Di serie A e di serie B

Giuseppe Platone
Riforma (settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste, Metodiste e Valdesi) – 23 marzo

Il 13 marzo il Parlamento europeo ha adottato il suo Rapporto annuale sull’uguaglianza tra donne e
uomini nell’Unione europea. Il rapporto riconosce che «le famiglie nell’Unione europea sono
diverse» e afferma che è inammissibile che alcuni governi «mettano in atto definizioni restrittive
della definizione di “famiglia” allo scopo di negare la protezione legale alle coppie dello stesso
sesso e ai loro bambini».

Due giorni dopo, in Italia, la Corte di cassazione ha sentenziato che alle
coppie omosessuali spettano gli stessi diritti assicurati a quelle eterosessuali, anche se ha ritenuto
che non si possa trascrivere in Italia un matrimonio omosessuale celebrato all’estero, perché la
legge italiana non lo consente. La stessa sentenza (n. 4184), tuttavia, ritiene che sia «superata la
concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire
“naturalistico”, della stessa “esistenza” del matrimonio».

Il voto del Parlamento europeo e la
sentenza della Cassazione ripropongono l’urgenza di colmare il vuoto legislativo che fa dell’Italia
uno dei fanalini di coda europei nel riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali – anche se il
ministro Riccardi (fondatore della Comunità di Sant’Egidio) si è affrettato a dichiarare che un
provvedimento del genere non rientra nel programma di governo. E il quotidiano dei vescovi ha
tuonato contro questa sentenza «creativa» che metterebbe la famiglia «sotto assedio» con un
«nuovo sorprendente pronunciamento su un principio non negoziabile» (Avvenire del 16 marzo).

Voto e sentenza riaccendono anche il dibattito tra coloro che sarebbero disposti (in teoria almeno…)
a un qualche tipo di riconoscimento delle coppie, purché ben distinto dal matrimonio, e coloro che
ritengono che si debba aprire l’istituto del matrimonio anche alle coppie omosessuali.
Che cosa possiamo dire, come protestanti?

A me pare che Dio non sacralizzi mai l’autorealizzazione umana, foss’anche la famiglia. Il
matrimonio per noi non è un sacramento, non è qualcosa di «sacro»: è sostanzialmente un patto tra
due persone responsabili che si amano e intendono consensualmente, liberamente e reciprocamente
condividere la loro esistenza. Non penso che il significato profondo del matrimonio stia nei figli.

Certo, la loro presenza arricchisce il vincolo (salvo eccezioni). Non credo neppure che stia nella
pratica sessuale: certo, anche questo è un prezioso dono di Dio che rende tutto molto più luminoso e
lieto. Il matrimonio sta in piedi o cade sull’amore gratuito, reciproco, disinteressato, responsabile,
«senza se e senza ma» verso l’altra persona.

Perciò mi sembra patetico e discriminante che oggi occorra parlare di matrimonio di serie A (quello
tra eterosessuali) e in subordine di coppie di fatto, «Pacs», «Dico» o altre definizioni che in buona
sostanza dicono trattarsi di matrimoni di serie B, C, D. La comunità omosessuale rischia di essere
ancora una volta discriminata, messa in una condizione di oggettiva inferiorità rispetto al
«matrimonio principe». Chi sul trono e chi sullo sgabello. C’è da chiedersi perché la tutela, nei
diritti e nei doveri, dell’unione di coppie gay non possa realizzarsi attraverso l’istituto giuridico del
matrimonio connotato in modo uguale per tutti. Che cosa toglie l’unione matrimoniale di una
coppia gay al matrimonio di una coppia eterosessuale? Nulla.

Al contrario: fa positivamente emergere una pluralità che arricchisce tutti. Se proprio toglie
qualcosa, toglie il velo a secoli di crudeltà e ipocrisie. Nel 1975 il nuovo Codice di famiglia ha
rivoluzionato in parte l’Italia, i referendum hanno (per nostra fortuna) completato il quadro. A centocinquant’anni dall’ingresso del matrimonio civile in Italia (prima di allora ci si sposava solo
davanti al prevosto) possiamo seriamente cominciare a chiederci: perché differenziare il matrimonio
tra «buoni» e «cattivi»? Se il matrimonio è un patto che prevede diritti e doveri nel costruire tra due
persone un rapporto di solidarietà, reciproco e responsabile, diamogli tranquillamente un solo nome,
con gli stessi diritti e doveri.