La qualità è nello sguardo. Ritrovare il tempo lento della vita

Antonia Tronti“Oreundici”, quaderno di gennaio 2012

Quando si pensa alla percezione che l’India ha del tempo, la prima sensazione che arriva è un profondo senso di vertigine. L’India guarda infatti alla nostra esperienza del qui e ora senza esitare neanche per un momento a metterla immediatamente in relazione con il divino, i cui tempi hanno delle misure talmente smisurate da far apparire non solo ogni minuto della nostra vita, ma l’intera vita di un individuo, e l’intera vita di generazioni, e i secoli, i millenni, le ère, come brevissimi attimi, impercettibili “battiti di ciglia” dentro i “movimenti” dell’inafferrabile Brahman.

Un anno umano corrisponde, più o meno, a un solo giorno nella vita degli dèi, per cui trecentosessanta giorni nella vita degli dèi (un anno di vita degli dèi) equivalgono circa a trecentosessanta anni umani. Dodicimila di questi anni formano un ciclo del mahayuga, che contiene in sé le quattro età che corrispondono più o meno alle nostre età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro, e mille di questi mahayuga (12 milioni di anni) formano un kalpa, ovvero un giorno di vita di Brahma, la forma creatrice del divino. Cento anni della vita di Brahma (432 miliardi di anni divini, ovvero 155.520 miliardi di anni umani), poi, corrispondono a un battito di ciglia del Signore Supremo… Eccolo, inevitabile, il senso di vertigine!

Non stupiscono allora quei racconti, così diffusi nella tradizione indiana, in cui una persona viene portata a smascherare il valore ingannevole del tempo e di quel che in quel tempo ha vissuto, o ha creduto di vivere. Lo schema classico di questi racconti suona più o meno così: due persone stanno tranquillamente camminando, quando una delle due si perde in un’esperienza che gli fa dimenticare cosa stava facendo prima e la fa entrare in un nuovo dispiegamento di vita con cui arriva ad identificarsi completamente.

Ad es. un maestro e un discepolo camminano per una
foresta ed arrivano in riva ad un fiume: il maestro dice di avere sete ed il discepolo si accinge a prendere dell’acqua da dargli, quando scorge una bellissima fanciulla sull’altra sponda, di cui si innamora all’istante, tanto che attraversa il fiume, dimenticando totalmente il maestro, ed inizia a corteggiare la ragazza. Intorno a lei incontra anche tutta la realtà familiare e sociale in cui lei è immersa e dunque si sottopone a diverse prove per poter arrivare a sposarla, dopodiché trova un lavoro ed assume anche lui un ruolo all’interno di quella società.

Gli nasce un figlio, poi un altro, passano gli anni e la sua vita sembra ormai stabile, quando un giorno arriva un’alluvione che travolge la casa e fa morire tutti i familiari: la moglie annega e lui tenta di salvare i figli, ma mentre uno gli sfugge di mano e l’altro gli scivola dalla schiena, nel momento della disperazione più grande, l’acqua in cui egli sta nuotando disperatamente torna ad essere un piccolo fiume tranquillo, alle cui sponde non c’è traccia né della sua casa, né di sua moglie né dei figli, mentre invece appare la figura serena del maestro, dalla cui sete era iniziata tutta l’avventura, che col suo volto sereno allunga la mano per prendere la coppa con cui il discepolo ha raccolto l’acqua da dargli per dissetarlo. Svelando così che tutti gli anni di vita passati nel villaggio corrispondevano soltanto ad un breve attimo nell’esperienza del maestro.

Metafora di quella tendenza che è propria di ciascuno di noi a perderci affannosamente nei meandri delle mille cose che riteniamo di dover fare, acquisire, raggiungere. Vittime del potere illusorio e ingannevole di maya, che ci fa dimenticare la relazione col maestro e con l’origine. E ci fa entrare in un tempo affannoso, al cui ritmo la nostra vita tenta di adeguarsi. Dimenticando che i tempi del divino, i tempi della profondità, i tempi della reale trasformazione sono tempi lenti, lunghi, all’interno dei quali si dispiegano le autentiche possibilità evolutive del vivere.

L’arte dello Yoga è uno dei tentativi elaborati dall’India per riportarci a quei tempi lunghi. Di estrarci dalla tentazione della velocizzazione fondata sul fare e di ricondurci ai ritmi reali della Vita. Che sono i ritmi del lento e graduale mutare, del lento e graduale scivolare da una forma all’altra, da una stagione all’altra, dal giorno alla notte, dalla notte al giorno, dalla condizione a polmoni pieni alla condizione a polmoni vuoti, e dalla condizione a polmoni vuoti alla condizione a polmoni pieni, e del lento passaggio dalla posizione distesa alla posizione in piedi e dalla posizione in piedi alla posizione seduta… non attraverso bruschi scatti, ma attraverso l’adattamento e l’armonizzazione continua di una parte del corpo rispetto all’altra, e del corpo rispetto alla terra, e del corpo rispetto allo spazio circostante… e si potrebbe continuare all’infinito…

Per dire quanti piccoli movimenti interni ci sono nello spazio di un attimo, e quanto osservarli permette ad una parte di noi di fermarsi a guardare, di prendersi tempo per osservare. Ed eccolo allora, di nuovo, il tempo di cui ci parlano gli antichi testi indiani: il tempo dell’Osservatore, il tempo di Chi non si lascia incastrare nell’illusione della velocità, dell’efficienza, del risultato immediato.

Il tempo del maestro che attende la sua coppa d’acqua mentre il discepolo si immerge cieco e senza sguardo nella vita, e si lascia prendere da essa dimenticando. Dimenticando e confondendosi. Immergendosi talmente in quanto gli accade da arrivare a pensare che il mondo sia solo quel piccolo spazio che gli ruota intorno, e che tutto inizi e finisca a partire da lui. A partire dal momento in cui ha preso forma nel mondo e fino al momento in cui lo dovrà lasciare. E che il suo “io”, comprensivo di affetti, possessi, incarichi, ruoli, ecc., sia tutto ciò che conta, l’unica cosa da difendere, gratificare, alimentare. Mentre la sua parte più profonda e autentica resta lì, da una parte, in riva al fiume, ai bordi di quello spazio, in attesa di essere ricontattata.

Nell’affanno, nella velocità, nel piccolo mondo delle storie che hanno come protagonisti i nostri piccoli “io” la trama è più o meno sempre la stessa – sembrano dirci i testi sapienziali indiani – simili gioie, simili dolori, simile attraversamento inconsapevole degli eventi. Ogni giorno affannati alla ricerca di soluzioni più o meno efficaci, di scelte più o meno giuste, di azioni più o meno incisive. Da tutto questo non possiamo esimerci. Ma la qualità di tutto questo quotidiano vivere non è nelle soluzioni, nelle scelte, nelle azioni. Bensì le precede e le fonda. La qualità è nello sguardo. Nello sguardo che si ferma ad osservare tutto ciò che accade.

E scorge i piccoli mutamenti che sono alla base dei grandi, i graduali passaggi che portano alle apparentemente improvvise svolte, tutte le inspirazioni che ci sono dopo la prima, quella che ci ha inserito nella “scena di questo mondo”, e tutte le espirazioni che precedono l’ultima, quella che ci estrarrà da essa. Il lento prepararsi del giacinto alla fioritura ed il suo lento appassire. Il lento lavorio delle gemme prima dell’esplosione dei colori primaverili. Il permanere della luna quando già è sorto il sole e si è fatto giorno. L’apparire delle prime stelle già all’imbrunire…

Itempi del corpo sono lenti. Più lenti dei tempi della mente. Perché sono i tempi del corpo della Realtà, i tempi della materia, esposta ai decenni, ai secoli, ai millenni. Si cambia lentamente. Si apprende lentamente. Perché interiorizzare, incarnare, imprimere nella materia un novum ha bisogno di tutta una serie di riarmonizzazioni che non avvengono nell’immediato. Lunghi anni di apprendistato. Le Upanishad raccontano di discepoli che sostano anni e anni ai piedi del maestro procedendo per piccolissimi passi sulla strada che porta dall’illusorietà che imprigiona alla Verità che libera. E gli insegnamenti del maestro sembrano arrivare come piccole gocce, che cadono nella mente-cuore dei discepoli solo quando essa è terreno fertile in grado di farsi fecondare e trasformare.

Il discepolo, dice Patanjali negli Yoga Sutra, deve avere la qualità della perseveranza, deve essere disposto a sottoporsi ad una pratica che, per avere efficacia, deve essere ripetuta “a lungo” e “senza interruzione”. La lentezza penetra nella profondità. E scava. E radica.

La prima pratica: la più importante: guardare. Perché guardare è già rallentare. E’ già entrare in un tempo più vero, più vicino alla Realtà. Che non corre mai. Non si affanna. Non ha niente da raggiungere, niente da ottenere. Ogni volta che guardiamo, già rallentiamo. Ogni volta che ci concediamo alla consapevolezza, già cade l’illusione della velocità, perde di senso, si svuota della sua pretesa di dominare il fluire della vita. Osservate il respiro: ed eccolo, è già divenuto più lento. Osservate il vostro camminare: ed ecco, i vostri passi già stanno rallentando. Osservate i movimenti del pensiero: ed ecco, già la mente lascia più spazio tra un pensiero e l’altro.

Perché lo sguardo è al di qua anche di quei piccoli mutamenti, al di qua del tempo, di qualsiasi tempo. Più vicino al tempo lento, perché il tempo lento è più vicino ai tempi degli dèi e al tempo-non-tempo del divino, a quella che abbiamo chiamato per secoli eternità. Ma è al di qua anche del tempo lento. Guardare ci ricorda che siamo sempre l’uno e l’altro: il gioco del movimento e l’eternità del guardare. La danza della forma individuale che il divino prende attraverso di noi ed il Suo essere sempre anche prima e dopo di noi.