Le religioni istituzionali e il problema della pace

Paolo Bonetti
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Si è svolta ad Assisi, alla presenza di Benedetto XVI che vi partecipava per la prima volta, la giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace, nel venticinquesimo anniversario dell’evento voluto nel 1986 da Giovanni Paolo II. Vi hanno partecipato, oltre ad esponenti di primo piano della Chiesa cattolica, rappresentanti ufficiali di altre religioni, cristiane e non cristiane, oltre a quattro intellettuali non credenti che, naturalmente, rappresentavano solo se stessi.

Ma prima di fare qualche riflessione su questo evento, vorrei ricordare alcune considerazioni del filosofo Gianni Vattimo su manifestazioni del genere. Vattimo si proclama cattolico, ma il suo cattolicesimo ha ben poco a che vedere con quello dell’istituzione ecclesiastica che si dice cattolica, vale dire universale, ma che poi non lo è, perché corrisponde soltanto ad una particolare tradizione del cristianesimo, autorevole quanto si vuole, ma certamente non detentrice esclusiva del messaggio salvifico di Cristo.

Vattimo, in una conferenza tenuta ad Oslo nel febbraio del 2009, La religione è nemica della civiltà?, e pubblicata l’anno scorso dalla casa editrice Mimesis in un volume collettaneo, Laicità e filosofia, a cura di Gianluca Miligi e Giovanni Perazzoli, sostiene che “Gesù non ebbe mai una casa o una pietra su cui poggiare la testa. Inoltre, tutti i predicatori e fondatori delle religioni tradizionali erano figure non-istituzionali”.

Secondo il filosofo torinese, il nostro tempo non ha bisogno di religioni istituzionali, perché esse “non sono più di aiuto per una pacifica esistenza umana, non rappresentano più un mezzo di salvezza”, ma sono diventate, in molti casi, “un principio di divisione e di conflitto”. Nei dialoghi inter-religiosi, organizzati dalle religioni-istituzioni, non si dialoga “in vista di un eventuale cambiamento; il dialogo è solo un modo per riconfermare la propria autorità sui rispettivi popoli”.

Sono parole molto dure e trancianti, anche se andrebbe osservato che le religioni-istituzioni non è da oggi che costituiscono un fattore di scontro fra le civiltà, nonostante predichino quasi tutte il contrario. Le loro pretese egemoniche sono state frenate negli ultimi secoli, almeno in occidente, non dal reciproco amore e rispetto, ma dallo Stato laico e costituzionale che ha imposte ad esse la legge comune.

Ci si potrebbe chiedere se, nella nostra epoca, in cui si diffonde sempre più il bisogno di una religiosità fortemente personalizzata, le istituzioni ecclesiastiche abbiano ancora quella funzione di rassicurazione e di coagulo sociale che hanno sempre avuto. La risposta è, almeno in parte, positiva, perché ci sono, nelle società contemporanee, fenomeni di anomia e di smarrimento civile che fanno rinascere un comprensibile bisogno di tutela, anche in presenza di una crisi economica globale che distrugge certezze e speranze per milioni di persone.

Non credo che si sia entrati nella cosiddetta età post-secolare; la questione è più complessa, perché, da una parte, i processi di secolarizzazione del costume avanzano ovunque, ma, dall’altra, l’orizzonte del sacro, in forme molteplici e talora radicalmente contrastanti, è chiamato a dare un senso a vite che riescono con difficoltà a reggere l’urto con una realtà sociale ed economica che poco si cura dei drammi personali. Le chiese tornano spesso a esercitare una forma di protezione materna di fronte alle insicurezze crescenti di chi si sente emarginato nella gara ossessiva per la ricchezza e per il potere.

Anche sul tema della pace, l’efficacia delle religioni-istituzioni è più consolatoria che effettiva. Ammesso è non concesso che sia possibile arrivare a una pace duratura e ben garantita, il contributo delle istituzioni ecclesiastiche si riduce alla continua ripetizioni di sublimi banalità che, sia detto brutalmente, lasciano il tempo che trovano. Sono ammonimenti, condanne o inviti all’amore e alla comprensione reciproca, che le religioni, quando non sono intente a farsi la guerra, ripetono da che mondo è mondo con risultati quasi sempre deludenti.

Quando una qualche forma di pace viene raggiunta, comunque sempre precaria ed incerta, gli strumenti che conducono a questo risultato, sono politici, economici o diplomatici. Si vuol forse dire con questo che le religioni non hanno alcuna importanza nel favorire una migliore vita civile? Anche questa risposta non corrisponderebbe alla realtà dei fatti, perché tutti possiamo constatare quante opere di bene, di solidarietà sociale, di protezione dei più deboli, siano generate dallo spirito religioso.

Ma anche la religione, come tutto ciò che è prodotto dagli uomini, ha una natura ambigua, continuamente oscillante fra le tentazioni del potere e lo spirito di carità. Soprattutto quando la religione, intesa dapprima come fede nella rivelazione di un qualche profeta, diventa poi istituzione che pretende di identificarsi con la verità e il bene. Allora diventano inevitabili i conflitti con le altre fedi religiose e si fa viva la tendenza a prevaricare sulla legge comune, a pretendere trattamenti di favore, perfino a decorare col nome di libertà quelli che sono semplici privilegi. Ma la libertà vera, anche delle istituzioni religiose, la garantisce soltanto lo Stato laico.