Libia, l’accusa del vescovo di Tripoli: ‘La Nato sta uccidendo civili’

Alberto Tundo
www.peacereporter.net

Informazioni distorte per coprire i crimini della Nato, morti innocenti, donne, vecchi e bambini e un Paese in cui è stata distrutta la vita sociale. A Tripoli non si può più nemmeno dormire, i bombardamenti sono costanti e indiscriminati: ordigni esplodono neile vicinanze di case e ospedali. Monsignor Martinelli, vescovo della capitale libica, racconta a Peacereporter la disperata resistenza di una popolazione stretta tra le bombe dell’Alleanza e la morsa di un regime che è ancora in piedi e non sembra in procinto di cadere.

Cosa sta accadendo in Libia?
Quello che succede è quello che la Nato fa succedere. Sono le bombe che cadono senza tregua. Lei può immaginare quello che dicono giornali e televisioni: la tv libica non fa che mostrare vittime civili a Brega, Tripoli, in ogni parte della Libia. L’Europa sta compiendo un diastro, distruggendo la vita sociale di un Paese.

Le vittime mostrate dalla televisione di regime sono vere? Non sono una messinscena?
Sono vere! Le bombe cadono sulle case e io che devo pensare, che sono vittime false? Le bombe cadono sugli ospedali. Venga a vedere! Dica ai responsabili che vengano a vedere quello che stanno facendo le loro bombe che cadono vicino alle case. Muoiono bambini, muoiono anziani. Adesso a Marsa el Brega ieri sono morti sessanta imam, uomini di religione. Non sono storie, basta venire a vedere e constatatre. La televisione sta documentando costantemente quello che accade, le morti di innocenti. La notte, poi, è una cosa impossibile: tutta la notte sembra che ci sia un terremoto. Io non capisco che cosa vogliono colpire ancora, perché colpiscono siti civili. Dicono che sono siti militari ma non è vero. Forse non conoscono la Libia. Forse hanno una topografia sbagliata, informazioni sbagliate. Chiedo quindi di venire a vedere cosa sta facendo l’Europa, solo questo.

Quali cifre fornisce la tv libica per quanto riguarda i morti civili?
Non lo so con certezza. So dei 60 imam morti nei bombardamenti Nato nella zona di Brega e di alcuni bambini morti vicino all’ospedale degli ustionati a Tripoli.Noi siamo stati invitati in una moschea della capitale per partecipare alla commemorazione degli imam morti giovedì.

Dalla Libia giungono informazioni contraddittorie ed è difficile farsi un’idea su come si stia evolvendo il conflitto. A Tripoli qual è la situazione?
Al di fuori delle bombe della Nato, la situazione è tutto sommato tranquilla. Certo, ci sono molti problemi. La gente ha paura di uscire. La paura è il problema principale, perché impedisce una vita sociale normale.

Quindi le notizie che compaiono periodicamente su alcune testate occidentali, circa defezioni, ammutinamenti e rivolte nella capitale libica non corrispondono al vero?
No, no, sono tutte bugie, per reggere il gioco della Nato e coprire quello che sta facendo con le sue bombe. L’Alleanza ha persino rifiutato una tregua per dare respiro alla popolazione, nonostante le richieste dell’Onu e del Santo Padre. Di notte e di giorno si bombarda, non si può più nemmeno dormire. Continuare a bombardare è una cosa immorale.

A lei che ha un punto d’osservazione privilegiato chiedo quale sia, a suo giudizio, la capacità di tenuta del regime: è ancora in piedi, è sul punto di crollare?
Non credo crollerà, per lo meno non a Tripoli. Va avanti come sempre, anche se ha ridotto la sua attività e mantiene la sua autorità sulla capitale e su parte della Tripolitania. Certo, c’é un certo irrigidimento ma mi sento abbastanza sicuro. Le autorità ci proteggono, se ci sono problemi ci avvisano.

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Le due guerre libiche

Stefano Rizzo
www.paneacqua.eu

La presa (o la liberazione – a seconda dei punti di vista) di Misurata può rappresentare una svolta nella guerra libica. Che — è il caso di ricordarlo — sono due guerre distinte. Una guerra civile iniziata come una ribellione contro il regime dispotico di Muhammar Gheddafi e degenerata in scontro armato tra ribelli e forze governative; e una guerra internazionale iniziata con i bombardamenti delle truppe gheddafiane che assediavano la città di Bengasi da parte dell’aviazione francese, britannica e americana

In guerra tutti affermano di essere dalla parte della ragione, gli aggressori per difendere un bene superiore, gli aggrediti per difendersi. La propaganda e la disinformazione precedono e accompagnano tutti i conflitti, da una parte e dall’altra. Non ci stupiremo quindi se apprendessimo che gli insorti ingigantiscono il numero dei loro caduti e non ci stupiamo quando Gheddafi porta i giornalisti in giro a vedere i disastri e le vittime civili provocate dai bombardamenti. Da una parte giungono notizie di crudeli “punizioni” nei confronti degli oppositori, dall’altra emergono le prime notizie di regolamenti di conti e di esecuzioni di massa nei confronti di sostenitori del regime.

Questa è la guerra, la continuazione della politica con altri mezzi, come diceva von Clausewitz; e i mezzi sono l’uccisione delle persone, la distruzione delle cose e la disinformazione.

Ma pure, poiché di attività umana e non naturale si tratta, è possibile dare un senso a questa esplosione di violenza che si chiama guerra, in Libia come in altri luoghi?

I sensi in questo caso sono due poiché si tratta di due guerre distinte, anche se intrecciate. Il senso della guerra civile libica è quello di una rivendicazione di potere politico da parte della popolazione, o almeno di una sua parte. In un paese dove mancano strumenti di democrazia e diritti politici le proteste e le manifestazioni di piazza sono l’unico mezzo per dare corpo alle rivendicazioni di giustizia e di libertà. La differenza con un regime democratico è che in quello ci sono altri strumenti, previsti da una architettura costituzionale: il voto, i partiti, la competizione elettorale, le garanzie giurisdizionali. In un regime dispotico no.

Se un regime autoritario risponde alla protesta con la repressione, alla fine di un ciclo più o meno lungo e cruento di repressione/protesta, gli sbocchi sono soltanto due: o la protesta si piega di fronte alla violenza del regime e ritorna una qualche forma di pace sociale, o la protesta si trasforma in lotta armata, i manifestanti in insorti e si una guerra civile.

Dopodiché, anche nel caso in cui gli insorti prevalgano non è detto che automaticamente trionfi la democrazia; al contrario può instaurarsi un nuovo ciclo di stabilità repressiva e di protesta. Questo è quello che è successo in tanti paesi dove lotte armate contro il dominio coloniale o contro dittatori autoctoni hanno portato nel corso dei decenni a nuove dittature. I casi sono troppi per enumerarli e costituiscono la norma e non l’eccezione.

Senonché la guerra libica e in genere le rivoluzioni arabe di questi ultimi mesi sembrano muoversi in una diversa direzione: si ha l’impressione che in esse sia arrivata ad esaurimento un’intera fase storica, quella rappresentata, in successione, dalla lotta anticoloniale, dal nazionalismo arabo, della logica bipolare della guerra fredda, e infine dall’estremismo fondamentalista; una fase caratterizzata dal dominio di uomini forti, di liberatori presto divenuti despoti.

Con il suo esaurirsi (anche se non dappertutto e nella stessa misura) si è affacciata sulla scena del Medioriente una nuova generazione di giovani e giovanissimi, meno nazionalisti, meno ideologici e meno islamisti delle generazioni precedenti, che ripropongono in modo nuovo le stesse aspirazioni di dignità, di sviluppo e di libertà dei loro padri. Insomma, se questa volta nel mondo arabo prevarrà la democrazia (una qualche forma di democrazia) sarà perché altre strade sono state percorse e hanno perso credibilità.

La seconda guerra libica è quella internazionale combattuta da una vasta coalizione guidata dalla Nato (e all’interno della Nato da Francia e Regno Unito, con gli Stati Uniti ora un po’ più defilati) e da alcuni paesi arabi. Anche qui scorgiamo qualcosa di nuovo, che è emerso o sta emergendo per gli stessi motivi che hanno guidato la protesta araba: la fine del colonialismo, la fine della logica bipolare della guerra fredda, la fine o l’esaurimento dello spauracchio dell’estremismo islamista. Rimane certo la grave minaccia del terrorismo internazionale, ma pochi pensano ancora che sia la conseguenza di un ineluttabile “scontro di civiltà”.

Gli stati che hanno iniziato l’attacco contro i carri armati di Gheddafi che circondavano Bengasi l’hanno fatto per motivi umanitari o per perseguire i propri interessi? Sarebbe sciocco e sbagliato pensare che uno stato possa agire senza tenere conto del proprio interesse, ma è altrettanto sbagliato pensare che l’interesse sia sempre l’unica motivazione. Di affari tutti ne facevano anche prima con Gheddafi, perché non continuare a farli?

La ragione è che ad un certo punto nelle capitali europee e a Washington ci si è resi conto che la protesta popolare in tutto il Medioriente aveva assunto ormai dimensioni tali da fare ritenere che avrebbe finito col prevalere; oppure, se fosse stata sconfitta, avrebbe provocato una grave instabilità in tutta la regione. Quindi, proprio per garantire la stabilità (e conseguentemente la possibilità di continuare a fare affari), si è deciso di abbandonare gli autocrati e favorire il cambiamento di regime nei vari stati, in Tunisia, in Egitto e ora in Libia.

Ma oltre all’interesse c’è dell’altro, senza di che il realismo politico diventa irrealistico e non comprende le correnti profonde del cambiamento. Quell’altro si chiama “responsabilità a proteggere”. Un principio nuovo del diritto internazionale, che impone ai singoli stati l’obbligo di non perseguitare la propria popolazione e di proteggerla in caso di conflitto; e che trasferisce alla comunità internazionale questo dovere di protezione nel caso in cui i singoli stati non vi ottemperino.

E’ un principio pericoloso, da maneggiare con estrema cautela, perché è in contrasto con la regola aurea dell’ordinamento internazionale, quella della sovranità degli stati e della non-ingerenza. Inoltre è un principio che si presta ad essere facilmente strumentalizzato a fini di potere da parte di questo o quello stato. Per questo la sua concreta attuazione deve sempre passare attraverso forme specifiche e limitate di autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.

Anche nel caso della Libia è probabile che il principio della responsabilità a proteggere sia stato strumentalizzato per nascondere o giustificare altri meno nobili interessi. Ed è anche evidente che viene invocato per schierarsi con una parte contro l’altra. Ma il fatto che – per la prima volta nella storia recente — si intervenga in una guerra schierandosi dalla parte dei rivoltosi contro un dittatore non mi sembra tutto sommato una cosa sbagliata.