Camminare nella via della pace

Luca Maria Negro
www.riforma.it

Pace nella giustizia, evangelici e Risorgimento, affermazione dei diritti, difesa della laicità, costruzione del pluralismo, accoglienza delle diversità, «Essere chiesa insieme»: sono alcuni dei temi che la Tavola propone alla riflessione del Sinodo 2011

In vista del prossimo Sinodo delle chiese metodiste e valdesi, che si apre domenica 21 agosto a Torre Pellice (Torino), abbiamo intervistato la pastora Maria Bonafede, moderatora della Tavola valdese.

La relazione della Tavola valdese al Sinodo si apre quest’anno con un riferimento positivo alla primavera democratica nei paesi arabi, e al tempo stesso con una critica agli interventi militari internazionali in Libia e in altri paesi. Lo strumento militare, voi dite, è inadeguato a costruire la democrazia, è inefficace a garantire un nuovo corso politico. Anche alla Convocazione ecumenica internazionale per la pace di Kingston (Jamaica), nello scorso maggio, le chiese hanno lanciato un messaggio forte chiedendo la messa al bando la guerra e sottolineando la necessità di investire più risorse in un lavoro di prevenzione dei conflitti. Al di là della condanna della guerra, quali sono gli sforzi concreti che la Chiesa valdese ha fatto o potrebbe fare per contribuire fattivamente alla risoluzione dei conflitti e a stabilire una pace giusta?

«La primavera democratica di alcuni paesi arabi è stato uno dei grandi fatti dell’anno alle nostre spalle: mentre non ci nascondiamo i problemi che stanno di fronte a paesi come l’Egitto o la Tunisia che nei prossimi mesi dovranno dare una forma costituzionale al processo democratico, dobbiamo riconoscere il carattere popolare della mobilitazione che ha rimosso i vecchi e corrotti regimi al potere da decenni. Si è trattato di rivoluzioni democratiche nate dal basso e cresciute grazie alla partecipazione di tanti giovani e di tanti intellettuali: in Libia, invece, si pretende di costruire la democrazia con l’uso forza militare, riproponendo un modello di intervento già sperimentato in Iraq e in Afghanistan con risultati quanto meno controversi.

La strada che il movimento ecumenico ha indicato anche nelle scorse settimane in occasione della grande assemblea ecumenica di Kingston è un’altra: quella della pace nella giustizia, costruita nel dialogo, nella solidarietà internazionale e nel rispetto dei diritti umani. Nel nostro piccolo ci sentiamo impegnati in questa direzione: con i fondi Otto per mille abbiamo sostenuto l’organizzazione di un convegno internazionale sulla società civile e la democrazia nel mondo arabo promosso da alcuni nostri storici partner mediorientali. Da anni, inoltre, sosteniamo attivamente molti programmi – tra gli altri Semi di pace e Fiori di pace promossi dalla rivista Confronti – che propongono concretamente una via di pace basata sul dialogo dal basso, sui principi della convivenza e sulla pratica della nonviolenza».

In occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia il Presidente della Repubblica ha ricevuto una delegazione valdese e metodista. Che cosa hanno fatto le chiese per ricordare questo importante anniversario?

«Il ricevimento al Quirinale è stato un momento simbolicamente forte perché il capo dello Stato ha riconosciuto il ruolo della nostra Chiesa e di tanti suoi esponenti nella costruzione dell’Italia unita e nell’affermazione dei principi di libertà, pluralismo e laicità dello Stato.

Ma quella visita avrebbe avuto poco senso se ad essa non si fossero accompagnate tante altre iniziative sia locali che nazionali: la mostra curata dal centro culturale valdese, le numerose conferenze, i convegni di studio – quelli già realizzati come quello del Centro di Documentazione metodista insieme all’Università La Sapienza di Roma, quello che avrà luogo ad ottobre promosso dalla Commissione nominata ad hoc dalla Tavola o quello programmato dalla Federazione delle chiese evangeliche – danno la misura di un interesse e di un impegno che non ci deve sorprendere: il radicamento nella storia nazionale, la passione culturale e civile per le sorti del nostro paese, alcune battaglie per la laicità e i diritti di tutti costituiscono un tratto distintivo della nostra testimonianza che è emerso anche in questa occasione.

Quanto di tutto questo è arrivato fuori delle nostre chiese ai cittadini italiani? Forse è ancora prematuro rispondere ma una serie di indicatori – ad esempio le firme per l’Otto per mille a nostro favore – ci dicono che l’area di simpatia e di solidarietà attorno alla nostra chiesa e alle sue battaglie civili si sta allargando. E’ un tema che dovremo sicuramente approfondire».

L’impegno di molti cittadini e associazioni nella campagna per i referendum evidenzia una ritrovata voglia di partecipazione e confronto pubblico. Le chiese sono state impegnate particolarmente nel referendum sull’acqua – impegno che da alcuni è stato criticato come un indebito intervento di parte. Quale dovrebbe essere il ruolo delle chiese evangeliche al rinnovamento della democrazia italiana?

Quello di sempre: affermare i diritti, difendere la laicità, costruire il pluralismo. Ci sono stati dei momenti nella nostra storia in cui questo è stato più difficile; altre volte siamo noi ad avere la tentazione di chiuderci all’interno. In ogni caso per una minoranza che voglia trasmettere il senso della sua identità e della sua vocazione, l’impegno per una compiuta democrazia dei diritti e dei doveri di cittadinanza non è un optional secondario: è un aspetto essenziale della sua stessa ragion d’essere.

La decisione del Sinodo dell’anno scorso sulla benedizioni di coppie omosessuali è stata discussa e approfondita in molte comunità, e continua a suscitare un dibattito acceso sia all’esterno che all’interno. Che cosa emerge dal dibattito nelle chiese locali?

«È ovvio che una decisione complessa e sofferta come quella sulla benedizione delle coppie omoaffettive , sia pure presa a larga maggioranza dallo scorso Sinodo, faccia discutere e nessuna Chiesa riformata deve temere il confronto interno su temi importanti della propria vita e sulle proprie scelte. Indubbiamente io sono convinta che la realizzazione delle decisioni assunte debba rispettare il più possibile le diverse sensibilità nella chiesa ed essere perciò discreta.

Voglio dire che il valore di queste scelte sta nel fatto di averle compiute e di praticarle con serietà e in spirito di preghiera, non nell’esposizione mediatica che fatalmente può seguirne. Il valore della scelta sinodale sta, a mio avviso, nell’aver accolto e riconosciuto la presenza di fratelli e sorelle ancora molto discriminati e offesi nella società, di aver accolto e riconosciuto la loro vita affettiva e sentimentale ancora priva di ogni minimo diritto in Italia.

Questa accoglienza piena, senza remore e incertezze è biblica al cento per cento: di questo sono pienamente convinta, perché Gesù ha cercato, trovato e accolto chi era escluso, bandito e giudicato dalle forme religiose del suo tempo e dalla società, ha pranzato con coloro che erano reputati pubblici peccatori e peccatrici, ha incontrato, ascoltato gli uomini e le donne che nessuno voleva ascoltare, nemmeno i suoi discepoli e che tutti giudicavano. La condizione omosessuale è oggi ancora in Italia uno degli stati di emarginazione, di giudizio e di esclusione dalla società civile e da quella religiosa nel suo insieme.

Il Sinodo valdese ha rotto questa barriera e lo ha fatto per fedeltà all’Evangelo: questo, per me, è quello che conta. Tutto il resto, compresa la discussione in corso sul tema della benedizione nella Bibbia e cioè sulla forma da dare a questa accoglienza nella chiesa per quanto sensata e interessante è, a mio avviso, secondaria.

Certamente, insieme a tanti plausi a volte davvero toccanti, ci sono giunte anche delle critiche che non ci nascondiamo. In questo senso confermo e sottolineo che la porta del dialogo resta sempre aperta: uno degli incontri per me più importanti su questo tema è quello avuto nello scorso autunno con i leader africani di alcune chiese multietniche: le posizioni non coincidevano, il confronto è stato appassionato ma sempre attento a salvaguardare il patrimonio di fraternità e di condivisione che abbiamo costruito negli anni. Di questo devo dare pubblicamente atto ai leader delle chiese multietniche, ringraziandoli per il loro servizio di mediazione culturale e per il loro sforzo a proseguire il confronto pur nell’esplicitazione del loro dissenso».

A proposito delle chiese multietniche, nella vostra relazione vi soffermate sul processo di “Essere chiesa insieme” definendolo un processo complesso che richiede analisi, coraggio e flessibilità. In che senso?

«Vorrei dire che ciò che noi convenzionalmente chiamiamo “Essere chiesa insieme” in realtà è l’asse strategico su cui sta crescendo la nostra Chiesa e che sta ridefinendo il profilo del protestantesimo in Italia. Le statistiche ci dicono che ormai il 10-15% dei nostri membri di chiesa sono immigrati provenienti soprattutto dall’Africa e dall’Asia.

Questo dato è già rilevante ma potrebbe ancora crescere ed il fatto che l’Opera per le chiese metodiste (Opcemi), avvalendosi della collaborazione della Commissione Essere chiesa insieme della Fcei, stia raccogliendo dei dati nell’area napoletana in vista di un possibile progetto di lavoro, dimostra che il cantiere è aperto.

D’altra parte, visitando le comunità risulta evidente che “Essere chiesa insieme” è una indicazione programmatica alla quale corrispondono pratiche e modelli anche molto diversificati: quando parlo di flessibilità, intendo riconoscere questa realtà e considerarla una ricchezza. Lo affermo sapendo che ci sono anche delle criticità e delle sofferenze. Tuttavia pochi temi come questo ricorrono in tutte le nostre assemblee e sono certa che anche questo Sinodo ci darà indicazioni utili su come crescere nel nostro “Essere chiesa insieme”». (…)