A ognuno i suoi valori (non negoziabili)

Roberto Rivosecchi
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Lavori in corso, si potrebbe dire, nel campo della teologia delle religioni, meglio, del pluralismo religioso. Sono lavori decentrati, sia per ubicazione geografica che istituzionale. Il Centro romano si guarda bene dal favorirli. Tace, sembra far finta di niente e, quando non può, ammonisce e notifica. Come è avvenuto con Jacques Dupuis, gesuita belga, notificato nel 2001 dalla Congregazione della dottrina della fede (prefetto Joseph Ratzinger, segretario Tarcisio Bertone), in quanto introduceva ambiguità e difficoltà su punti dottrinali quali mediazione salvifica unica e universale del Cristo e Rivelazione.

In realtà Dupuis tentava una mediazione nel dibattito sul pluralismo religioso tra la linea inclusivista, le religioni sono vie salvifiche però subordinate al Cristo, e la linea pluralista, le religioni sono vie salvifiche equivalenti, introducendo il principio di “mediazioni complementari”. Cercava in sostanza una via praticabile tra annessione e pluralismo, un superamento in ambito cattolico dell’“Extra Ecclesiam nulla salus”. La lunga indagine dottrinale segnò di sofferenza la sua voce profetica e gli ultimi anni di vita. Il classico, quasi consueto, “patire dalla Chiesa”. Ma non si torna indietro.

Come sostiene Luiz Carlos Susin, segretario del “Forum mondiale di teologia e liberazione”, la condizione plurale è una caratteristica del nostro tempo, è un fatto della vita stessa che diventa necessità nella globalizzazione. Si impone come superamento dell’unicità, dell’universalismo e assolutismo occidentali. Addirittura un nuovo “Illuminismo” a partire dalla pluralità e non dalla identità con pretesa di universalità. Sia pure nel segno della fedeltà al Cristo, la teologia si apre fisiologicamente al dialogo con gli altri.

Inevitabile il cambiamento verso una spiritualità che sappia riconoscere e superare le consuetudini di un culto orientato a Dio e non certo alla liberazione dell’uomo, sicuramente non degli uomini cui si rivolgono le Beatitudini. La ricerca teologica evolve e sembra indicarci la strada. Non solo in termini religiosi. Su questa strada di dialogo e liberazione, si pone il teologo americano Paul Knitter. Pellegrino interreligioso, da cristiano a buddista e viceversa, tra i valori che sostanziano una democrazia pone la effettiva uguaglianza delle religioni.

Per non correre rischi, lui prete non lo è più. Non fa mediazioni e opta decisamente per la linea pluralista: la molteplicità delle religioni è voluta da Dio, fa parte della economia della salvezza. Si può essere completamente impegnati col Vangelo e allo stesso tempo aperti a ciò che lo Spirito possa rivelarci attraverso le altre comunità religiose. In termini teologici la seconda e la terza persona della Trinità, Figlio e Spirito, sono in relazione continua e si arricchiscono l’un l’altro. Quindi i cristiani non soltanto possono, ma devono essere pluralisti: l’impegno col Gesù particolare apre allo Spirito universale. Il nostro Gesù si fa cammino per altri cammini.

Quando in Giovanni dice “Io sono la via”, aggiunge Knitter, “credo volesse dire questo”. Ma il percorso non è completo. Acquisita la compatibilità tra buoni cristiani e buoni pluralisti, manca ancora l’impegno per la liberazione. Una liberazione come la intendevano le prime comunità cristiane: non escatologica, ma rivolta all’immediato. Oggi si direbbe “un altro mondo possibile”. Il messaggio di Gesù pone infatti come nucleo centrale la realizzazione di un Regno in cui il diritto di cittadinanza spetta non a chi dice “Signore, Signore”, ma a chi alimenta l’affamato, veste l’ignudo, visita il prigioniero.

Conta la sostanza, non certo la preghiera formale e non è richiesta l’appartenenza. Quindi qualunque persona o qualunque religione, se adotta questi comportamenti, contribuisce a quello che per Gesù è il Regno di Dio, un mondo di reciprocità, dignità e giustizia per tutti. Ben venga questo argomentare. A questo pluralismo religioso concediamo ogni sorta di spazio pubblico. Non scalfiscono il messaggio le voci critiche che richiamano all’osservanza dogmatica e ad una supposta ascendenza marxista: è argomentare che fa tutt’uno con le semplificazioni populistiche al seguito di un personaggio di cui ci siamo liberati da poco.

Il vero problema sta altrove: nel rapporto tra questa teologia e le società. Lo si deduce dall’analisi di Nadia Urbinati sulle teorie democratiche post secolari. Queste hanno favorito la riabilitazione delle religioni nella sfera pubblica, delegando loro, in particolare, una funzione di consolidamento dei valori etici. Questa connotazione positiva del ruolo pubblico della religione, dice la Urbinati, è valida a condizione che la società in cui essa opera goda di un effettivo pluralismo religioso. In caso contrario si viene a subire il potere pervasivo dell’unica religione in campo. Il caso italiano è esemplificativo della mistificazione di questo ideale di democrazia, per così dire, allargata.

Infatti si concede alle religioni di uscire dalle coscienze e dalle sacrestie e di occupare a volontà lo spazio pubblico. Peccato che sulla piazza abbiamo una sola religione e tutti corriamo a pensare, in una forma di captatio benevolentiae, secondo i suoi canoni. Il gioco è fatto: da fattore di estensione di libertà la monoreligione si è trasformata in fattore di decurtazione della libertà e omologazione del pensiero. Ne deriva che, se in questa fase storica la religione, si potrebbe dire per consuetudine, ha diritto allo spazio pubblico, questo stesso spazio, a garanzia delle libertà democratiche, deve essere praticato da una pluralità di religioni.

In buona sostanza la teologia del pluralismo religioso, tanto avversata dal Vaticano, sembra diventare una necessità democratica. Quanto detto calza a pennello per la effettiva messa in campo di questa teologia: ove non c’è effettivo pluralismo non sarà possibile alcuna forma di dialogo, di commistione tra religioni su un piede di parità. Avremo solo belle parole a nascondere una supremazia annessionistica. Nella situazione data, il massimo cui possiamo aspirare sembra essere il cosiddetto modello di accettazione: ognuno vive il proprio mondo culturale, seguendo un particolare cammino di “salvezza”. Tanti cammini paralleli, che si rispettano e si accettano, ma non si incontrano mai.

Di più: se, giustamente, i pluralisti nutrono dubbi sulla verità assoluta e introducono il carattere relativo di tutte le affermazioni di verità, la mia affermazione di verità diviene indeterminata e fungibile rispetto alle altre. Difficile pertanto abbandonare la propria cultura e cambiare le regole a partita in corso. Se infine a tante affermazioni di verità, che costituiscono l’impossibilità della Verità, aggiungiamo la “non autosufficienza” costituzionale dell’individuo, ritorneremo inevitabilmente all’affidamento alla nostra verità. Non si sfugge: ad ognuno i suoi valori non negoziabili.