicuro si comportò come tale.

Ciascun essere umano ebreo, cristiano, musulmano ma anche gnostico, ateo o diversamente credente dovrebbe una volta nella vita partecipare a un seder di Pesakh, per riallacciarsi alle radici più profonde della liberazione da ogni forma di schiavitù. Ogni anno a casa mia lo prepariamo e lo celebriamo nella sua completezza con tanti amici – siamo arrivati a essere cinquanta – ebrei, cristiani, agnostici, atei e diversamente credenti. Leggiamo l’haggadah prima in ebraico e poi in italiano, o in altre lingue se sono presenti non italiani. Teniamo la porta d’ingresso socchiusa nel caso dovesse onorarci con una sua visita il profeta Elia oppure un viandante, che è sempre e comunque un annuncio del profeta.

A ogni nuovo anno dico a un amico porporato cattolico che prima o poi dovrebbe trovare il modo di accettare il mio invito, e per sollecitarlo lo provoco scherzosamente dicendo:” Vedi, eminenza, Gesù ha regalato a voi cristiani la vostra bella Pasqua, ma lui festeggiava la nostra”.