Un messia degli ultimi

Alessandro Esposito
Adista n°89 del 3 dicembre 2011

Chiunque si accosti ai Vangeli scopre che si tratta di testi popolati di gente umile. E umili sono soprattutto quanti di dedicano ai lavori che insegnano un rapporto con la terra: perché da lì viene “umile”, da humus; e da lì che veniamo anche noi, “uomini”, tratti dalla terra, impasto di polvere e lacrime dentro cui si agita un soffio, un respiro. Umili per antonomasia sono i pastori, quelli veri intendo: donne e uomini chiamati alla cura, a divenire osservatori acuti e ascoltatrici attente.

A loro è affidata la vita di un gregge, per custodire il quale, il più delle volte, essi sono chiamati a star dietro, alle sue spalle: si pongono alla sua testa esclusivamente in caso di pericolo. Questo “senso della posizione” dovrebbe essere appreso da chi il pastore lo fa in una Chiesa e che si trova assai spesso in prima fila piuttosto che nelle retrovie, a togliere protagonismo e centralità a quella comunità che egli è chiamato a servire scoprendoni doni e non a “guidare” con il suo carisma.

Il pastorato è un ministero, ovvero è un servizio: non ha autorità alcuna il pastore; dovrebbe essergli riconosciuta, piuttosto, autorevolezza, sempre da quella comunità che è chiamata a formarlo, ad accompagnarlo e, quando è utile, a contraddirlo.

Un passo indietro rispetto alla sua comunità: ecco il posto che spetta al pastore. Quello che di solito egli occupa di meno. Imparare ad esporsi soltanto quando serve: e si tratta, il più delle volte, di momenti delicati, di circostanza scomode e talvolta persino rischiose. È in quei frangenti che un pastore è chiamato a dimostrare, nei fatti, il suo amore per la comunità e la sua vocazione profetica assai prima che ecclesiastica: è lì che deve stare un passo avanti. Ed è lì, molte volte, quando più si avrebbe bisogno di lui, o di lei, che scompare, si dilegua.

I pochi che, invece, si espongono, sono spesso oggetto delle rispettive Chiese, che non di rado finiscono per abbandonarli al loro destino, con la scusa, sempre valida, che “in fondo se la sono cercata”. Poi, quando le acque si sono calmate, ne faranno dei santi: sempre dopo, però. Prima non conviene. I santi sono utili dopo; prima servono donne e uomini: ma di quelli se ne trovano pochi, sono merce rara.

Noi occidentali, è noto, abbiamo con la terra un rapporto di possesso, fondato sul presunto diritto allo sfruttamento: di fatto la terra non la conosciamo più e non sappiamo più ascoltarne le richieste e i clamori. Abbiamo dimenticato che da noi dipende la sua vita e da lei la nostra sopravvivenza.

Non così i pastori: loro, umili, sanno di venire dalla terra, di esserle debitori di tutto ciò che sono e non solo di ciò che hanno. Ed è a loro che Dio affida il lieto annuncio, che prende il volto di un bimbo: perché chi ha cura della terra garantisce a lei e a sé un futuro. Di questo neonato il messaggero di Dio dirà qualcosa di inatteso: “È stato generato per voi oggi un salvatore”.

Il nome stesso del piccolo, Gesù, in ebraico Yehoshua, significa proprio “Dio ha salvato”: al passato, perché la lingua ebraica non conosce il presente. La salvezza è comunicata come un qualcosa di già avvenuto, come ciò che sta da sempre nei pensieri di Dio.

Come Chiese cristiane siamo (mal) abituate a declinare questa salvezza in senso religioso, astratto, in fin dei conti innocuo, perché una religione costituita non scomoda i poteri, li legittima. Invece il Dio che specchia la propria volontà nel volto di un bimbo parla la salvezza in ben altro modo: questo salvatore, dice infatti il messaggero di Dio, è “per voi”: intendendo, con ciò, quegli stessi pastori a cui le sue parole sono dirette.

È un messia per diseredati, che chiama gli ultimi quali suoi testimoni, perché saranno proprio costoro i destinatari di un evangelo che è rivolto a tutti soltanto nella misura in cui esso rivela la sua parzialità in favore degli esclusi”.