Wojtyla beato: la chiesa si autocelebra. Intervista allo storico Menozzi

Luca Kocci
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«Santo subito!»: è stata esaudita, lo scorso primo maggio, Festa dei lavoratori, con la beatificazione di Giovanni Paolo II, la richiesta gridata dai neocatecumenali e dai giovani focolarini e del Rinnovamento nello Spirito ai funerali di Wojtyla, l’8 aprile del 2005.

Beatificazione a tempo di record, a sei anni dalla morte (per il papa del Concilio, Giovanni XXIII, ce ne vollero 37), fortemente voluta da Ratzinger, che in tal modo si è potuto “appropriare” della popolarità del suo predecessore. E immagine eloquente, quella di Benedetto XVI che beatifica Giovanni Paolo II (l’uomo per il quale ha prestato la sua opera per anni), di un papato che santifica se stesso per rafforzare il potere dell’istituzione ecclesiastica e riaffermare la centralità di Roma e della curia in una Chiesa sempre meno «popolo di Dio», secondo l’espressione del Concilio Vaticano II, e sempre più verticistica e gerarchica.

Pur essendo trascorso poco tempo dalla fine del suo pontificato, è possibile tentare di storicizzare la figura di Giovanni Paolo II e dei suoi 27 anni alla guida della Chiesa cattolica. Ne parliamo con Daniele Menozzi, docente di Storia contemporanea alla Normale di Pisa, esperto del papato in età moderna ed autore del volume edito dalla Morcelliana Giovanni Paolo II una transizione incompiuta? Per una storicizzazione del pontificato.

Come si colloca il pontificato di Giovanni Paolo II nella storia della Chiesa del Novecento?

La Chiesa novecentesca è segnata dal confronto con la modernità: dalla condanna di inizio secolo si è passati al tentativo, con Giovanni XXIII e con il Vaticano II, di integrarne alcuni principi. Wojtyla si è dovuto confrontare con i limiti fino a cui poteva spingere questa integrazione, poiché la richiesta di autodeterminazione dell’uomo contemporaneo andava ben oltre le previsioni dell’aggiornamento conciliare. La sua scelta è stata precisa: la capacità apostolica della Chiesa non si gioca nello sforzo di accompagnare gli uomini verso il compimento storico della modernità, bensì nell’impossessarsi di tutti gli strumenti che essa mette a disposizione, per riaffermare l’autorità della gerarchia ecclesiastica sugli istituti fondamentali del consorzio civile.

Quali sono gli elementi fondamentali del suo pontificato?

Mi pare che sia rimasto costante l’orientamento, in un’acuta percezione delle strutture profonde della società dello spettacolo e dell’immagine, ad assicurare una presenza di primo piano della Chiesa e del papa stesso sui mezzi di comunicazione di massa, che ha consentito l’indubbio rilancio del ruolo pubblico dell’istituzione ecclesiastica. Ma delle svolte, anche significative, ci sono state, come il mutamento dell’atteggiamento verso gli ordinamenti liberal-democratici dopo il 1989.

In che senso?

All’inizio Giovanni Paolo II si inserisce nella linea assunta dal Vaticano II che, rispetto al tradizionale principio cattolico di indifferenza verso i regimi politici, sostituisce il principio di preferenza verso gli ordinamenti democratici, considerati come la condizione in cui meglio si realizzano, nelle presenti circostanze storiche, le esigenze etiche della Chiesa in ordine alla persona e alla società. Ma dopo il crollo dei regimi comunisti e la mancata costruzione in Europa di un assetto democratico che recepisca le prescrizioni della Chiesa sui diritti fondamentali delle persone, in particolare in relazione al diritto alla vita dal concepimento alla morte, il suo giudizio si fa più cupo. Un regime che fissa le regole della convivenza solo in base alle scelte della maggioranza, senza tener conto di quella verità oggettiva che la Chiesa proclama di possedere in via esclusiva, viene persino equiparato ai totalitarismi.

Qual è stato l’atteggiamento di Giovanni Paolo II nei confronti del Concilio Vaticano II?

Wojtyla si è sempre presentato come un fedele esecutore delle deliberazioni del Concilio. In realtà i documenti conciliari, frutto di lunghe mediazioni, contengono molteplici possibilità di lettura e lui ne ha dato un’interpretazione restrittiva: il Vaticano II non ha rappresentato, come molti volevano, un nuovo inizio nel cammino di una Chiesa bisognosa di radicali riforme, ma si è posto nel solco di una tradizione volta ad adeguare i mezzi delle Chiesa alle condizioni storiche per renderne più efficace la capacità di espansione.

Per le sue posizioni nei confronti delle guerre Giovanni Paolo II è stato considerato da tutti un papa pacifista…

Il papa non ha mai abbandonato la teologia della “guerra giusta”, anzi ne ha ribadito il valore in testi ufficiali come il Catechismo della Chiesa cattolica. Ne ha però irrigidito le condizioni, in base alla valutazione che nel mondo contemporaneo il ricorso alla violenza bellica rende assai problematico quel ripristino di un giusto ordine della convivenza umana cui, nell’etica cristiana, deve mirare. E ha proclamato che la religione non può mai legittimare una guerra, cancellando così ogni giustificazione alla guerra santa. Questi spostamenti hanno indotto a ritenerlo un papa pacifista, ma non è stato tale.

Perché il Vaticano si è affrettato a beatificarlo?

In una struttura monarchica come la Chiesa cattolica, il vertice decide la sospensione delle norme vigenti sulla base di valutazioni di opportunità politica. Nella fattispecie si tratta di assecondare la spinte dei settori ecclesiali che volevano la canonizzazione di Giovanni Paolo II al momento dei funerali, con l’intento di mostrare una piena sintonia tra gerarchia e “popolo” dei fedeli. Ma si vuole anche, in una prospettiva autocelebrativa, sottolineare il ruolo da lui giocato nel restituire alla Chiesa una nuova centralità sulla scena pubblica. Né manca, mi pare, la volontà di riproporre l’idea medievale per cui è lo svolgimento stesso della funzione papale a rendere santo chi l’adempie. (l. k.)